Mosaico di pace/novembre 2019
(trratto dal numero di Mosaico di pace - dicembre 1991)
La criminalità mafiosa è il più grande conflitto sociale fondato sul ricorso sistematico alla violenza. Il ritmo di morte con cui incalza il fallimento di tutte le “guerre” dichiarate e mai vinte pone una sfida radicale alla nonviolenza: è possibile una risposta nonviolenta organizzata al crimine mafioso? Quali strategie, quali processi attivare perché la lotta nonviolenta giunga fino alle radici del potere mafioso? Con quale nonviolenza affrontare la terribile complessità sociale, il consenso, da cui la mafia trae legittimazione?
Questo documento, assolutamente unico, è una prima autorevole e articolata risposta a queste domande. Lo anticipiamo su Mosaico di pace certi non solo di fornire un prezioso materiale di riflessione ai lettori ma anche di dare un piccolo contributo per “smilitarizzare” la nonviolenza nell’insicuro territorio del quotidiano.
Per una strategia nonviolenta di lotta alla criminalità mafiosa
Al gruppo di lavoro informale su Mafia e nonviolenza curato dall’Osservatorio Meridionale di Reggio Calabria, hanno offerto il proprio contributo (presenza nelle giornate seminariali, contributi e proposte): Maurilio Assenza, Diego Cipriani, don Elvio Damoli, Antonino Drago, Piero Fantozzi, Filodemo Iannuzzelli, Gianfranco Larosa, Luigi Marafioti, Giuliana Martirani, Mario Nasone, Gianni Novello, don Giacomo Panizza, Giuseppina Paterniti, don Dino Piraino, don Giorgio Pratesi, Etta Ragusa.
Il gruppo di lavoro è stato coordinato da Piero Cipriani e Guglielmo Minervini.
La stesura del documento è stata realizzata da Guglielmo Minervini, Piero Cipriani e Pieno Fantozzi.
Per uscire dalla profonda crisi sociale, economica e di legittimazione che il sud sta vivendo è necessario guardare fuori dal Mezzogiorno, al nord, alle situazioni extraregionali del primo e del terzo mondo (dato che il secondo si è dissolto). Siamo infatti abituati ad affrontare i problemi della mafia e della criminalità organizzata avendo come riferimento particolari regioni dell’Italia meridionale. In effetti queste sono realtà dove la situazione si presenta in maniera estremamente grave: la stessa vita quotidiana delle persone viene condizionata dalla crescente pervasione della criminalità. Non ha senso, però, pensare che questo sia un problema esclusivo del Mezzogiorno, in uno stato nazionale dove unico è il sistema dei partiti, identiche sono le organizzazioni sindacali, comuni le associazioni degli imprenditori, ecc.
Alcune cause della diffusione dell’attività criminale, poi, hanno un riferimento ancora più basso e riguardano tendenze e processi sovranazionali. Se è vero, cioè, che il problema di Cosa Nostra, della Camorra e della ‘Ndrangheta ha bisogno dell’azione dei meridionali per essere affrontato, è altrettanto vero che esistono impedimenti a un’azione di resistenza che si fondano su una serie di connivenze, oggettive e soggettive, tra criminalità mafiosa e settori importanti del potere economico e politico-istituzionale che non operano solo al sud e che vengono legittimati e riconosciuti come componenti l’élite nazionale e sovranazionale.
Gli aspetti più importanti di queste connivenze hanno una natura oggettiva; essi poggiano sul modo stesso in cui si evolvono e si riproducono gli interessi nelle società capitalistiche avanzate. Il mercato, ad esempio, tende sempre più a espandere le sue prerogative finanziarie e speculative e a comprimere i processi produttivi. Tutto ciò è oggettivamente funzionale alla legittimazione dei capitali delle associazioni mafiose. E, inoltre, la grande quantità di proventi illeciti immessi in questo processo alimenta e accelera tale tendenza.
Si tratta di un circuito chiuso che potrebbe essere spezzato da uno spirito e da un’etica che oggi non sono ancora date né al sud né al nord dell’Italia.
- Perché la lotta al crimine organizzato riguarda la nonviolenza?
Perché questo approccio non finisca col negare la specificità drammatica e concreta del problema mafioso al sud è importante, dunque, capire perché la criminalità mafiosa interroga la nonviolenza. Ci sono almeno due ragioni.
2. La criminalità mafiosa è un conflitto sociale fondato sulla violenza.
La criminalità mafiosa è l’unico conflitto sociale “in cui si ha di fronte un avversario che spara” (N. Dalla Chiesa, Storie, Einaudi, Torino, 1990).
