Qual è stato il contributo di Giovanni Paolo II nel superamento della Guerra Fredda e della caduta del muro di Berlino del 1989?
Per rispondere a questa domanda è necessario, ritengo, dare uno sguardo alla situazione preesistente, almeno in quel decennio del secolo scorso, ed evidenziare il ruolo particolare assunto da un leader politico russo, Mikhail Sergheevic Gorbaciov, che sarà infine decisivo per la caduta del Muro e la riunificazione delle due Germanie. Semplificando, partiamo dalle famose parole d’ordine che, nel 1985, Gorbaciov, appena segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (Pcus), rilanciava: Perestroika e Glasnost, cioè cambiamento e trasparenza. Un po’ alla volta, in Urss vengono avviati cambiamenti importanti, seppure spesso contraddittori – tali soprattutto nei maldestri tentativi di riforme economiche vere e concrete.
Va ricordato che allora quell’area del mondo era un paese “dormiente” – e armatissimo, si intende – di 22 milioni di kmq, più di settanta Italie messe insieme (tra parentesi, la “sola” Russia era – è – di 17 milioni di kmq!). Mantenere in piedi l’Urss significava risolvere un rebus difficilissimo che, ai loro tempi, e prima che nascesse l’Unione sovietica, anche gli zar già avevano dovuto affrontare, essendo identiche le dinamiche.
Quell’enorme paese era gestito con una ferrea centralizzazione, ritenuta necessaria per impedire, soprattutto in alcune delle quindici Repubbliche, movimenti centrifughi. Tale struttura politica aveva consentito di garantire il paese stesso ma, naturalmente, non aveva impedito l’insorgere di molte periferie ove, via via, cresceva il malessere per le mancate libertà. Prima o poi la situazione sarebbe esplosa, perché insostenibile. Dunque, per Gorbaciov, il dilemma: favorire la decentralizzazione, per rabbonire alcune repubbliche, ma mettendo a rischio l’unità dell’Urss (come gli ricordava, al Cremlino, l’ala “ortodossa” del Pcus), oppure impedirla a tutti i costi, prevedendo però che in tal modo la “pentola”, a partire dai Baltici (Lituania, Lettonia, Estonia), sarebbe scoppiata? Un’alternativa drammatica.
Lo stesso dilemma, mutatis mutandis, si poneva nel rapporto Urss/“Paesi fratelli” dell’Europa orientale: lasciare che ciascuno di essi andasse per la sua strada, e prospettasse perfino elezioni “libere” (come in Polonia), con il rischio che si avviasse una frana che avrebbe infine dissolto il Patto di Varsavia, l’unione politico-militare dei paesi socialisti est-europei? O era meglio impedire questa disgregazione, sapendo, però, che per aver successo occorrevano i carri armati?
Gorbaciov ha dovuto affrontare una realtà nuova, rispetto al “prima”: un’Urss in cui serpeggiavano speranze e tentativi di cambiamenti, e questo influiva anche sui paesi fratelli, cioè Germania-Est, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia… E, viceversa, quanto si muoveva in questi paesi aveva influsso in Unione sovietica, anche se, all’apparenza, là tutto rimaneva eternamente immoto.
È su questo sfondo – riassunto per brevissimi flash! – che si situa, negli anni Ottanta del secolo scorso, il primo papa slavo della storia, il primo pontefice polacco. Papa Wojtyla capiva bene la situazione: convinto che i regimi est-europei avessero in se stessi un baco che li avrebbe inesorabilmente dissolti dall’interno – ma nemmeno lui poteva rispondere alla domanda cruciale: “In quanto tempo?” – , sperava e voleva, per quanto poteva con il suo influsso morale (e, in Polonia, ben più che solamente morale, sull’episcopato e su Solidarność, il sindacato libero fondato dal cattolicissimo Lech Walesa) che i cambiamenti, prevedibilmente tumultuosi, avvenissero, da una parte, come frutto di una corale ma pacifica insorgenza nonviolenta e, dall’altra, con un potere che accettava di rassegnarsi alla sua scomparsa senza opporsi con la supremazia delle armi ai rivoltosi. Infatti, se fosse avvenuto uno scontro armato, le strade dell’Europa orientale sarebbero state coperte di sangue. Giovanni Paolo II voleva assolutamente evitare questo esito.
