Ti sembra che io non sia minorenne? Comunque. Sono nato nel dicembre del 1998 in Costa d’Avorio, ma sono del Burkina Faso. Non fare quella faccia di far finta di sapere dove si trovano. E cosa è successo lì. Per voi Africa è Africa e basta. Ma vabbè, scrivi. I miei genitori lavoravano lì quando sono nato perché mio padre aveva dei campi di cacao. Li aveva comprati eh. Ma era un immigrato, pensa.  In Burkina c’è troppo sole. Brucia tutto. E allora mio padre se ne è andato lì, ha disboscato i campi e ha piantato il cacao.

Ce ne erano altri, che non erano ivoriani e avevano avuto la stessa idea e tra loro litigavano, eccome. E c’erano imbrogli e se le davano anche con il machete, che ti credi. E poi è scoppiata la guerra civile lì e il papà l’hanno ucciso perché lui era straniero e quelli del posto volevano prendersi i campi. Sì mio padre è morto ammazzato perché mi guardi così non c’è un modo bello di dirtelo. E poi a me le lacrime non vengono. Era il 2002 e lui aveva 29 anni e aveva già avuto una moglie e un figlio. Ma da parte di mamma sono figlio unico e mi chiamavo Vincent e mia mamma si chiamava Jacqueline. Eravamo cristiani. Senti qua: je vous salue Marie pleine de grace. Le Seigneur est avec vous. Vous etes bénie entre toutes les femmes et Jesus, le fruit de vos entrail est béni. Sainte Marie, mère de Dieu, priez pour nous, pauvres pecheur. Maintenant, et à l’heure de notre mort. Amen.  Me la ricordo ancora la preghiera, vedi? Se vuoi so anche il padre nostro. Sempre in francese, perché la nostra lingua era il francese. Almeno la sai la storia della colonizzazione e quelle cose lì? Le altre lingue le parlavo solo a casa, e poi mica si scrivono. Lo so che avevo quattro anni. Ma la mamma me l’ha fatta imparare, la preghiera. E mi portava in chiesa e so fare il segno della croce. Ho memoria io. E mi ricordo della mamma.

Comunque. Con mia madre ce ne siamo tornati in Burkina, a Fadangourma, a vivere con lo zio, il fratello del papà. Lì si usa così: se muore un marito, la moglie va ad abitare con il fratello del marito e anche se lo sposa. Lei non si è sposata con lo zio, ma doveva ubbidirgli. Siamo diventati musulmani: lo zio nel frattempo si era convertito e noi abbiamo dovuto fare come lui. Sono diventato Mady. Mia mamma è diventata Ramata e non portava il velo, però. Ma siamo andati dall’imam che ha ucciso un montone e mi ha cambiato nome. Eh, forse lei non era contenta. Io non lo so. È andata così, non so se mi fa strano. Forse. Lo chiamavo papà, lo zio. Quello vero non me lo ricordo tanto. Avevamo una casetta, la scuola vicino. La mamma stava a casa e coltivava i campi attorno: fagioli, miglio, mais. Avevamo anche un carretto con l’asino. Anche lo zio coltivava, ma aveva un ufficio, anche. Perché era diventato un politico della città, uno importante. Andavo a scuola, avevo gli amici. Se ero un bambino felice? Credo di sì. Alla sera tornavo da scuola e mangiavo con la mamma. Dopo i dieci anni mangiavo con lo zio, anche quando la mamma era viva. E lei mangiava da sola, per conto suo. Non è giusto, ma si usa così da noi. La donna in Africa è inferiore. Io quando avrò una moglie mangerò con lei.