Nel dominio mafioso il ricorso alla violenza, sia fisica sia psicologica, non è accidentale ma sistematico, essenziale alla gestione dei conflitti. Anzi, la risorsa principale cui i vari gruppi attingono per regolare socialmente i conflitti. Questa è una componente drammatica che, ad esempio, distingue la criminalità mafiosa dalla corruzione organizzata modello Tangentopoli. Inoltre, questa constatazione rivela il forte interesse che dovrebbe sprigionare per la nonviolenza. Un territorio marcato dal dominio mafioso-criminale è di fatto un territorio ferito dalla violenza. Numerosi sono gli indicatori di questa condizione:
- la militarizzazione della vita civile, quindi invisibile, che è espressa da un tasso di presenza delle forze dell’ordine tra i più elevati d’Europa (un rappresentante delle forze dell’ordine ogni 286 abitanti) e in un’indiscriminata circolazione di armi private difficilmente quantificabile perché oscillante tra la legalità e l’illegalità grazie a un intenso traffico d’armi clandestino);
- l’incredibile tasso di mortalità violenta che ormai viaggia il ritmo di 1600 morti ogni 18 mesi e si raddoppia ogni decennio;
- quindi, un diffuso clima di intimidazione e di provoca sia esasperate forme di autoprotezione (ad esempio, a Reggio Calabria, circolano almeno 400 automobili blindate con radiotelefoni), sia una profonda modificazione dei rapporti sociali (chiusura, diffidenza, omertà);
- infine, ma non meno importante, un livello pressoché totale di esposizione personale specie nelle faide tra cosche, che si sviluppano ormai senza sempre più esclusioni d’età o di sesso fino a raggiungere punte di assoluta perversione nella brutalità dell’omicidio.
Quindi, dal punto di vista nonviolento quello del crimine mafioso, è già un’occupazione.
Ebert (T. Ebert, La difesa popolare nonviolenta, ed. Gruppo Abele, Tornino, 1984), uno dei più noti esperti di difesa popolare nonviolenta, ha individuato le due condizioni che caratterizzano l’occupazione violenta di un territorio (nel pensiero militare tradizionale si ritiene sufficiente la prima): il controllo del territorio fisico e il controllo delle strutture sociali.
La criminalità mafiosa li esercita entrambi.
Innanzitutto, la sua presenza si realizza in uno spazio fisico, visibile; anzi, “il territorio è l’elemento chiave per questo tipo di organizzazione. Il territorio rappresenta il capitale originario di qualsiasi famiglia mafiosa” (C. Cavaliere, Mafia, parentela e struttura di gruppo in un’area della Calabria, in “Antimafia”, n. 1/91). Il suo controllo si codifica con simboli e riti che rappresentano materialmente l’integrazione del potere del clan: quando la faida scoppia, c’è sempre un clan crescente che sottrae lo spazio sottoposto al controllo di un altro clan. Quest’invasione è sugellata da un rito d’inequivocabile forza espressiva e simbolica: uccidere gli avversari nel cuore del loro territorio: “Omicidi compiuti in ore di punta, avvenuti all’interno di esercizi commerciali gestiti dagli stessi assassinati o consumati quasi all’interno delle loro abitazioni, fanno parte, unitamente alla spettacolarità e all’esemplarità, di una strategia di comunicazione mafiosa” (C. Cavaliere, ibidem).
- Perché la criminalità mafiosa mira a costituire un monopolio della violenza
La criminalità mafiosa fa uso della violenza per conseguire prima e difendere dopo il suo potere. Appare “invincibile” perché è “un nemico che è riuscito a penetrare a fondo in quelle stesse istituzioni che in teoria dovrebbero lottare contro di esso” (J. Chubb, Mafia e politica, in “Segno”, n.130). La sua minaccia alla democrazia è “molto più subdola e, in ultima analisi, più pericolosa del terrorismo di sinistra, più apertamente sovversivo, ma anche più vulnerabile e visibile” (J. Chubb, ibidem).
L’attuale fase del terrorismo mafioso nelle sue espressioni più elevate, in cui alti rappresentanti dello stato cadono nel mirino dei criminali “non è, come nel caso delle Brigate Rosse, un tentativo di sovvertire o distruggere quest’ultimo; è, casomai, un tentativo di assicurare il controllo dello stato alla mafia e ai suoi alleati politici, e, quindi, di garantire la sopravvivenza o la restaurazione di uno status quo che permetta ai mafiosi di perseguire i propri interessi senza intralci” (J. Chubb, ibidem). In tal caso, il crimine mafioso mira a costituire un effettivo monopolio della violenza, al posto di quello non effettivo dello stato. Ad esempio, mentre nella giustizia legale le smagliature sono tali per cui è ormai “opinione diffusa” che non sempre chi sbaglia è punito, nella giustizia mafiosa, invece, esiste un rapporto temporale stretto, efficace e indefettibile tra infrazione e punizione. Chi viola la norma mafiosa è punito; chi, al contrario, vi si adegua è protetto: questo è il monopolio mafioso della violenza, realizzato grazie a un esercito professionale di circa 15.000 uomini che si stima attinga da una leva “volontaria” di circa 100.000 persone assoldate specialmente tra le cinture della marginalità.
