Mosaiconline/ottobre 2020

L'intervista a don Cosimo Scordato, riportata qui di seguito, prosegue l'articolo pubblicato nel numero di ottobre di Mosaico di pace. Don Cosimo Scordato opera in un quartiere del centro storico di Palermo. L'autore dell'articolo, Vincenzo Sanfilippo, gli pone alcune domande sul ruolo della Chiesa nell'antimafia e sul senso del pentimento di un mafioso per possibili percorsi pastorali e sociali di "riabilitazione" e giustizia. 

Il pentimento, per essere tale, dovrebbe essere accompagnato a una richiesta di perdono alle vittime o comunque dare segnali di un desiderio vero di riconciliazione…
Sì. È importante assumere il punto di vista della vittima. E quando parliamo di vittime dobbiamo riferirci sia alle persone singole, sia alla comunità. Non è forse vittima quella parte della società che vorrebbe portare avanti progetti di democrazia, partecipazione, di sviluppo, di cambiamento e di abbellimento dei luoghi della città? In un certo senso tutti siamo potenzialmente vittime quando qualcosa si abbatte contro i nostri progetti di vita, di sviluppo di incremento. Questo punto di vista è importante; non ci poniamo in una soluzione anti montanista a basso costo, perché anche la prima posizione di Tertulliano, che prevedeva la riconciliazione, la vedeva come traguardo possibile ma laborioso, impegnativo… Ci volevano anni di penitenza per poi presentarsi dinanzi alla Chiesa e finalmente, la notte di Pasqua, dopo avere chiesto perdono a tutta la comunità, si poteva essere riammessi con questa seconda opportunità, dopo quella battesimale.