Nel 2009 la mamma si è ammalata e l’hanno portata in ospedale alla capitale, Ouagadougou. Non so di cosa. Era ammalata, capisci? Io non sono neanche andato a trovarla. Era così, non potevo mica cambiare le cose, ero un ragazzino, allora. Poi lei è morta. Fine. Continuavo ad andare a scuola e stavo con lo zio, che era diventato un pezzo grosso del partito del presidente e ora avevamo anche una bella casa. Lo sai no? Il presidente Blaise. Il dittatore, capo del partito e della nazione. Certo che qui non sapete niente di noi. Nel 2014 la gente ha detto basta e ha fatto la rivoluzione. Lui aveva rubato i soldi a un sacco di gente. Ha ucciso e rovinato la vita di tante persone. C’erano un sacco di manifestazioni. Io avevo 15 anni. Hanno bruciato la nostra casa. E poi anche lo zio. Tutti scappavano e si nascondevano. Io ero con un amico a casa sua a bere the. Alla sera ho provato a fare ritorno a casa. Ho visto fumo. Mi hanno fermato. Mi hanno picchiato. Sapevano che ero il nipote di mio zio. È arrivato uno con un machete. Per fortuna mi ha colpito solo al braccio, guarda qua. Sì la cicatrice è grossa perché mica potevo andare al pronto soccorso. Però mi hanno aiutato: sono scappato da un amico dello zio che un po’ mi ha curato. Poi mi ha dato l’equivalente di 300 euro e ha detto scappa, ragazzo, io non ti posso proteggere. Se esci da qui e rimani in giro non so cosa ti succederà. Scappa. Sono andato in Mali, in autobus. Era l’ottobre del 2014. Avevo uno zainetto, la carta scolastica e qualche vestito. Qualcosa per curare la ferita. Non avevo paura di andare in un altro Paese. Avevo paura di morire, certo, che ti credi. Ma sapevo che avrei potuto ricominciare a vivere. Sono sceso in una città e giravo un po’. Per fortuna conoscevo la lingua. Ho affittato una camera per 25 euro al mese. Ma non trovavo da lavorare. Mangiavo per strada, un euro bastava. Sapevo che la mia vita era cambiata per sempre e mi ripetevo verrà un giorno che arriverà la mia vera vita.

Ero obbligato a cavarmela da solo. Ma capivo che il Mali non era il mio futuro, lì non c’era lavoro. Ero un piccolo ragazzo. Pensavo spesso al passato. Ma non piangevo. C’è questa storia delle lacrime: non so piangere: io trattengo le lacrime, non voglio piangere, che poi magari non smetto più. Ma mi piace parlare. Parlo per dimenticare e parlando supero e rendo vuoto il passato dentro di me. Se sto zitto mi viene da pensare e non mi piace mica. Non posso cambiare la mia vita né far tornare i miei genitori. Dicono che matto che sei, Mady. Ma io dico anche che l’acqua caduta non si può raccogliere. Dopo un mese mi rimanevano tipo 150 euro. Ho detto a uno voglio andare in Algeria. Mica volevo venire in Italia, sai. E chi la conosceva l’Italia. Volevo andare a lavorare in Algeria.  Ma immagina che non c’è proprio una strada, per andarci, c’è il deserto. E io non lo sapevo. Quello mi ha detto per 100 euro ti faccio il viaggio. Mi ha messo su un autobus rotto che mi ha portato dopo tre giorni di viaggio fino ai confini tra Mali, Algeria e Mauritania. Ho comprato 5 litri d’acqua per affrontare un altro viaggio di 5 giorni in un camion. Ne sarebbero serviti 20, di litri. Avevo fame e sete e caldo. Eravamo pigiati in una specie di camion dei traslochi in cento. Tutti chiusi dentro. Tutti uomini lì. Tutti grandi, non ragazzi come me. E mi trattavano da piccolo e mi dicevano ma dove vai da solo.  C’erano solo due donne con dei bambini, seduti davanti. Lo chiamo l’inizio del secondo periodo della mia vita, quello. Avevo sempre più sete: qualcuno mi ha regalato l’acqua, rimproverandomi. Ma io che ne sapevo di come si andava lì? Ogni tanto ci fermavamo perché entrava troppa polvere nel camion, e non si vedeva neanche il vicino. Certi avevano la mascherina, erano organizzati. Io mi tenevo la maglietta davanti al viso.