Si tratta di una situazione assolutamente inedita che pone una grande sfida alla nonviolenza.
Il conseguimento del monopolio della violenza, tramite la guerra, consente all’organizzazione mafiosa di trarre dalla propria attività formalmente illegale un insieme socialmente valido di norme, regole, comportamenti. Il metodo mafioso, insomma, se punta al monopolio della nonviolenza, è perché per questo tramite acquisisce uno strumento univoco per l’integrazione e per la regolazione politica, economica e sociale dei bisogni e dei conflitti.
Questa dinamica sovverte un’importante categoria della politica che riconosce solo allo stato il monopolio della violenza: “lo stato può essere definito come un complesso di strutture sociali fondate su monopolio, all’interno di un territorio, su ciò che si pretende essere l’uso legittimo della forza” (B. Martin, La piramide rovesciata, la meridiana, Molfetta 1990).
Nel territorio meridionale ciò non avviene, perché “la debolezza del monopolio statale della violenza, ormai gravemente messa in crisi, o addirittura la delega implicita […] che classi dirigenti nazionali e locali annidate nelle istituzioni dello stato hanno conferito per lunghi periodi alle mafie, costituisce puntini di sospensione l’unico punto di partenza efficace per una spiegazione storica della mafia come fenomeno sociale non solo culturale” (N. Tranfaglia, La mafia come metodo, Laterza, Bari, 1991).
Questo punto rappresenta certamente l’opzione discriminante nella definizione di una strategia di lotta nonviolenta: qual è il rapporto tra mafia e stato, tra il monopolio (meglio sarebbe parlare di “monopolio condiviso”, così di “oligopolio”) mafioso della violenza e quello statale?
Ancora: “La mafia è un organismo che contesta il monopolio della violenza da parte dello stato in un certo territorio? Oppure è una forza ausiliare che aiuta lo stato a tenere questo territorio sotto controllo? In realtà, queste alternative non si escludono. Di volta in volta, secondo le forze relative dei due partners, il rapporto può essere di collaborazione di antagonismo” (A. Lyttelton, Discutendo di mafia e camorra, in La meridiana, n. 7-8/1991).
Il rapporto di “forza relativa” tra i due gruppi di potere, il mafioso e le élites dominanti, talvolta distinti, talvolta coincidenti è, dunque, dialettico.
In tal senso, il fenomeno del crimine mafioso rappresenta la forma specifica attraverso cui la modernizzazione e, in particolare l’unificazione nazionale, si è realizzata al sud: la difficile e perdente integrazione sociale delle masse meridionali non è da ricondursi primariamente a un inesistente senso dello stato, ma alla sconfitta reale nello scontro reale tra i poteri che hanno governato i processi di modernizzazione nel nostro paese parentesi Ma è una dinamica anche internazionale, come si ricordava nella premessa chiusa (ma è una dinamica anche internazionale, come si ricordava nella premessa) cui funzionali si rivelano intere sacche di residualità sociale.
L’organizzazione del crimine rappresenterebbe, dunque, la modalità attraverso cui i gruppi sociali meno abbienti superano, grazie al ricorso sistematico alla violenza, le barriere reali poste dalla modernizzazione all’acquisizione di potere reale (che si alimenta sempre più spesso di componenti illegali). Inoltre, non è affatto mistero che tra la criminalità mafiosa e le altre potenti organizzazioni eversive, annidate proprio dentro le istituzioni statuali, che hanno inquinato in Italia contemporanea con strategie di violenza organizzata (stragi e diritti politici) siano intercorsi rapporti perversi tutt’altro che chiari: si pensi, ad esempio, agli inquietanti collegamenti emersi in relazione a vicende come il crack del Banco Ambrosiano o all’organizzazione massonica della Loggia P2 di Licio Gelli.
Sarebbe allora un grave errore strategico, tanto più per chi ricerca una prospettiva nonviolenta, rivendicare – come da più parti avviene anche a “sinistra” – la riappropriazione statuale del monopolio della violenza, come risolutrice del fenomeno mafioso. Come dire: lo stato dichiari la guerra, inventi super-procure dotate di super-poteri, sospenda la democrazia, schieri i suoi eserciti, irrigidisca la sua forza repressiva e schiacci il nemico, fino alla vittoria, cioè alla sua definitiva estirpazione fisica del territorio.
