Mosaiconline/luglio 2020

Intervista al giudice Vittorio Teresi. La mafia non è un cancro, dovuta a un agente patogeno esterno, ma può essere debellata partendo dalle parti sane del corpo sociale. 

Dal primo gennaio il giudice Vittorio Teresi, già procuratore aggiunto e poi sostituto alla Procura di Palermo, è in pensione. Vittorio Teresi ha dedicato la propria vita professionale alla lotta alla mafia, in coerenza con l’insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di cui era amico e di cui ha onorato la memoria. Durante la sua carriera è stato PM del processo sulla Trattativa Stato-mafia e ne ha coordinato l’inchiesta. Il 7 febbraio ha partecipato alla presentazione del dossier "Fuori dalle mafie" pubblicato sul numero di ottobre di Mosaico di pace. Lo abbiamo intervistato riprendendo alcune questioni affrontate durante l’incontro.

Nel nostro laboratorio su Nonviolenza e mafie ci rifacciamo spesso a una frase di Giovanni Falcone. “La mafia non è un cancro”. A cosa le riporta un’affermazione di questo tipo?
Giovanni diceva che la mafia non è un cancro, nel senso che la mafia non è un agente patogeno che viene dall’esterno a infettare un corpo sano, per cui basta un vaccino e la mafia sparisce da quel corpo. Non esiste una cura per le cellule mafiose che sia diversa dalla cura del corpo cosiddetto sano. Noi dobbiamo intervenire su quel corpo “sano” perché è nel cattivo funzionamento di quel corpo che sono nate le mafie. Per le questioni di cui mi sono occupato, quest’affermazione riporta al funzionamento delle funzioni che governano questo corpo, allo Stato e alle istituzioni che regolano la vita sociale: le mafie sono nate dentro un sistema costituito anche da queste istituzioni. È lì che le mafie sono diventate quello che sono. In 40 e passa anni di processi e indagini di mafia abbiamo potuto dimostrare, che le mafie non sono cellule impazzite, ma pezzi interconnessi con le parti apparentemente “buone” della società.

Nel nostro ultimo incontro abbiamo parlato della possibilità di “Uscire dalle mafie” da parte di uomini che hanno fatto parte delle organizzazioni specificamente mafiose, perché il nostro gruppo parte dalla convinzione che i sistemi mafiosi debbano evolvere anche per via non repressiva. A quali condizioni questo è secondo lei possibile?
Le esperienze più significative di fuoriuscita dalle mafie sono storie che hanno a che fare con la collaborazione. Quando dico questo mi riferisco a un cambio netto di percorso della persona che esce dalla mafia perché rende allo Stato ciò che aveva tolto. Al di fuori di un rapporto collaborativo sono pochissimi gli esempi che possiamo fare.
Certo, l’esperienza del collega Di Bella (di cui si è occupata la vostra rivista) non prevede la collaborazione. È un’esperienza di grandissima importanza nel sistema di contrasto alle mafie dal punto di vista della prevenzione. Roberto Di Bella ha avuto un’intuizione importantissima: i minori nati nelle famiglie mafiose sono quasi ineluttabilmente destinati, non solo ad assorbire la cultura mafiosa, ma a diventare membri attivi delle organizzazioni. Con coraggio e per evitare questo danno evidente ai minori, il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, considerato il dovere di istituzionale di proteggere i minori, in vista della dell’affermazione futura dell’adulto, ha pensato di togliere la potestà genitoriale e di allontanare questi minori dalle famiglie dal territorio obbligandoli a vivere in un altro contesto, in un’altra località segreta. Questo è avvenuto con difficoltà enormi di ambientazione, di socializzazione, di comunicazione perché il retroterra culturale di questi giovani è poverissimo e quindi è immaginabile la difficoltà del rapporto con altri, aggravato dalla necessità di mantenere segreta la propria identità. Importantissimo è stato l’aiuto di Libera che si è occupata di risolvere i problemi quotidiani per superare queste grandi difficoltà di questi ragazzi. A fronte di questi provvedimenti è avvenuto quello che possiamo definire un miracolo nella storia delle mafie: dopo le prime reazioni vementi e violente a questa iniziativa giudiziaria, pian piano è avvenuto un fatto straordinario: le mamme di alcuni di questi minori hanno capito la bontà dell’azione del dottor Di Bella e spontaneamente e segretamente (senza cioè chiedere il consenso del marito o del parente importante) andavano dal dottor Di Bella dicendo: «Dottore , tolga mio figlio dalle grinfie della ‘ndrangheta. Io sono disponibile a seguirli». Ecco allora che con la doppia azione di espiantare il figlio e la madre si è riusciti a rendere meno difficoltoso il rapporto di ambientazione di questi minori nei nuovi contesti.