Finalmente siamo arrivati vicini al primo villaggio algerino. Eh ma mica ci hanno portato così, a destinazione, che ti credi. No, il camion ci ha lasciato 20 chilometri prima del confine e se ne è tornato indietro. E via a piedi, con il bagaglio in spalla. Una guida ci accompagnava, parlando la lingua del Mali. Avevo un po’ di pane, tonno e acqua comperati in un baracchino lungo la strada. Avevo quasi finito i soldi. Ho detto se volete, portatemi con voi. Poi sono arrivati delle auto con dei militari e hanno sparato. Ci siamo dispersi e io mi sono ritrovato da solo. Ho detto non posso tornare indietro. Ero proprio in mezzo al deserto, c’erano solo delle grotte attorno. Beh avevo paura, ma tanta, sai. Era sera, il sole era tramontato, che da noi fa tutto in un momento. Avevo 15 anni ancora perché erano i primi di dicembre. Ho camminato da solo in mezzo alle ombre per un’ora, verso la direzione urlata dalla guida prima di sparire. A un certo punto ho visto dei cammelli a terra, morti per la sete. Eh, devo dirti che ho cominciato a piangere e ho detto ecco il risultato. Sono da solo e morirò come i cammelli. Però mi sono seduto a mangiare il tonno e il pane e ho camminato un po’. Era notte ormai e non si vedeva nulla e salivo e scendevo. E poi ad un tratto ho visto una luce e poi tante. Anche se fossero stati i militari sarebbe andata bene lo stesso. Era questo villaggio algerino, Timyawe. Ero salvo, almeno per un po’, ho pensato. Ho incontrato dei ragazzi iraniani che vivevano lì da qualche tempo e lavoravano come fabbri. Mi hanno offerto the e cibo e un posto da dormire. Erano gentili. Stavano andando in Libia a lavorare quando avevano, finito i soldi e si erano fermati lì. Io non è che volevo andare in Libia, sapevo che lì c’era la guerra e casino. Intanto dopo due giorni i miei amici del camion mi hanno ritrovato e mi hanno proposto di andare con loro in una macchina per continuare il viaggio. Certo che erano miei amici ormai. Avevo solo loro. Ho detto sì. Eravamo in 17 con i sedili tirati giù. Non ho neanche pagato, era tutto compreso da prima. Fino all’uscita del villaggio tutti giù distesi, uno sull’altro e le tendine ai finestrini. Due giorni così. Ogni quattro ore ci fermavamo, per muoverci un po’. Finalmente siamo arrivati in una città grande dell’Algeria, Talmanrasset. Fine corsa. Non sapevo dove andare e ho chiesto ad altri africani, che lì in nord Africa bisogna aiutarsi tra noi fratelli. Mi hanno spiegato che le persone come me dormono in un foyer, che è una piccola casa vuota con letti dappertutto. Tu ti presenti e dici che sei venuto a lavorare. Il capo è nero. Mi hanno detto sarai manovale: aspetterai in strada al mattino e qualcuno ti prenderà su. Ogni mattina alle sette aspettavo. E poi carriola e pala. E facevo buche, spalavo sabbia costruivo case e le pulivo. Mi pagavano l’equivalente di 57 euro al giorno per 12 ore. Bene no? Ma era pesante, facevo fatica perché ero piccolo, non avevo tanti muscoli, capisci? Ma riuscivo a pagare affitto e cibo. A volte non trovavo lavoro perché mi scartavano. Eravamo controllati. Se lavoravi bene ok, sennò prendevano qualcun altro. Mi consideravano un ragazzino, perchè non avevo molta forza. Non tutti mi trattavano bene. Ma andiamo avanti. Un giorno alcuni di quelli del camion mi hanno proposto di partire con loro per la Libia.