Tutto ciò non avrà mai reale efficacia perché l’élite di potere non possono paradossalmente auto-epurare le fonti del loro potere, auto-demolirsi, tant’è che ci si chiede drammaticamente se “la commistione tra la commistione tra i due mercati e la perdita del monopolio della violenza da parte dello stato non rispondono a interessi di una parte rilevante della classe politica di governo che regge il paese da quasi mezzo secolo senza tentare in maniera chiara e coerente di opporsi alla degenerazione cui oggi assistiamo” (N. Tarfaglia, Tranfaglia op. cit).
Infatti, “c’è un paradosso in questa soluzione, qualsiasi riforma delle istituzioni pubbliche di moralizzazione della vita pubblica deve partire proprio da quegli agenti politici che sono tra le cause prime di degenerazione”.
In tal senso, la militarizzazione repressiva della risposta statale alla mafia è consapevolmente inutile, epidermica, superficiale. È comunque insufficiente perché incapace di affrontare la diffusa radice sociale di cui le mafie oggi dispongono.
Tutto questo è tanto più evidente quanto più si fa spettacolare: in tal senso, ad esempio, il recente invio dei contingenti militari in Sicilia e in Sardegna al fine di irrobustire il controllo del territorio da parte dello stato, sembra più mirato a deviare le funzioni politiche dell’esercito (facendolo pericolosamente arretrare in mansioni di ordine pubblico, proprio come cent’anni fa) che a mettere in atto un’incisiva strategia di sradicamento dell’eversione mafiosa.
La militarizzazione, dunque, ha una funzione demagogica di cui non di rado gli stessi protagonisti si accorge. “Non chiedo leggi speciali – precisava il gen. Dalla Chiesa – chiedo chiarezza”, e spiegava la sua opinione strategica: “ho capito una cosa molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati” (N. Dalla Chiesa, Il delitto imperfetto, Mondadori, Milano 1984). Alla luce di questa profonda crisi di risposta, si avverte urgente la necessità di affrontare il conflitto con modalità diverse, sociali e costruttive, cioè nonviolente.
Il problema non è come rovesciare creativamente i piani del rapporto di forza riportando al centro la potenzialità di risposta che la società civile e la coscienza collettiva ancora possiedono; uscire, insomma, dalla logica impotente della doppia schiavitù: al gruppo mafioso o al ceto politico, per spostare in avanti la democrazia, ripensando in modo nonviolento, cioè collettivo e costruttivo, insieme lo stato, le istituzioni, il modello di sviluppo e la propria vita.
- Quale nonviolenza?
La complessità del fenomeno mafioso, i suoi numerosi e inestricabili riflessi sul piano sociale, impongono una serie analisi delle possibili scelte di campo, in termini di obiettivi e strategie.
Ci sono almeno due nonviolenze possibile: una volontaria, l’altra strutturale.
2.1 La nonviolenza volontaria
- Ipotesi fondamentali
L’ipotesi fondamentale di una strategia volontaria della nonviolenza nella lotta alla criminalità mafiosa è che il potere – tanto più quello mafioso – si regge sempre sul consenso.
In tal senso, le risorse cui attinge per il suo dominio mafioso sono: autorità, sanzioni-violenza, qualità umana del boss, fattori intangibili come i condizionamenti culturali, risorse materiali quali ricchezze ermi.
In definitiva, le basi del potere mafioso sono l’obbedienza e la cooperazione sociale, in generale “l’obbedienza è il cuore del potere politico” (G. Sharp, Politica dell’azione nonviolenta. Potere e lotta, vol. 1, ed. Gruppo Abele, Torino 1985). Esso è, quindi, fisiologicamente precario, contingente, richiede continuamente la violenza, la coazione e la manipolazione del consenso.
Ma perché si obbedisce la mafia? Per diversi fattori: paura, abitudine, interessi, identificazione psicologica, indifferenza, assenza di significative relazioni sociali, eccetera.
- Linee strategiche dell’azione nonviolenta volontaria
La nonviolenza volontaria si fonda sulla costruzione di diffusi loci di potere.
La possibilità e il successo dell’azione nonviolenta non sono sempre garantiti perché “il potere può essere talmente concentrato nello stato (o nella mafia, nda) e i sudditi così atomizzati, che non esiste nessun gruppo o istituzione sociale realmente significativa in grado di sfidare le fonti di potere del governante (del mafioso, nda) controllandone quindi le azioni.
Se invece nella società esistono in misura significativa questi gruppi in grado di agire indipendentemente e quindi di esercitare un controllo, allora la loro presenza e la loro forza aumenteranno considerevolmente le possibilità di successo di una lotta per il controllo del potere del governante (dei gruppi mafiosi, nda). Questi gruppi e istituzioni in grado di agire indipendentemente sono chiamati loci di potere (G. Sharp, op. cit).