Pensa che sia possibile parlare di pentimento per i mafiosi?
Io incontro frequentemente giovani studenti per le scuole d’Italia. Questo è ora il mio nuovo lavoro come Presidente del Centro Studi Paolo e Rita Borsellino. Parlando con loro, non parlo mai di pentiti. Io non sono culturalmente attrezzato sul piano etico-morale. Non sono un prete o uno psicologo e non sono in grado di valutare se quella persona è realmente pentita e, un po’ brutalmente, dico che, quando esercitavo la funzione di magistrato, neanche mi interessava saperlo. Io, come autorità giudiziaria, stipulavo un contratto dicendo al mafioso: «Io ti offro dei benefici previsti dalla legge se tu mi offri la tua conoscenza nel campo della tua esperienza mafiosa; se mi fai scoprire nuovi mafiosi che io posso fermare; se mi fai scoprire gli autori di delitti gravi che ancora non conosciamo; se mi fai capire come funziona oggi la logica dell’organizzazione; se mi fai vedere dove sono i depositi di armi o i depositi di stupefacenti; ecc. Se tu mi dai notizie vere, che io posso riscontrare, tu otterrai dei benefici». Se io avessi dovuto chiedermi se l’uomo che avevo davanti fosse realmente pentito, nel senso etico del termine, io forse sarei stato portato a credergli più di quanto non avrei dovuto e allora avrei abbassato la guardia perché in quel caso avrei supposto arbitrariamente di avere davanti una persona che mi diceva comunque la verità. Se, al contrario, avessi pensato che quella persona non era pentita sarei stato portato a non credergli mai e quindi avrei alzato la guardia in maniera ingiustificata. Insomma le mie indagini sarebbero state comunque condizionate in maniera positiva o negativa dal mio atteggiamento mentale. Per questo io dico che al magistrato non deve interessare sapere se la persona che ha davanti sia pentita. Quello è lavoro di altri, non dei magistrati. Il lavoro del magistrato è verificare se le cose che un imputato di mafia dice siano vere e siano trasformabili in prove giudiziarie, sulle quali i giudici potranno domani emettere una sentenza; quella sentenza che – per il mio sporco lavoro – auspicavo essere sempre una sentenza di condanna.

Mi ha molto colpito recentemente la storia raccontata da Elvio Fassone nel libro Fine pena ora. Un giudice che dopo aver condannato all’ergastolo un giovane boss mafioso di 25 anni, intrattiene con lui una corrispondenza durata quasi trent’anni. Questa vicinanza epistolare ha sostenuto questa persona nel durissimo percorso penale ed esistenziale. C’è dunque uno sguardo umano che può stemperare la durezza del mestiere di giudice?
Non si deve credere che un giudice, uscendo dalla porta della aula di giustizia possa lasciarsi alle spalle i tormenti che lo affliggono durante il suo lavoro. Conosco il libro dal collega Fassone. Si tratta di un magistrato di statura etica e culturale elevatissima. Il libro narra in maniera molto efficace quei tormenti di cui dicevo prima. Ed è un tormento che accomuna molti magistrati, non solo i giudici che devono infliggere pene detentive pesanti ed ergastoli. Quando ho affrontato i processi relativi alla faida tra i gruppi di stiddari e Cosa Nostra nella provincia di Agrigento, mi sono ritrovato davanti imputati appena maggiorenni. Questi giovani, appena arrestati, iniziarono a collaborare e mi raccontarono cose di una violenza inaudita. Uno mi raccontava che veniva utilizzato come killer. Questo ragazzino aveva commesso già numerosi omicidi e veniva utilizzato perché, non avendo un viso conosciuto, era la persona giusta per avvicinare la vittima predestinata. Lui faceva finta di giocare a pallone e faceva rotolare il pallone vicino ai piedi della vittima e nel momento in cui si abbassava per raccogliere il pallone gli sparava in faccia. Questo ragazzo poi mi raccontava che si vantava con i suoi co-associati di queste gesta… ma la notte piangeva e chiamava sua madre. Ha chiamato in correità, suoi coetanei di 18-19 anni, per i quali ho chiesto l’ergastolo. Ti assicuro che non è mai facile avanzare queste richieste nei confronti di persone giovanissime.
Il regime del carcere duro, previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario è stato introdotto con il decreto del 91 voluto da Giovanni Falcone quando era al Ministero di Giustizia. Esso è servito a interrompere la prassi di mafiosi che comandavano anche dal carcere. Alcuni di loro, all’Ucciardone, in verità, avevano la sede di villeggiatura. Questa normativa è servita a troncare definitivamente i rapporti, costanti in quegli anni, tra chi era dentro e chi era fuori dal carcere,. Perché i familiari andavano a colloquio senza vetri: si scambiavano ordini, direttive, di scambiava di tutto... Era tale il regime carcerario del boss detenuto che lui poteva tranquillamente continuare a gestire il suo potere criminale sul territorio attraverso dei “pupazzi” che andavano a colloquio con lui, prendevano gli ordini e li eseguivano fuori dal carcere. Si cercò quindi di dare una stretta con questo regime così “leggero”.
Si instaurò allora un regime carcerario particolare in cui sono diminuiti il numero dei colloqui che i detenuti possono avere, in cui è possibile essere ristretti sono in determinati istituti penitenziari distanti dalle sedi tradizionali delle presenze mafiose più diffuse: Sicilia, Calabria, Campania. Ciò ha creato problemi non indifferenti per i familiari che devono andare a raggiungere i loro congiunti e fare colloqui. Sono previste altre ristrettezze.
Nel nostro ordinamento è poi previsto l’art. 4 bis della legge 26 lugliom1975 n.354, che prevede il divieto di concessione dei benefici carcerari e un particolare regime per l’accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti.