Hai potuto fare esperienza di questi principi che hai enunciato?
Posso parlare di tre casi di mafiosi "amici miei". Uso il termine amico con tutte le virgolette necessarie. Il primo si chiama Settimo ed ha oggi più di 80 anni. È stato due volte in carcere. Ha subito la prima condanna per mafia, è uscito e ha fatto in seguito ancora altri anni di carcere. Quando uscì per la seconda volta dal carcere chiese di poter essere assegnato dai servizi sociali in un contesto sociale di recupero. Venne da me e accettai la sua proposta. Confesso di avere agito con ingenuità. Lui mi aveva fatto capire che ormai a 75-76 anni di età tutto era ormai alle sue spalle … così gli consentimmo di frequentare il Centro Sociale di San Giovanni Decollato, che lavora con bambini del quartiere dell’Albergheria a Palermo, nella zona di Via Castro. Ho pensato che lavorare con i bambini, per un ex mafioso, fosse una buona opportunità… con i bambini ci si deve abbassare al loro livello ed essi mettono a dura prova la pazienza… e così più volte mi capitò di incontrarlo mentre tornava dal Centro dove andava quasi regolarmente. Lui mi diceva: «Ma comu si fa a commattiri cu sti picciriddi!» [Ma come si fa a combattere con questi bambini?] ed io rispondevo: «Settimo, questo è il nostro lavoro…», ma questi commenti ci facevano convincere che qualcosa aveva funzionato… Passò il periodo di frequentazione del Centro e Settimo continuò a frequentare anche la Chiesa regolarmente… Non ricordo se facesse la comunione oppure no… Insomma mi ero convinto che potevo considerarlo un ex-mafioso. Anche se non frequentava più il Centro di San Giovanni Decollato veniva però di tanto in tanto per qualche festicciola. Ricordo che Settimo compì 80 anni in quel periodo. La domenica festeggiò con tutti i suoi familiari e il giorno dopo lo vidi e gli feci gli auguri. Il giorno dopo leggo dai giornali che Settimo era stato arrestato. Addirittura i giornali dicono che Settimo aveva preso il posto di Totò Riina!
La domenica successiva denunciai questa situazione e scrissi una lettera alla comunità in cui ribadii che chi è mafioso non dovrebbe mettere piede in Chiesa … così come non dovrebbe frequentare la Chiesa chi è ladro chi è corrotto, chi ruba allo Stato, ecc. Nessuno si senta consolato dal fatto di frequentare la Chiesa perché frequentando la Chiesa non salva. No non c’è compatibilità…. Poi con calma decisi di scrivere una lettera a Settimo. Non l’ho ancora spedita e sono ancora indeciso se farlo, dopo aver sentito alcuni familiari.
Il secondo caso di cui posso dire qualcosa è il caso di Salvatore. Quest’uomo ha fatto 25 anni in carcere per mafia. Appena uscito dal carcere anche lui mi raggiunge a San Saverio e mi dice: «Io non voglio avere più a che fare né con la mafia né con i mafiosi. Non voglio neanche avere più a che fare col nostro quartiere! Voglio che lei mi faccia un favore: vorrei essere aiutato da lei a cercare un lavoretto fuori, perché finché sono qui nel quartiere la gente mi continua a vedere come prima; lei lo sa, la gente mi chiama "Mussolini", ma io non voglio avere a che fare con nessuno, neppure con quelli che si dovessero rivolgere a me per mettere la pace, io non voglio avere a che fare con nessuno. Però devo farle una confidenza… Io ho preso le distanze dalla mafia, ma lo sa perché? Forse per tutti i consigli che mi ha dato il prete in carcere? No! Per la sofferenza che ho subito in carcere? No! Io le dico che voglio lavorare onestamente per la mia bambina, che è nata mentre ero dentro. Io non la voglio lasciare più, neanche un secondo. Voglio vivere con mia figlia, voglio vivere con lei perché lei che mi ha cambiato radicalmente. Tutti gli altri discorsi non mi sono serviti a niente. Mia figlia sì. E io voglio stare con lei e non voglio avere occasione di nessun genere per perdere l’opportunità di stare con lei, con mia moglie e con mio figlio, quello più grandicello.» Queste parole mi sono servite, perché io stavo cominciando a" fargli la predica”: ma tu Salvatore… hai capito quello che hai fatto? Ecc. Lui mi avrebbe detto: «Queste cose le so tutte e gliele posso raccontare io a lei, ma la mia vita è ormai questa bambina» Questo lo sto dicendo non per fare da contrappeso alla prima esperienza che ho raccontato… no. Penso che dobbiamo riflettere sul fatto che il pensiero di una bambina e il legame con questa bambina in lui ha provocato quello che vi ho detto.
Il terzo caso è quello di Paolo che è uscito da poco dal carcere. Paolo era un ragazzino del Centro Sociale San Saverio, come tanti altri. Poi a un certo momento viene coinvolto ed entra a far parte dell’associazione mafiosa. Scontata la pena di 7 anni di carcere è venuto a cercarmi per un saluto, ma io non ero a casa, ancora non ci siamo visti... Abbiamo avuto un’ampia corrispondenza in questi anni, dei quali mi ha parlato positivamente; gli è risultata positiva l’esperienza carceraria: i dialoghi col Cappellano, la ripresa degli studi che gli hanno consentito di acquisire un titolo, l’esperienza di teatro dentro e fuori il carcere, diverse attività lavorative svolte durante la pena. E io sempre a dirgli: «Paolo, lo sai che la mafia è stata condannata dal Papa!» Gli ho mandato il libro di Padre Puglisi….

Cosa ti ha impedito di inviare quella lettera a Settimo?
Dopo il suo ultimo arresto, e dopo la denuncia pubblica del fatto, ho voluto consultarmi con i familiari e con un suo nipote in particolare, al quale ho fatto leggere la lettera che avevo scritto. Il nipote mi ha detto: «Tutto giusto quello che lei vuole dire a mio zio … sappia che la sua lettera sarà letta da altri e molto probabilmente sarà resa pubblica e sia che mio zio risponda, sia che non risponda, sarà reso pubblico anche il suo atteggiamento. E quindi, padre Cosimo, quale obiettivo vuole raggiungere?» Io risposi: «Vorrei che tuo zio approfittasse di questa situazione per prendere le distanze ufficialmente rispetto alla mafia e lo dica.» Pensavo infatti al bene che potrebbe fare la dichiarazione pubblica di un ex mafioso che prende le distanze… Nel caso specifico, Settimo potrebbe fare un appello agli altri mafiosi, che addirittura lo avevano scelto come capo... Mi rispose il nipote: «Giusto quello che dice… ma mio zio resterà in carcere, ci resterà per tutta la vita e ci resterà per noi. Lui resterà in carcere, farà il suo cammino con il Cappellano del carcere». Secondo suo nipote egli teme che ci sarebbero delle vendette trasversali; a quel punto che mi sono fermato. Non ho mandato più la lettera, gliele manderò … Alla fine mi interessa lui, per quel poco di amicizia che abbiamo avuto modo di coltivare. Certo se un capomafia desse segnali di un certo genere sarebbe una cosa molto importante per la nostra società e sono rimasto un po’ disorientato quando il nipote mi ha detto: “mio zio non farà niente, resterà in carcere a marcire…”.