A gennaio 2015 ci siamo messi in viaggio. Mi hanno detto che non era vero che c’era la guerra. Che non era pericoloso.  Abbiamo fatto un viaggio rilassante in un pullman con l’aria condizionata. Forte. Al confine, come prima. Giorni di sosta.  E poi a piedi 30 chilometri di deserto. Eravamo in 25 e nessuno aspettava nessuno. Finché abbiamo raggiunto Ghadames, il primo villaggio libico. Se ero contento? Sì e anche no. Giravo per l’Africa solo per cercare un futuro. Non c’erano mai ragazzi come me, solo uomini con i discorsi da uomini. Ma non è che mi mancasse la mia vita da ragazzo. Avevo altri pensieri, io. Mi stavo trasformando in adulto e non lo sapevo. Ora forse lo sono, che dici? Perchè  sento che il futuro mi preoccupa, e molto. In Libia parlavano arabo e non lo conoscevo. Per arrivare a Tripoli dal villaggio ho fatto il viaggio più allucinante e pauroso che mi è capitato via terra. Eravamo ammassati nel cassone di un furgoncino, con un libico armato che ci picchiava sulla testa e al petto con il mitra quando  urlavamo dal dolore per essere ammassati uno sull’altro. Quando siamo scesi, due di noi non riuscivano più a camminare. Siamo stati affidati a varie auto, come in una staffetta: un unico pagamento iniziale, di 163 euro. Tutti loro  sono collegati. Sono stato lì a lavorare per 5 mesi. Eravamo in 40.  All’inizio era un paradiso. Dormivo in un foyer, avevo conosciuto dei ragazzi senegalesi che facevano anche bene da mangiare, ero pagato abbastanza. Ero riuscito anche a mettere dei risparmi da parte. Un giorno sono arrivati dei ladri armati e mi hanno portato via i soldi. Io ho consegnato tutto subito, che cosa credi, perchè puoi guadagnare solo se sei vivo, ho pensato.  Ma loro poi hanno ucciso davanti a me un mio amico, un ragazzo senegalese. A volte penso alla morte, io. Sta cosa dell’anima non la capisco. Come fai a sentirla da morto, se non la senti neanche da vivo? Cose così.

Era giugno quando ho pensato me ne vado. Non era vita quella. Avevo un po’ di soldi. Avevo sentito parlare delle barche che portavano in Europa. Ho dato dei soldi a un libico che mi ha portato in una specie di stalla. Eravamo in 1000. C’era terra, non pavimento. Niente letti. C’erano insetti, sporco, puzza. Mi sono preso la scabbia. Dovevamo stare chiusi lì dentro ad aspettare di essere chiamati. Intanto ci portavano da mangiare riso, pomodoro, olio. Ma era uno schifo, sai. Il riso era crudo ed era sempre poco. E lo portavano una volta al giorno. Tre settimane così. Quando entravano a chiamare succedeva un casino. Loro urlavano e picchiavano. C’erano anche delle donne, che erano trattate meglio, ma solo perché poi le usavano, ho capito poi. Comunque. Loro entravano e chiamavano... avanti le persone di... perché ognuno di noi apparteneva a un intermediario. Lo ricordo, quando mi hanno chiamato. Tutte le persone di Tyson fuoriiiii. Tyson era africano, come tutti gli intermediari. I libici invece hanno il monopolio del trasporto. E quel giorno siamo arrivati in riva al mare. Eravamo 118, ci siamo contati. C’erano quattro donne, dal Ghana, dalla Guinea Bissau, dall’Etiopia. Io ero il più giovane. Avevo 16 anni. Gli altri tutti sui 25. Era la notte il 21 giugno 2015. Prima di farmi salire a bordo qualcuno ha gettato via il mio documento di identità, perché aveva delle scritte in rosso, e in mare il rosso porta sfortuna, dicevano. Pensa te. Quasi nessuno di noi sapeva nuotare. Ci hanno dato delle brioches, delle bottigliette d’acqua. Ci aspettava un gommone grigio. Siamo saliti ed eravamo strettissimi. Un lato era bucato, ma siamo partiti. Chi guidava era un ex carcerato della Guinea Bissau, liberato quando hanno scoperto che faceva il pescatore. Chissà se aveva mai guidato però. Ma era bravo. Di fatto ci ha salvato la vita. Dopo ore di mare la gente si è spaventata vedendo che il gommone era sbilanciato. Qualcuno teneva su il lato bucato con le mani. Io vomitavo. Ero disteso e la gente mi calpestava. Un signore mi ha detto mon petit che fai? Devi salvarti da solo qui, pensi che qualcuno lo faccia al posto tuo? Se muori ti dobbiamo gettare in mare, alzati! C’era puzza di benzina, per un bidone rovesciato sopra le brioches. Ero ustionato sul sedere, per la benzina. Ci avevano detto sempre dritti per due ore e poi girate per l’Italia. Ma in mezzo al mare non si sapeva dove girare. Tutti piangevano. Io no, ma ero disorientato. Le onde erano molto alte. Certi gridavano che avevano paura di morire. Altri volevano morire e buttarsi in acqua e dicevano voglio tornare in Mali.... voglio tornare in Costa d’Avorio..... e cercavano di buttarsi giù perché pensavano che tanto era finita. Li hanno dovuti fermare. Le donne erano davanti, e ad un certo punto con loro hanno messo anche me. Il 23, al tramonto, è arrivata una nave a prenderci. I libici ci avevano dato il satellitare con i numeri della guardia costiera. I nostri salvatori, bardati come astronauti, ci hanno portato a Lampedusa. Abbiamo pensato siamo salvi. Non conoscevo Lampedusa. Non sapevo nulla dell’Italia. Ci hanno curato per quattro settimane. Ci tenevano tutti assieme, e facevamo le file per il cibo, per tutto. Ci hanno preso le impronte, tutto. Io ero rimasto in mutande, non avevo più nulla. Le conservo ancora, quelle mutande, per me sono diventate un trofeo. Ero il numero 201. Appena ho potuto farlo ho chiamato il mio fratellastro. Che cazzo fai in Italia? Con chi sei? Ma non mi ha detto di tornare a casa, da lui. Lui ha studiato, è sposato, ha anche un figlio. Ma io non c’entro con la sua vita.