In tal senso, nella vicenda della duplice strage dei giudici Falcone e Borsellino si è parlato di risveglio, resistenza, come espressione della nuova visibilità rigettata del dominio mafiosa. Nella stessa direzione, si dirigono proposte come quella del Movi: “passaparola popolare” per il boicottaggio dei circuiti commerciali mafiosi.
- Possibili applicazioni nella lotta alla mafia
Il conseguente modello di azione nonviolenta volontaria si fonda sulla “sottrazione del consenso”, ossia sull’obiezione come strumento per minare e limitare il potenziale di potere mafioso: nel caso della lotta alla mafia si potrebbero richiamare testimonianze coraggiose di obiezione sia sul piano individuale, come quello dell’industriale Libero Grassi, sia su quello collettivo come i vari comitati dei commercianti antiracket di Capo D’Orlando, San Vito dei Normanni, Sant’Agata Militello.
In questo modello l’azione nonviolenta entra in interazione con quella repressivo-giudiziaria dello stato; anzi, lo scopo dell’azione nonviolenta, oltre che creare per il singolo o per il gruppo una forma di protezione dal condizionamento mafioso, è proprio costruire quella collaborazione necessaria perché allo stato torni possibile la sua azione repressiva.
Azione giudiziaria e azione nonviolenta tentano di entrare in sinergia per spezzare il potere di gruppi criminali.
- Precondizioni e limiti del successo del modello nella lotta alle mafie
d.1 Distingibilità e individuabilità dell’avversario
Il presupposto di questa tipologia di azione nonviolenta è che si possa distinguere chi ordina da chi obbedisce. Nei casi di successo il mafioso è prevalentemente locale (per esempio baby bande di Capo D’Orlando), circoscritto nelle attività e nell’estensione (per esempio estorsioni in un territorio definito), conosciuto e sostanzialmente rigettato (per esempio dal gruppo sociale di commercianti).
d2. Un certo grado di collaborazione dello Stato
Ciò significa la “neutralità schierata” delle istituzioni a favore dei cittadini nella lotta alla mafia. Il che, ancora una volta, sembra essere possibile solo quando si tratta di circoscritti gruppi criminali organizzati (“puniti” con pene dure), mentre più difficile qualora si abbia a che fare con gruppi mafiosi in stretto intreccio di connivenza con le istituzioni sociali e quindi più difficilmente definibili (cupola, poteri occulti) e perseguibili (impunità).
d3. Che il fenomeno criminale sia un’emergenza, ossia s’innesti in un tessuto sociale economico e culturale robusto, sano. Più difficile è riprodurre questo modello di azione nonviolenta in realtà sociali storicamente disgregate e contradditorie.
Questo approccio, dunque, evidenzia alcuni limiti, quando:
- l’occupazione mafiosa è diffusa e si è mimetizzata come metodo legittimo di gestione del potere, del controllo e della regolazione sociale dei conflitti;
- lo Stato e le istituzioni nel loro complesso non rappresentano più uno strumento per il ricomponimento dei bisogni e dei diritti sociali, ma per la tutela di interessi di ristretti gruppi (lobby di potere);
- il tessuto sociale è disgregato, lacerato e privo di auto-stima e di auto-fiducia, su una trama di illegalità dominante.
Il modello della nonviolenza volontaria trova normalmente maggiore risalto nei mass-media e nell’opinione pubblica perché coglie una manifestazione semplificata della criminalità, in cui le questioni della gestione del potere, del ruolo delle istituzioni e dei meccanismi di regolazione sociale sono scarsamente o addirittura affatto coinvolti.
L’intreccio di questi tre elementi rende estremamente complessa e articolata l’occupazione mafiosa cui è necessario opporre un’intelligente nonviolenza altrettanto complessa e strutturata.
2.2 La nonviolenza strutturale
- Ipotesi fondamentali
Dire che a un potere ci si può sottrarre obiettando, significa, in alcune situazioni, dire poco.
Ad esempio:
- in molte realtà meridionali l’obiezione al clientelismo nelle sue mille forme pervasive significa la paralisi, l’impossibilità sostanziale di avere accesso ai propri diritti essenziali, specie se non si gode di una significativa appartenenza sociale;
- nel Sud il clientelismo ha finito per agire come struttura culturale comune, indipendentemente dai caratterizzanti contenuti politici, su tutti i partiti, compresi quelli che vi si “opponevano”;
- non di rado si scopre in “atteggiamenti clientelari” (nelle mille sottili, invisibili normalità quotidiane) anche chi vi si oppone regolarmente.
