Mosaico di pace/gennaio 2020

Il convivere tra culture e identità diverse: è possibile senza guerre? Dall’etnocentrismo alla relazione reciproca e tollerante.

L’incontro tra culture e “diversità” non è un processo facile in quanto impone a individui e gruppi di ripensare la definizione di sé, l’identità. L’identità umana è un aggregato complesso di molteplici riferimenti e appartenenze, spesso refrattario a una definizione univoca.

All’ossessione della differenza e delle gerarchie fra identità, propria di atteggiamenti razzisti, non bisogna però opporre il mito di un’uguaglianza astratta fra gli uomini, perché le differenze esistono ed è il confronto fra di esse a generare progresso. Occorre evitare – come scriveva Claude Levy Strauss in “Le regard éloigné, Plon , 1984 – “l’avvento di un mondo in cui le culture, animate da una passione reciproca, non aspirassero ad altro che a celebrarsi l’un l’altra, in una confusione in cui ciascuna di esse perderebbe il fascino che avrebbe potuto esercitare sulle altre, e la propria ragione di esistere”.
La tolleranza dell’altro, come principio su cui fondare le relazioni umane, poggia sulla capacità di affermare la propria identità e nello stesso tempo di riconoscere nell’altro le differenze e un uguale diritto di affermarle. L’identità non va però affermata in modo esclusivistico, etnocentrico.
L’individuo o il gruppo devono essere disposti a mettere in dubbio i propri riferimenti culturali ponendoli in rapporto e anche in conflitto con quelli dell’altro. Nella storia dell’Occidente troppo spesso concezioni falsamente universalistiche, totalizzanti – di matrice cristiana, illuministica o marxista – hanno negato le differenze, rifiutando come residuo o reazione al progresso ogni specificità culturale altrui.
In generale non ritengo che vi siano ricette facili per lo sviluppo di società multiculturali. Pensare che il conflitto tra culture possa essere soppresso è illusorio, ma trovare gli antidoti perché le relazioni interculturali siano sì dialettiche, ma non di dominio violento non è possibile, se non si abbandona la vecchia prassi per cui la cultura minoritaria è chiamata ad assimilarsi a quella egemone.

La Diaspora
La condizione degli ebrei della Diaspora, in quanto popolo disperso fra le genti, è stata quella di una minoranza che, sulla base di un’identità sedimentatasi fondendo elementi di religione, cultura, appartenenza comune, ha interagito strettamente con le società circostanti nelle quali si è storicamente inserita. Questo incontro di identità multiformi può fornire un modello positivo anche ad altre minoranze etnico-religiose che con il fenomeno dell’immigrazione si vanno insediando in Europa.
Oggi la condizione ebraica nel mondo è cambiata. Con la nascita dello stato di Israele gli ebrei hanno ritrovato una dimensione politico-statuale, dopo due millenni di esilio senza terra né stato. A essi è dato quindi di scegliere fra un’identità nazionale in quel paese e l’integrarsi nelle società in cui essi vivono, che si evolvono pur con fatica e contraddizioni verso una forma multiculturale, partecipando alla vita civile e politica di quelle società pur mantenendo forti legami affettivo-culturali con Israele.
La storia del popolo ebraico è stata segnata dall’utopia di fondare una civiltà senza stato: un popolo disperso fra gli altri, in una successione di persecuzioni, esili, ma anche di feconde interazioni culturali. Ma dopo l’orrore del nazismo esso ha dovuto assimilare gli strumenti del potere statuale, la politica, la forza delle armi.
Ha osservato acutamente Amos Oz, il grande scrittore scomparso appena un anno fa nel suo “In terra d’Israele, Marietti, 1993”: “Sarei lieto di vivere in un mondo nel quale coesistono civiltà che si sviluppano ognuna con il suo ritmo interiore, fecondandosi a vicenda – ma nessuno stato nazionale: né emblema, né passaporto, né inno nazionale. Ma il popolo ebraico ha già inscenato questo spettacolo, da solo e a lungo… Ma nessuno si è azzardato a imitare questo modello, che gli ebrei sono stati costretti a tener in vita per duemila anni – un modello di nazione senza gli strumenti del potere. Questo dramma è terminato con lo sterminio degli ebrei d’Europa da parte di Hitler. E così sono costretto a giocare anch’io il gioco degli stati con tutti gli attributi connessi... e anche giocare alla guerra, se questa è assolutamente necessaria alla mia sopravvivenza” .
Si è così realizzato almeno in parte l’obiettivo storico del sionismo sorto poco più di un secolo fa come movimento di emancipazione nazionale degli ebrei: un luogo, nella terra di Israele, o piuttosto su una frazione di essa, secondo l’idea della spartizione di Eretz Israel o della Palestina, (ovvero, nel moderno lessico della politica e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, di “due popoli, due stati”), dove gli ebrei fossero maggioranza, potessero vivere in pace e sicurezza, fossero un popolo “normale”. Tale aspirazione si è attuata solo in parte, in quanto la normalità della pace, della sicurezza, dell’integrazione nella regione è ancora lontana.
Uno stato ebraico non significa di per sé sicurezza fisica per i suoi abitanti né la rimozione della condizione ebraica di precarietà. Anzi il diritto di Israele a esistere come stato accettato nella sua integrità nel Medio Oriente è tuttora messo in forse, cosa che infonde un senso di perenne insicurezza psicologica negli israeliani, l’angoscia di un Israele forte ma anche debole, occupante ma anche assediato, 6,5 milioni di ebrei in un immenso mare di arabi e musulmani.

