Uno dei temi che da tempo sono al centro dell’attenzione pubblica riguarda la dignità: in particolare la dignità della persona, la dignità della vita. È un tema che spesso viene legato a condizioni di disabilità gravi e al fine vita, quando le risorse della medicina non sono in grado di garantire in assoluto la sopravvivenza di un paziente e le cui condizioni di vita sono compromesse. Il Parlamento italiano ha da poco introdotto una legge sul fine vita in cui, all’articolo 1, si dice che al centro delle preoccupazioni che hanno generato la legge stessa c’è  la tutela del “diritto alla vita, alla salute, alla dignità ” delle persone.

Non è questa la sede per riflettere sui contenuti e sulle nuove regole della legge, mi basta rammentare il riferimento alla dignità della persona per stabilire ciò che è lecito e ciò che non è lecito fare quando appunto la medicina ha esaurito le sue risorse e la prospettiva della morte appare inevitabile. L’interrogativo di fondo è: quali sono i parametri per stabilire quando e come la vita di una persona non è più dignitosa e a chi spetta stabilire come e quando si può staccare la spina? La legge in questione affida la responsabilità principale al diretto interessato, al quale i medici dovrebbero garantire tutte le informazioni che gli permettano di avere piena coscienza della decisione che sta per prendere. Sovrapponendo la conoscenza alla coscienza.

Il buon senso dice che la legge non può e non potrà mai stabilire una regola comune per fissare il confine tra una vita dignitosa e una vita non dignitosa. Nemmeno di fronte alla  vita di persone che sono prive di molti requisiti considerati dalla mentalità corrente misura di dignità.

Per chiarire il punto nodale della questione mi servo di un film nei mesi scorsi ha avuto un buon successo di pubblico. Si intitola “Io prima di te”. È la storia di una ragazza in cerca di lavoro che viene assunta come assistente di un giovane banchiere, bello e ricco, paralizzato sulla sedia a rotelle per un incidente che in un attimo ha cambiato radicalmente la sua vita. I genitori sperano che la ragazza riesca a fare innamorare il giovane per dissuaderlo dal proposito di ricorrere all’eutanasia. Con passione crescente, la ragazza cerca di convincere il giovane che la sua vita è ancora degna di essere vissuta e riesce anche a ri-suscitare in lui l’amore, ma ciò non basta a farlo recedere dalla sua decisione mortale. A capo di sei mesi, confessa alla ragazza che è attratto da lei ma pensa che nelle sue condizioni non potrà mai renderla felice.

È come un certificato di morte per tutti quelli che vivono in carrozzella. Molti in condizioni peggiori di quelli del giovane suicida. Il quale evidentemente ha un’idea di amore e di dignità materialisticamente banale. Come a dire che la dignità di una persona si misura con la sua vigoria fisica, la sua bellezza, i talenti che lo fanno apparire. Per dirla à la page: una persona con cui si può fare un selfie in grado di suscitare invidia tra gli amici e le amiche.

L’ho fatta lunga, apparentemente lontano dal tema della Pasqua. Ma ci arrivo. Secondo voi un uomo martoriato e crocifisso può essere un buon testimonial della dignità umana?

Uno che “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Isaia 53,7)? Chi potrebbe cercare un selfie con un crocifisso?

Infatti quell’Uomo continua a essere un segno di contraddizione. Perché capovolge alla radice i parametri dell’apparire per fare un’inversione a U verso quelli dell’essere. Secondo quei parametri, la dignità di una persona non è certificata da quello che ha (in tutti i sensi), ma da ciò che è. Con tutti i limiti possibili e immaginabili.

E la dignità di una persona incomincia dalla scoperta che i limiti non sono una menomazione, ma la premessa di ogni conquista: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Chi vive con questo spirito è portatore di una dignità feconda. Che genera la risurrezione. Anche su questa terra.

Angelo Onger, giornalista, già direttore di “Madre”


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