Un giorno, con una nave, ci hanno portato in Sicilia, e da lì in pullman ad Eraclea, nel veneziano. Lì c’era una donna che giocava alla mamma. Io non volevo essere coccolato, volevo stare per conto mio. Lei mi chiama figlio. Io la chiamo mamma, perché in Africa una donna che ti fa del bene è una mamma. Ma non mi viene di sentirla mamma. Io non ho più la mia mamma, no? Mi ha preso delle cose, mi ha aiutato. Mi  fa piacere, un po’. Ma un po’ no. Non voglio fidarmi, mi hanno detto di non fidarmi. Le voglio bene come ad una mamma, vabbè. Ma è una cosa che non sarà mai vera.   E allora qui  in questa vita da richiedente asilo dov’è sta mamma? Io sto qui, lei laggiù. Non è una vita da mamma e figlio. Ma è la mia, di vita. Un giorno mi hanno trasferito a Cona, in una  ex caserma militare dove eravamo in centinaia. Era davvero brutto, a Cona. Tutti in tendoni e in letti a castello. Nessuno si fregava di nessuno. Mi hanno chiesto quanti anni hai e ho detto la verità. Mi sono fatto inviare un documento di nascita dall’amico dello zio. Ero e sono ancora minorenne. Ma non mi hanno creduto. Tutti cercavano di farsi passare per minorenni e allora hanno fatto il test del polso. E hanno detto che ho 19 anni, pensa. Sono nato il 23 dicembre 1998. Ed ero piccolo allora,  e non gliene è importato di verificare. Dici che parlo bene italiano: a Cona ho incontrato Claudia, in una tabaccheria. A me non interessava parlare italiano, prima. Stavo per conto mio ma lei mi ha detto, in francese, perché non vuoi? E con un quaderno ha iniziato a spiegarmi tante cose. Così, ci trovavamo. Poi mi sono arrangiato con i corsi in internet. Non ho tempo da perdere io con ciao come stai da dove vieni e qual è il tuo nome. E adesso parlo bene no? Poi sono venuto qui a Marghera, e almeno adesso siamo in 8 in questo appartamento. Ma non c’è molto da fare, con questi ragazzi che uno è sempre fumato e gli altri sono tutti grandi. E per fortuna che ho questa casa ma tutti di giorno dormono e io invece studio. È importante comunicare. Io vorrei farlo con tanta gente, ma al mattino quando mi alzo e vado in giro in bici fino al parco mi guardo intorno e con chi vuoi che parli?

Mi chiedi che sogno ho. Mi sono scappati tutti, i sogni. Ma vorrei diventare un uomo che lavora. E per far questo vorrei studiare. Ora andrò a scuola, e prenderò il diploma di terza media, e poi chissà. Ho paura che questo mio desiderio non si possa realizzare. I miei amici in Burkina si sono diplomati e io mi sento in ritardo. Ma ho voglia di provarci e sono curioso. Tanti se ne vogliono andare dall’Italia. Io chissà. Non ho rimpianti. Magari anche qui succederà qualcosa di buono. Beh è... il terzo periodo della mia vita.

 


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