E veniamo a Berlino e alla Germania-Est di trent’anni fa…
Saltando avvenimenti precedenti (sarebbe un discorso lungo) di quel fatidico 1989, veniamo al 6 e 7 ottobre di quell’anno, quando il leader sovietico va a Berlino-Est, accolto trionfalmente dalla gente che, nelle strade dove lui passa, grida: “Gorbaciov, Freiheit, Svoboda” (libertà, in tedesco e in russo). In Germania dell’Est i movimenti che volevano radicali cambiamenti politici e sociali vedevano nel leader russo un loro protettore, colui che ispirava queste stesse libertà e questi cambiamenti. Naturalmente, il capo della DDR (la Repubblica democratica tedesca), Erich Honecker, e l’apparato del suo partito comunista non era assolutamente d‘accordo con il “collega” del Cremlino, anche se nello stesso partito vi era chi riteneva ormai necessario ascoltare, almeno in parte, il grido della gente, per non essere – altrimenti – rovesciati.
Ai vertici del regime tedesco-orientale Gorbaciov precisò che non spettava a lui risolvere i problemi del loro Paese, e che in ogni caso l’Urss non sarebbe intervenuta: ma, certo, consigliava vivamente di dare ascolto alle richieste della gente. “Chi arriva tardi, la storia lo punisce”, disse ad Honecker; il quale, però, molto ammalato, faticava a seguire quei discorsi; e, inoltre, negli alti ranghi del partito non tutti apprezzavano la sua durezza politica. Così, e anche rendendosi conto che il “clima gorbacioviano” non poteva più essere ignorato, il 18 ottobre il Politburo lo rimosse, sostituendolo con il più giovane Egon Krenz, suo delfino. Avvicendamento che non salvò il regime.
Infatti, la convergenza del “semaforo verde” dato da Mosca, unita al coraggio e alla determinazione dei movimenti libertari tedesco-orientali costituirono le premesse per quanto avvenne un mese dopo che Mikhail Sergheevic tornò a Mosca, e cioè, il 9 novembre: a caduta del "muro" (meglio sarebbe dire "l'abbattimento", perché la barriera non cadde da sé), il simbolo stesso
il simbolo stesso della “Guerra fredda”. Tali dati di fatto furono il preludio di quanto avverrà il 2 ottobre 1990, quando vi sarà la riunificazione delle due Germanie: meta storica raggiunta grazie alla capacità politica del cancelliere Helmut Kohl; ma essa sarebbe stata impossibile senza il da (il sì) del leader sovietico. La storia deve molto a lui, non solo perché egli non si oppose alla riunificazione – e i duri del Pcus non gli perdoneranno quel “cedimento” – , ma anche perché essa avvenne pacificamente.
Cosa ricordi della sera del 9 novembre?
Allora lavoravo all’Ansa, a Roma. La sera di quel giorno noi fummo tra i primi, al mondo, leggendo i dispacci del nostro corrispondente a Berlino, a sapere dell’annuncio della caduta del famoso “muro”. Io decisi immediatamente di… prendere quattro giorni di ferie, e l’indomani partii per Berlino-Est: il volo verso l’aeroporto orientale costava infatti meno di quello verso l’occidentale. Alla dogana, per il visto provvisorio mi chiesero di pagare una piccola somma, mi pare dieci marchi. Sapevo che volevano marchi “occidentali” (e in tasca ne avevo; ma avevo anche marchi “orientali”, souvenir di uno scalo, là, in transito per Mosca). Dunque presentai al poliziotto dieci marchi “loro”. Al che lui, severo, mi rimproverò: ”No, non questi, vogliamo i marchi occidentali”. E io: “Ma se non ci credete nemmeno voi alla vostra moneta, chi volete che ci creda?”. Lui mi fece una smorfia e, “zac”, sul passaporto impresse il timbro del visto.