Che significa?
Significa che un sistema di potere ottiene il consenso grazie anche alla complessa interazione con tutte le più significative strutture sociali di cui riesce a ottenere il controllo. Nel caso del potere mafioso ciò significa, ad esempio, il controllo dell’ordinamento sociale, economico e politico.
In tal senso, l’illegalità dominante e il potere mafioso hanno indotto un modello di sviluppo che evidentemente costituisce una deformazione del modello consumistico-capitalista con specifiche caratteristiche. Il mafioso rispettato incarna un modello attraverso cui alcuni valori tradizionali (spesso riuniti in un codice) sopravvivono nei processi della modernizzazione con i suoi meccanismi del successo, del benessere illimitato dell’opulenza dissipativa. Il mafioso, dunque, produce un modello di società caratterizzato, ad esempio, da un’organizzazione sociale chiusa e gerarchica; una cultura che agisce per paura (tutti i rapporti sociali si giocano sul rapporto amico-nemico), impotenza e fatalismo; un progresso economico, in cui si moltiplica la ricchezza finanziaria e diminuisce la produzione (cioè risorse estratte parassitariamente dall’esterno vengono in un regime di monopolio, immesse sul mercato in forma di attività finanziarie e terziarie).
In questo senso i gruppi di potere criminale instaurano nel territorio un misto di dominio e di “egemonia” (Gramsci, La questione meridionale, ed. riuniti, Roma 1966), ossia “un dato modo di organizzazione della vita sociale, nel quale un gruppo è in posizione dominante, viene vissuto come inevitabile e, dunque, auspicabile dalla gran parte della gente” (B. Martin, Gene Sharp’s Theory of Power, in “Journal of peace research, vol. 26, 2/1989, p. 215).
Grazie a questo dominio i grandi poteri criminali esercitano il loro più importante condizionamento culturale, sottile e diuturno, che consiste nello schiacciare l’orizzonte del Sud al loro modello, impedendo all’immaginazione o alla coscienza di pensare oltre le strutture della paura e del silenzio, dell’indifferenza e dell’appartenenza, del denaro e del potere.
Dunque, un’azione nonviolenta strutturale deve svilupparsi, necessariamente, su quella cruciale dell’autonomia culturale, del programma costruttivo, del cambiamento sociale, dell’elaborazione di un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello capitalistico occidentale.
- Lineamenti per una strategia nonviolenta strutturale
Esperienze simili di azione nonviolenta strutturale maturate in contesti di violenza strutturale incancrenita (ad esempio in America Latina) forniscono la seguente metodologia:
b.1 Analisi generale
“Bisogna innanzitutto conoscere un conflitto, grande o piccolo che sia, e analizzare il contesto reale e la situazione concreta”. L’obiettivo è di “discernere la realtà, ossia la verità della situazione di ingiustizia” (J. Goss, La nonviolenza evangelica, ed. la meridiana, Molfetta, 1991, p.81). Nel caso delle mafie si tratta di ricostruire il ruolo specifico svolto dai vari attori (molto schematicamente: tessuto sociale, gruppo criminale, ceto politico) e le relazioni dinamiche intercorrenti che producono un radicamento sociale del dominio criminale-mafioso. È importante, dunque, ricostruire il “contesto” in cui nasce il fenomeno del grande crimine organizzato.
I processi di modernizzazione tendono a indebolire le forme di regolazione nei vari ambiti del tessuto sociale. Dove non si è in grado di recepire il bisogno di cambiamento e di mediarlo con le realtà preesistenti (la tradizione), inevitabilmente si producono processi degenerativi. Quanto più si ritarda a ripristinare la capacità istituzionale di recepire e regolare i cambiamenti, tanto più questi processi diventano incontrollabili. Nascono, cioè, dagli interessi alla degenerazione che, camuffati in vario modo, per riprodursi si servono dei luoghi dove i gruppi sociali sono più deboli, cioè debole è l’azione regolativa che svolgono.
L’azione regolativa in una società moderna è il frutto della coesistenza di tradizioni, interessi, esperienze religiose e certezza del diritto. Tutti questi elementi vengono fatti quadrare attraverso il concetto di “credenza nella legalità”. La credenza nella legalità consegue normalmente dalla mediazione tra legittimazione interna alla singola persona (l’obbedienza fondata sulla cultura e sui valori del soggetto) e legittimazione esterna (l’obbedienza fondata sulla paura e sulla pena).
La modernizzazione richiede un continuo adeguamento della credenza nella legalità: Stato, mercato, Chiesa, sistema politico e ogni altra forma di organizzazione sociale dovrebbero tendere ad esprimere una capacità mediativa adeguata alla complessità dei processi, cercando di far coesistere ai livelli individuali e collettivi scopi, valori e3 tradizioni. Quando questo non avviene nascono i processi degenerativi.
