Il libro di Tobia è un libro dell’Antico Testamento, che compare tra i libri storici. Di composizione abbastanza tardiva è stato scritto intorno al 200 a.C. 

Si racconta di Tobia, rimasto cieco in seguito a un incidente, che dovendo sistemare il figlio Tobia, lo invia in un paese lontano da un lontano parente per ricevere in eredità una grossa somma di denaro. Durante il viaggio a Tobia succederà di tutto, e questo tutto si rivelerà proprio come il centro del messaggio del libro.
All’inizio del viaggio, un personaggio misterioso, di nome Azaria, si propone di accompagnare il giovane Tobia nel lungo viaggio. Il lettore – e solo lui - sa che in realtà Azaria è l’arcangelo Raffaele e quindi Dio stesso all’opera. Ora proprio all’inizio del viaggio, Tobia prima di affrontare la notte, va al fiume a lavarsi e fa la tremenda esperienza del pesce che tenta di mangiargli il piede.
Fuori di metafora, il pesce rappresenta e sintetizza, nella simbolica biblica, gli ostacoli e i rischi del ‘viaggio’ verso la felicità. Il pesce vive nell’acqua, biblicamente, un ambiente mortifero.
Tobia grida, invoca aiuto: urla il suo disagio esistenziale. E l’angelo/Dio, non interviene, ma gli risponde: «Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire».
Forte e bello al contempo. Quando è in gioco la vita, l’uomo non può lasciarsi vincere dalla paura e dall’incertezza. Ma soprattutto non c’è nessuno che gli si possa sostituire nei momenti più drammatici dell’esistenza... Infatti l’angelo/Dio non interviene. Dio (Azaria) piuttosto invita l’uomo a credere nelle proprie capacità: TU afferra quel pesce e TU Trallo a riva.
Già nell’AT è inscritta questa verità fondamentale: Dio non si sostituisce all’uomo, non è l’essere che dall’alto dei cieli governa, decide, interviene sulle vicende umane. Dio invita l’uomo a fare! Sempre nell’AT, nel libro dei Giudici, il giovane Gedeone, il più piccolo dei suoi fratelli, della famiglia più povera di Manasse, viene inviato da Dio a combattere contro i Madianiti, nemici giurati di Israele con queste parole: «Vai con la forza che è in te» (Gdc 6, 14). Straordinario: non ‘va con la forza che ti do’, ma ‘va con la forza che è in te’.
Ma torniamo al nostro brano. Tobia è assalito dal pesce, e potrà salvarsi solo se prenderà in pugno e afferrerà il pericolo che lo aggredisce. Dio non interviene, ma è all’opera nell’uomo nel momento in cui questi deciderà di prendersi in mano.
Solo nel momento in cui Tobia avrà il coraggio di ‘afferrare’ le incontenibili energie che lo assalgono, e di portarle ‘all’asciutto’ – un’idea forte della psicanalisi questa di ‘portare all’asciutto il proprio io’ - ovvero tirarle fuori dalle zone dell’incoscienza e porle sulla terra ferma, egli diverrà padrone di se stesso.