Sempre a Berlino-Est andai a pranzare in un lussuoso ristorante a ridosso della porta di Brandeburgo. Menu: minestra di rape rosse, un bel piatto di carne e patate, insalata (la frutta non c’era), una birra piccola. Costo? L’equivalente di quattromila lire, pagando con marchi orientali. Una meraviglia!... E poi raggiunsi la “altra” Berlino, e subito corsi al “muro”. Decine di persone, con picconi, battevano e battevano sul muro, per cercare di staccarne un pezzetto. Sembrava una miniera a cielo aperto. Pensai che dovevo fare la mia parte per cancellare quella vergognosa barriera. Mi avvicinai ad un ragazzo che, batti e batti, sudava tantissimo; gli chiesi per cortesia il piccone (“Intanto tu ti riposi!”) e cominciai anch’io a battere. Il “muro” era durissimo, costruito – nel 1961 – con un materiale resistentissimo. Che fatica! Finalmente riuscii a staccare un pezzetto, grande come una bella patata. Feci appena in tempo, perché dei poliziotti della DDR, infuriati e armi in pugno, minacciavano di sparare a me, e a altri “scavatori” là vicino, se non smettevamo subito…
Ma, dopo questa simpatica cronaca… torniamo al ruolo di Wojtyla. Il suo atteggiamento rispetto ai regimi est-orientali era dettato solo da motivi di prudenza o è stata una scelta nonviolenta, cioè una vera scelta politica ….
Wojtyla era impegnato, sì, a far crollare i regimi est-europei, ma attento a non spingere troppo per non innescare conflitti sanguinosi, o incontrollabili. Tuttavia, in merito, occorre aggiungere una annotazione decisiva, spesso in Occidente dimenticata: ove il conflitto – a causa dei rivolgimenti in Polonia, a Berlino o a Praga… – avesse superato vicende di un singolo paese, innescando un sommovimento globale, infine implicando l’Occidente, si poteva arrivare ad un confronto armato tra Patto di Varsavia e Nato. Cioè, perfino ad uno spaventoso conflitto nucleare, altro che “Guerra fredda”! Gorbaciov sapeva questo; e lo sapeva Wojtyla. E su questo, e molto altro, chissà che cosa si dissero i Due quando, il primo dicembre ’89, il segretario del Pcus fu ricevuto solennemente in udienza in Vaticano. Anche questo straordinario e mai prima avvenuto evento era legato, ovviamente, a quanto accaduto a Berlino il 9 novembre. Ma, lasciando sullo sfondo quella vicenda, occorre dire qualcosa su rapporti, nella storia, tra russi e polacchi.
Allorché, nell’ottobre 1978, il cardinale polacco fu eletto papa, a Mosca qualcuno arricciò il naso, per un motivo specifico: i russi avevano alle spalle una lunga storia di contrasti con i polacchi.
Questi ultimi, agli inizi del Seicento, con un falso zar avevano occupato il Cremlino: perciò dalla popolazione russa erano odiatissimi. Quella fortezza fu poi ripresa dai russi: nella furiosa battaglia i polacchi, cattolici, elevavano stendardi con le loro Madonne; i russi, ortodossi, le loro, con le loro icone: ciascuno invocava la sua Madonna per avere la buona sorte. Come che sia (che Maria sia filorussa?) vinsero i russi, e la presenza polacca a Mosca terminò miseramente; nel 1613, cominciò la dinastia dei Romanov, che arriverà fino al 1917. Ma il ricordo di quelle tensioni, seppur lontane, è rimasto nella memoria di entrambi i popoli (d’altronde a Varsavia non dimenticano che, nelle tre “spartizioni” della Polonia, a fine Settecento, la Russia se ne prese sempre un pezzo!).