- 2 Analisi specifica
Nel mezzogiorno la credenza nella legalità è debole e questa debolezza si è via via espressa attraverso le clientele, l’assistenzialismo, la criminalità mafiosa. E tuttavia questa carenza dell’azione regolativa non riguarda più solo il Sud ma è ormai relativa al diffondersi e al saldarsi di interessi degenerativi che risiedono nell’ambito statuale, nel mercato, nelle varie forme dell’organizzazione sociale, nazionale, e sovranazionale.
Il degrado criminale si è diffuso nel Mezzogiorno e conosce oggi questa drammatica fase di straordinaria capacità pervasiva perché non incontra sul territorio nessuna significativa resistenza collettiva e organizzata. Inoltre nella storia del Sud degli ultimi quarant’anni lo stesso modo in cui è avvenuta l’integrazione politica, sociale ed economica ha poggiato sull’illegalità di massa.
Prima attraverso il clientelismo notabilare, poi mediante quello politico e con un sistema diffuso di welfare dei sussidi, il clientelismo ha rappresentato la modalità più estesa di regolazione sociale. Lo stesso mercato non ha funzionato con le regole che siamo soliti attribuirgli e lo Stato, nelle sue varie articolazioni istituzionali, ha costituito il luogo principale di riproduzione della clientela, nel quale oggetto di scambio sono stati solitamente beni e prerogative della cosa pubblica.
A una legalità formale ha fatto riscontro un’illegalità sostanziale che ha favorito un progressivo indebolimento della credenza nella legalità: ogni norma può essere aggirata e manipolata, la cultura e la prassi concreta hanno svuotato l’idealità del bene comune; lo Stato di diritto si è ridotto alla manipolazione a fini privati di ogni associazione istituzionale e collettiva.
Negli ultimi anni, però, la clinetela politica si è trasformata in comitato d’affari e l’oggetto di scambio è divenuto il flusso consistente di denaro che suscita l’interesse dei ceti alti ed è al di fuori delle possibilità di quelli bassi.
Ciò ha portato a una minore possibilità di integrazione per i ceti inferiori che – laddove non hanno potuto godere di trasferimenti esterni sotto forma di sussidi diversi – si sono viste chiudere le vie di opportunità legali e sono stati sospinti verso quelle illegali. La pre-esistenza di aggregazioni tradizionali di tipo mafioso o camorristico ha determinato un’accelerazione nella diffusione delle attività criminali e la costituzione e il rafforzamento di vere imprese criminali.
La vecchia clientela politica non è stata più in grado di regolare il degrado tradizionale, dilatatosi e modernizzatosi, e l’organizzazione sociale meridionale e nazionale, indebolita, non ha opposto alcuna resistenza.
Le aggregazioni mafiose rappresentano così un’opportunità concreta di accedere alla ricchezza, al consumo, all’accaparramento delle risorse, all’attività imprenditoriale; in definitiva realizzano un modello di sviluppo di tipo capitalistico, in assenza di opportunità legali e di meccanismi reali di redistribuzione della ricchezza sulla base di bisogni culturali e spirituali radicalmente diversi.
Sicché la legittimazione delle centrali delinquenziali nel Mezzogiorno viene dal basso, poggia sui ceti meno abbienti, sui gruppi familistici, sulla debolezza della credenza nella legalità, sull’incapacità istituzionale di dare risposta ai bisogni. In altri ambienti e nel Nord i processi dell’illecito partono invece dall’alto della scala sociale: dai controlli azionari, dalle grandi speculazioni, dal “pragmatismo” del mercato e della politica.
L’azione degenerativa e criminale, quindi, non riguarda solo il Mezzogiorno, anche se è principalmente realizzata nel Sud e da gente del Sud; non è solo espressione della politica, anche se i politici ne sono spesso portatori; non concerne solo lo Stato, anche se le istituzioni sono molte volte il centro dell’illecito; non riguarda esclusivamente il mercato, anche se esso è oggi la sede di lobbies che occultano, legittimano e legalizzano l’azione di gruppi criminali.
b.3 Obiettivi e metodi di azione
Il superamento del dominio mafioso non sarà un processo né breve né facile. Richiederà lungimiranza e intelligenza soprattutto sul piano preventivo, quello delle sue radici sociali. Una strategia di lotta nonviolenta che voglia generare un forte consenso popolare deve, quindi, avere una profonda riconoscibilità sociale, diversa da quella debole che tentano di ottenere le élite tramite il gradimento dei mass media. Una difesa popolare nonviolenta dal crimine organizzato non può che poggiarsi sul lavoro prolungato di radicamento sociale e di azione di base, specialmente coi gruppi e nelle zone perdenti degli attuali distorti meccanismi di regolazione. È questa l’opzione discriminante fondamentale che distingue la difesa popolare nonviolenta sia dall’azione repressivo-giudiziaria sia dal lavoro più semplicemente culturale.