Il silenzio di Dio
L’episodio di Tobia, un racconto ovviamente mitologico, ci sta ricordando che nella nostra vita, dobbiamo riconciliarci non tanto con un Dio che fa silenzio, ma che è silenzio.
Sì, Dio non interviene, non agisce, non opera come potremmo immaginare o attendere noi. Non lo fa, non perché non vuole, ma semplicemente perché non può. Perché un dio che intervenisse dietro invocazione cesserebbe di essere Dio, perché semplice idolo.
Dio è silenzio perché puro nulla dicevano i mistici, nel senso che non è né questo né quello. Non il ‘Dio che vede e interviene’, come una certa religiosità popolare ha fatto intendere, ma la forza che in me mi compie, per cui ponendo in atto tutte le mie energie sperimenterò Dio all’opera: Dio opera nell’uomo che opera.
«Dio non può aiutare noi, siamo noi a dover aiutare lui» diceva Etty Hillesum.
«Una cosa però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini» (Preghiera della domenica mattina).
Per questo occorre difenderlo dentro di noi, accudirlo, perché lui è fonte zampillante, ma fragile, che ci chiede solo di venire in contatto con lui, per comunicarci tutta la sua forza.
‘Raccogliere Dio’, non lasciare che scivoli via dal nostro mondo interiore, prendersene cura. Credo sia questo ciò che Maria ha vissuto all’inizio del mistero cristiano. Maria ha impedito a Dio, dentro di lei, di abbandonarla. Questo è l’Avvento, questo è il Natale.
Ecco il perché del nostro titolo: poter fare a meno del cielo. Io credo che possiamo continuare ad essere cristiani, svuotando il cielo di dei, e a maggior ragione, di madonne lacrimogene. Possiamo continuare ad essere cristiani senza il salto del soprannaturale.
Certo, se riuscissimo a fare questo dovremmo finalmente comprendere che Dio non interverrà dietro richiesta delle nostre preghiere, semplicemente perché la preghiera non significa invocarlo per muoverlo ad agire, ma è piuttosto un nostro aprirci alla sua energia in noi per essere trasformati in lui.
Detto tutto ciò, diventa chiaro come noi cristiani dovremmo imparare a vivere nel mondo nel modo auspicato da Dietrich Bonhoeffer: "Etsi Deus non daretur", come Dio non ci fosse.
Siamo onesti, noi cristiani quanto abbiamo utilizzato Dio come alibi e giustificazione della nostra ignoranza, e stampella delle nostre insufficienze? Quanto abbiamo fatto intervenire Dio in cose in cui non c’entrava assolutamente nulla?
Ricorriamo a Dio e ai suoi poteri sovrannaturali per ottenere qualcosa, magari essere liberati dai mali di questo mondo; ricorriamo al ‘salto soprannaturale’ per compensare le nostre deficienze, le nostre mancanze.
Bonhoeffer ci ricorda ancora una volta che se si pensa Dio come tappabuchi, spiegazione dell’inspiegabile, man mano che i buchi verranno riempiti e la scienza spiegherà ciò che finora era inspiegabile, man mano perderà sempre più terreno, sino a diventare inutile. Ma Dio non interviene nel mondo allo scopo di regolare alcune disfunzioni della nostra esistenza, interrompendo magari il corso delle leggi naturali, compiendo insomma i cosiddetti miracoli.
Sì, il cristianesimo adulto credo sia quello che può finalmente fare a meno dei miracoli, e possa cessare d’invocare il cielo per ogni insufficienza umana.
Non abbiamo bisogno di un Dio che vinca le battaglie per noi, che curi le malattie e risolva i nostri problemi esistenziali, o che mandi la pioggia dietro nostra richiesta. Non abbiamo bisogno di un Dio che sia il giocattolo dell’uomo insomma.
Ma di un Amore che lasci tutto alla nostra libertà, e senza abbandonarci, ci faccia crescere sempre più in umanità, facendoci vivere tutto ciò che è tremendamente umano. «Dio non si colloca tra salute e malattia, ma tra disperazione e fiducia. Dio sta riflesso nel più profondo delle lacrime, per moltiplicarne il coraggio. Non placa le tempeste, dona energia per continuare a remare dentro qualsiasi tempesta. E noi proseguiamo nella vita per il miracolo di una speranza che non si arrende, di cuori che non disarmano» (Ermes Ronchi, Le nude domande del vangelo).
La sua‘apparente’ assenza (Azaria che è Dio in incognito), ci obbligherà a sforzarci di riscoprire e rivivere sempre nuovamente nella nostra vita questo ‘Dio nascosto’ in noi, e unito a noi, e che si va rivelando attraverso noi. Quindi non un Dio fuori di noi, ‘motore immobile’ (Aristotele), ma energia dell’umano agire.
L’Amore divino che ci portiamo dentro sarà quello che ci incalzerà a diventare il meglio che possiamo diventare. È la forte passione che aiuta a tirar fuori dal bruco che si credeva essere, la farfalla che in realtà si è sempre stati.
Abbiamo tutti, in fondo, il bisogni di incontrare una persona che col suo amore non si sostituisca a noi per affrontare la vita e neanche che ci chieda di cambiare, ma accompagnandoci susciterà in noi il desiderio di farlo. Gesù è stato questa persona per tutte le creature che ha incontrato.
Sì, una persona che con la sua squisita umanità è stata la manifestazione stessa di Dio perché semplicemente capace di amore, e non un Dio incarnato che interviene dal suo cielo nelle rozze vicende umane.
A breve celebreremo il Natale che non è tanto il ricordo di un Dio che si fa carne, ma di un uomo che con la sua capacità di amore è stata l’incarnazione stessa di Dio. Il bravo teologo statunitense John Spong scrisse: «La divinità si incontra quando l’umanità diventa così integra e profonda, quando si vede una persona senza difese e senza potere che è capace di darsi totalmente. Questo è il momento di cui il Gesù umano ci apre gli occhi a tutto ciò che significa Dio e ci permette di vedere tutto ciò Dio è».
E credo abbia visto lungo il mio caro e vecchio amico Antonio Thellung quando, orami sessant’anni fa scriveva: «L’uomo che supera la miseria della propria natura sfiora il miracolo [compie gesti divini], mentre un Dio che riesce ad essere un uomo di valore non fa nulla di entusiasmante. A pensarci bene, è assai più divino Gesù uomo che Gesù Dio».

 

 

 

 

 


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