Non appena Wojtyla divenne papa, il Cremlino intuì che un pontefice polacco avrebbe portato forti cambiamenti, almeno in Polonia: e infatti cominciò, nel 1980, Solidarność. Gorbarciov non era ancora al potere, ma quando vi arriverà si renderà conto di persona (come il papa già sapeva, per esperienza) che, a parte le rivendicazioni di libertà che sorgevano qua e là nell’impero, la stessa disastrosa situazione economica, dell’Urss e dei Paesi “fratelli”, li avrebbe portati ad una crisi irreversibile.
C’erano poi – e siamo all’alba degli anni Novanta del secolo scorso – le rivendicazioni delle repubbliche baltiche che aspiravano all’indipendenza. Nel gennaio 1991 vi furono morti a Vilnius e in Lettonia (io ero a Riga, in quel mese, e mi trovai in mezzo alle sparatorie tra gli “indipendentisti” e i sovietici…). Giovanni Paolo II con il cuore stava con i Baltici, come lo era stato con i polacchi, ma doveva essere prudentissimo.
Nel contesto storico appena delineato a grandissime linee, certamente anche il ruolo di Giovanni Paolo II ha avuto il suo peso. Rimango però convinto che il ruolo centrale della dissoluzione del regime sovietico, che venne nel dicembre ’91, dopo che erano crollati tutti i “Paesi fratelli”, fu dovuto, come in questi, soprattutto a ragioni endogene, e non a cause esterne. Le contraddizioni, divenute esplosive, non potevano essere risolte in altro modo che con la dissoluzione del regime, dei regimi. La preoccupazione – per il papa, e per Gorbaciov – era che il “terremoto” non fosse troppo devastante per la gente.
Vi era, nella Chiesa, un’idea forte di libertà e di diritti umani che si contrapponeva al totalitarismo sovietico?
Ebbe la sua importanza la Conferenza di Helsinki del 1975, alla quale – per volontà di Paolo VI, e i consigli di monsignor Agostino Casaroli – partecipò anche la Santa Sede. Essa gettò dei semi che, sul piano giuridico, e nel campo dei diritti umani, avrebbero avuto conseguenze promettenti, prima timide e poi più evidenti, in Est-Europa. Essa costituì una piattaforma che doveva essere riconosciuta da tutti i Paesi firmatari (est-orientali compresi), anche se ogni Parte implicata la interpretò a modo suo. Questo aiutò, ad Est, l’insorgere di movimenti specifici che aspiravano ad avere elezioni libere, pluripartitismo, libertà religiosa; e aiutò i cristiani inseriti in tali movimenti. D’altronde, questo afflato di libertà e di sentimento popolare non poteva più essere coperto con una pietra tombale: lo sviluppo delle tecnologie e delle comunicazioni aveva reso impossibile la censura di un tempo, allora quasi insuperabile. In tante persone nacque un’istanza di cambiamento che, giorno dopo giorno, avrebbe infine provocato un crollo, come una grande diga che cade improvvisamente, per effetto di un fiume in piena.
Vi furono gruppi di cristiani – cattolici ed evangelici, soprattutto – che si impegnarono con intensità. Ci furono atei, agnostici o diversamente credenti, convinti che bisognasse lavorare insieme a tutti per affermare i diritti dell’uomo e della donna. Ci furono persone che appartenevano al Partito Comunista con una visione diversa da quella “ortodossa”, e che magari guardavano alla esperienza avviata da Alexander Dubcek nel 1968 a Praga, e poi stroncata dai carri armati. Insomma, tanti rivoli, in tante forme, hanno condotto verso il traguardo che si voleva raggiungere: far crescere un Paese, ciascuno il proprio, dove vivere in libertà, con dignità e seguendo ciascuno la sua fede o la sua non fede religiosa.