L’autorganizzazione e l’auto-progettualità costituiscono gli elementi essenziali di una metodologia il cui fine è risvegliare identità soggettive e collettive forti, locali e universali; riscoprire il senso aperto dell’appartenenza, della solidarietà, delle relazioni comunitarie che costituiscono l’unica forma di riferimento e di sicurezza sociale.
L’acquisizione di una tale appartenenza aperta e solidale e il lavoro di coscientizzazione richiedono un cammino difficile che è però l’unico modo per orientare il cambiamento verso forme avanzate di democrazia reale.
b.4 Preparazione dei gruppi
“Perché la strategia nonviolenta richiede un cambiamento completo di mentalità, un atteggiamento fondamentalmente nuovo nei confronti dell’avversario, di fronte all’aggressione e ad ogni forma di ingiustizia, è indispensabile un’intesa educazione spirituale e pratica” (J. Goss, ibidem). Ciò richiede un lavoro profondo di preparazione del territorio, di superamento della frammentazione tra gruppi e movimenti, di creazione di autorevoli soggetti collettivi, capaci di aggregare speranze, di coagulare esperienze e autoprodurre (il gramsciano intellettuale collettivo) continuamente opportunità e riflessione.
Ma richiede anche dell’altro. In una realtà contraddittoria, come quella meridionale, dove la disgregazione e la deprivazione dei diritti fondamentali ha ristretto lo spazio per le solidarietà collettive, i gruppi spesso rappresentano uno spaccato sociale molto minoritario, ristretto, talvolta asfittico, cioè chiuso a una comunicazione efficace col territorio. Non a caso i movimenti moderni (pace, ecologia, volontariato), fondati sulla libera associazione dei “fini”, hanno assunto sempre forme contradditorie nel territorio meridionale: presenze insignificanti o forti e sporadici movimenti di massa. Preparare i gruppi, dunque, significa trasformare il loro “gergo chiuso” in un “linguaggio aperto” capace di dialogare coi bisogni concreti e coi codici e valori culturali di un territorio.
b.5 Programma costruttivo
“Dobbiamo constatare che spesso, per mancanza di alternative, i progressi ottenuti attraverso la lotta nonviolenta sono andati perduti e le antiche violenze sono ritornate. Non è sufficiente vincere la violenza, bisogna sviluppare delle alternative autentiche, realistiche e che rispondano alle aspirazioni delle vittime della situazione (…). Già durante la lotta contro l’ingiustizia, dobbiamo far emergere l’alternativa nella nostra vita e in quella dei nostri gruppi e movimenti (…). Gli oppressi non soltanto vi scoprono la loro dignità e la forza della verità che abita in loro, non soltanto imparano a difendere una giustizia violata, ma gettano anche le basi per una società nuova attraverso l’educazione alla responsabilità sociale e civile di ciascuno, la condivisione e il servizio in tutti gli ambiti, le cooperative, i modelli di una nuova politica, ecc.” (J. Goss, ibidem).
Il programma costruttivo è il passaggio vitale della nonviolenza strutturale, specie in realtà deprivate dei bisogni fondamentali. Infatti, l’obiettivo non è tanto di liberare il Sud dai mafiosi (“non mi preoccupo semplicemente di liberare l’India dal giogo inglese”, diceva Gandhi, precisando che il “puro allontanamento degli inglesi non fa ancora l’indipendenza. Questa coincide nella consapevolezza del comune abitante di un villaggio di essere l’artefice del proprio destino, il legislatore di sé stesso”): l’obiettivo è fare il popolo meridionale capace di autogestirsi il proprio destino.
Quest’obiettivo pone alla nonviolenza una sfida di gran lunga più elevata, nella portata e nella durata, di quella posta alla nonviolenza volontaria: “l’azione nonviolenta sebbene talvolta sembri vincente nel breve tempo, nella lotta immediata, spesso a lungo andare, nella storia successiva sembra dare scarse indicazioni di un successo permanente” (B. Martin, Revolutionary social defence, in “Bullettin of peace proposals”, Aprile 1991). Perché la nonviolenza sortisca effetti duraturi nella lunga durata è necessario, dunque, che agisca per una trasformazione radicale del modello di sviluppo e delle strutture sociali che producono ingiustizie, emarginazioni, illegalità, criminalità, mafia.
Pubblicato nel numero di dicembre 1992 di Mosaico di pace