Cosa ci suggeriscono queste esperienze? Come potrebbe la Chiesa trasformarle creativamente?
Penso che dovremmo trovare una possibile prassi che la Chiesa dovrebbe portare avanti in casi come quelli che ho raccontato. Certamente il compito della Chiesa non si può appiattire su quello delle istituzioni pubbliche, anche se per molti aspetti lo può condividere.
La Chiesa si esprime col suo linguaggio, parlando di peccato e di situazione di peccato. Ad una persona che vuole uscire dalla mafia si deve richiedere una conversione veramente profonda. E questa conversione deve essere credibile sia come percorso interiore, sia nelle relazioni sociali. Bisogna realmente mettere fine a tutte quelle contiguità, conoscenze, collaborazioni, rispetto alle quali non si possono non prendere le distanze e - se fosse possibile - si dovrebbe poter esprimere anche con una formula di collaborazione; se fosse possibile, proporzionatamente a quello che è giusto desiderare e auspicare…
Credo che la Chiesa debba lanciare quest’appello alla conversione. Lo hanno già fatto Giovanni Paolo II alla Valle dei templi, papa Francesco a Cassano, la Chiesa siciliana con l’ultima lettera pastorale. Come ho già detto, forse sarebbe stato meglio integrare questa appello anche con quel ci impegniamo anche noi a prendere le distanze da ogni forma, anche lontanissima, di contiguità con espressioni mafiose. La Chiesa dovrebbe, per esempio, essere più povera per essere più credibile; dovrebbe essere più democratica nei suoi processi di ecclesialità e invece tante volte non lo è; dovrebbe diventare spazio di convivenza e di pace autentica tra le persone; testimone non solo di nonviolenza "passiva" ma creativa, affinché possa fare meglio il suo compito. Ma questo appello ai mafiosi penso che vada lanciato. Bisogna dar loro la possibilità di poter essere riconciliati col Signore perché Gesù Cristo è morto mentre noi eravamo peccatori, dice San Paolo e non c’è nessun peccato che non possa essere perdonato, se l’uomo accetta di essere perdonato. Ma il perdono va chiesto per davvero. E questo perdono comporta la conversione, cioè un cambiamento radicale e anche una rinunzia a tutto quello che ciascuno ha accumulato abusivamente. Ci vorrebbero anche gesti di questo genere. Personalmente mi sono confrontato con alcuni amici e ho accettato il consiglio che mi è stato dato. Se dovesse ancora arrivare una richiesta di accoglienza, di rientro nella comunità, io dirò a questa persona che è stata mafiosa: «Sei pronto a dire pubblicamente in assemblea, dinanzi alla Chiesa, che hai preso le distanze dalla associazione mafiosa?» Ognuno ha certamente diritto di accedere ad una confessione che abbia soltanto una dimensione privata, ma fatto ciò è necessario riconciliarsi con tutta la comunità. Vorrei focalizzare questo elemento per non essere un po’ ingenui forse, o troppo remissivi. Penso sia necessario ritornare dinanzi alla comunità. Perché la mafia la offende la ferisce e la compromette. All’ex mafioso dirò che è importante che egli dica pubblicamente che si è pentito per davvero. Questo comporterà anche un cammino penitenziale ragionevole prima che si possa accedere al traguardo finale. Con ciò si ripristina peraltro qualcosa della prassi penitenziale antica. Questa potrebbe essere anche una possibilità da lasciare aperta… come comunità Cristiana dovremmo riflettere con calma e poter confrontarci un po’ più espressamente per evitare eccessi o difetti, in un senso o nell’altro.

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