Quali erano le critiche di Wojtyla al comunismo prima e al capitalismo dopo la caduta del Muro?
Ho seguito di persona diversi viaggi di Giovanni Paolo II in Polonia. C’erano milioni di persone che lo ascoltavano e lo applaudivano. Tra la gente, c’era una parte legata a un cattolicesimo antico, tradizionale, rigido, e un’altra parte solo all’apparenza cattolica, ma in realtà molto secolarizzata, assai insofferente alle interferenze della Chiesa nella propria vita personale. Insomma: occidentalissima di mentalità. Applaudiva il Papa non per devozione, ma per far dispetto al regime.
Dopo che cadde il comunismo – penso in particolare alla Polonia e all’Ungheria – per il papa fu un vero shock vedere che là dilagava il capitalismo, il nostro modo occidentale di vita. Su alcuni aspetti della vita come la contraccezione, l’aborto, il matrimonio – temi su cui Wojtyla aveva tuonato per difendere la dottrina cattolica – si diffondeva un modo di vivere che il punto di vista cattolico ufficiale riteneva con sdegno “ignoranza della morale”. O, forse, appariva alla luce del sole quello che in segreto molta gente già pensava, ai tempi del comunismo.
Una parte del clero polacco (e ungherese, e tedesco-orientale) non aveva considerato il prezzo che avrebbe pagato la Chiesa per il trionfo della agognata libertà. Prima della caduta del regime, andare in chiesa a Varsavia – ma anche a Budapest o a Berlino-.Est – era anche un modo di sfidare il regime. Caduto questo, molti hanno continuato ad andare in chiesa; molti, però, non più. Tutta colpa del comunismo?
Le gerarchie ecclesiastiche polacche e ungheresi, salvo eccezioni, tardarono però a capire il verme che consuma la società capitalista, quando mette dinanzi a tutto il profitto, e il guadagno al di sopra del bene-essere della persona più debole. I guai provocati dal comunismo erano tanti; ma non sono pochi, anche per la Chiesa, quelli provocati dal capitalismo e dal neoliberalismo. Adesso, proprio nelle elezioni del 13 ottobre ’19, in Polonia ha vinto di nuovo, e rafforzandosi, il Partito per il Diritto e la Giustizia – guidato da Jaroslaw Kaczynski – che ha colorazioni anti-migranti, anti-semite, anti-omosessuali; e questo partito è sostenuto da molti cattolici, e da non pochi vescovi. In Ungheria, poi, anche molti cattolici appoggiano Viktor Orbán, leader di Fidesz, il partito cristiano popolare che del rifiuto a migranti e a profughi, tanto più se islamici, ha fatto il fondamento della sua politica. E soprattutto nei territori dell’ex Germania-est è forte Alternative für Deutschland, partito fieramente anti-semita e anti-xenofobo. E’ stata dura, per il papato, per l’episcopato polacco, per quello della DDR, e per quello ungherese, contrapporsi, un tempo, al regime; ma ancora più arduo, per la Chiesa romana, è oggi misurarsi là, e non solo là, con modernità, post-modernità, secolarizzazione e nazionalismo esasperato.
L'articolo è pubblicato, in versione ridotta, nel dossier di Novembre 2019
L’autore
Luigi Sandri, giornalista professionista dal 1975, dopo aver lavorato alla sede Ansa di Roma, dal 1990 al ’93, è stato a Mosca, e poi corrispondente della stessa agenzia a Tel Aviv. Vaticanista, oggi collabora con la rivista Confronti ed è editorialista dei quotidiani Alto Adige e L’Adige. Tra le sue opere: Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani e musulmani (Monti, 2001); Cronache dal futuro. Zeffirino II e il dramma della sua Chiesa (Gabrielli, 2008); Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere (Il Margine, 2013); Il papa gaucho e i divorziati. Questo matrimonio (non) s’ha da fare (Aracne, 2018).