Occidente e Islam
Il rispetto della diversità di culture, etnie e religioni è concetto che va esteso al di là di una nazione, al mondo nella sua interezza. Nella tensione fra Occidente “cristiano” e Oriente “islamico” gli ebrei vivono una condizione difficile, quasi in bilico. Essi sono parte dell’Occidente e dell’Oriente. L’ebraismo diasporico è oggi, infatti, quasi esclusivamente occidentale, concentrato negli Stati Uniti e in Europa. Ma Israele è parte del Medio Oriente, destinato a integrarsi in esso in un futuro desiderato di pace e normalità. Da 50 anni è scomparso, per l’esplodere dei nazionalismi, la decolonizzazione, le espulsioni di ebrei conseguenti al conflitto arabo-israeliano, l’ebraismo che per secoli fiorì nei paesi arabi ed islamici. I legami fra ebrei e Islam furono fecondi; quella ebraica fu una condizione di soggezione, di una minoranza tollerata ma raramente oggetto di persecuzioni violente come nell’Europa segnata dall’antigiudaismo cristiano.
Riflettendo oggi sull’incontro fra culture e comunità, non è giusto ritenere che i sistemi di valori che ne stanno alla base siano tutti uguali e indistintamente validi. Vi sono diversità “neutre” attinenti al modo di vestire, mangiare o comunicare che non implicano gerarchie di valori. Ma vi sono diversità relative a valori irrinunciabili, quali la difesa dei diritti umani, della democrazia, della parità fra i sessi che distinguono le società e rendono il convivere fra culture spesso difficile. Nel Mediterraneo e nel Medio Oriente questo ostacolo resta come un macigno.
La mancanza di democrazia è il limite maggiore del mondo arabo-islamico, dominato da regimi autoritari e percorso spesso dall’agitazione di movimenti integralisti che raccolgono il consenso di masse depauperate e oppresse da quei regimi. L’estremismo islamista si è nutrito del risentimento e della frustrazione degli esclusi dalla società. Per questo occorre annientare il terrorismo integralista, che glorifica in un’apoteosi di nichilismo omicida l’atto di “martirio”; ma bisogna anche comprendere ed estirpare le radici di questo male, con il progresso economico-sociale, la democratizzazione, la liberazione della politica dal dominio della religione.

Giorgio Gomel è un economista e membro del CD dello IAI, è membro di JCALL, www.jcall.eu

 

 


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