Sul tema, dell’ergastolo ostativo si è pronunziata la Corte europea per i diritti dell’uomo e ultimamente anche la Corte di Cassazione a sezioni unite. Ci potrebbe dire il suo parere? Come si può mettere mano a questa questione garantendo al contempo umanità, sicurezza e prevenzione del rientro dei mafiosi nelle organizzazioni criminali anche dopo molti anni di carcere?
Non sono un grande fautore del sistema dell’ergastolo ostativo a tutti i costi. Mi rendo conto che l’ergastolo ostativo deve potere essere superato anche a fronte di un atteggiamento diverso dalla collaborazione, ma si tratta di materia delicatissima da maneggiare con la massima prudenza.  Temo che la ricerca di una alternativa alla collaborazione, che possa aprire la strada dei permessi al condannato all’ergastolo ostativo, si possa semplicisticamente trovare nella c.d. “dissociazione”, cioè nella semplice dichiarazione del soggetto che ammette di avere commesso i delitti di cui è stato accusato, rifiutandosi però di chiamare altri in correità.
Stiamo attenti! L’argomento della dissociazione come atteggiamento mentale e giudiziario dell’ergastolano mafioso è venuto fuori in numerose occasioni. Ho rivisto in questi giorni alcune interviste con toni aspri che io stesso rilasciai quando la Procura era diretta da Giancarlo Caselli. In quegli anni c’era stato un tentativo isolato da parte di alcuni magistrati che, senza dirci nulla, avevano preso contatti con alcuni detenuti che addirittura chiedevano il permesso di riunirsi tra di loro per discutere dell’eventualità della opportunità di una dissociazione. Stiamo parlando di condannati posti ai massimi vertici dell’organizzazione mafiosa, che si volevano riunire e discutere tra loro. La ritenemmo una iniziativa grave e molto pericolosa e per questa ragione chiedemmo che si interrompesse qualsiasi interlocuzione con i condannati. L’istituto della dissociazione nasce ai tempi del terrorismo. Quell’istituto aveva un senso perché il terrorismo è un fenomeno criminale prettamente “ideologico” per cui se tu ti dissoci e dimostri di uscire, anche solo verbalmente, dalla ideologia terroristica sei fuori automaticamente e irrimediabilmente dal sistema che ha ideato e attuato i reati che ti sono contestati. Il sistema mafioso invece è tutto fuorché ideologico. È per questo motivo che l’istituto della dissociazione non si attaglia a questo sistema. Direi che dobbiamo inventare qualche altra cosa.

Quali potrebbero essere i criteri per concedere dei benefici a un ergastolano mafioso?
Ho parlato di questi problemi con alcuni colleghi dei Tribunali di sorveglianza, perché saranno loro che avranno la competenza a decidere sulla domanda di un ergastolano o un pluriergastolano farà per ottenere un permesso in nome delle sentenze della Corte di Cassazione di cui dicevamo prima. Torniamo all’esempio della dissociazione terroristica: lì il magistrato si sedeva davanti al detenuto ergastolano che diceva: «Io rinnego la mia storia politica, mi sono reso conto che io e miei compagni abbiamo sbagliato, che abbiamo imboccato un percorso che non porta da nessuna parte e quindi non intendo più fare parte della tale organizzazione.» Era questa, sostanzialmente, la dissociazione politica e non c’era una vera interlocuzione. Il magistrato ovviamente tentava di riportare la persona sul reato specifico «lei ha sparato a questa persona … ha ucciso quest’altra…». E il terrorista rispondeva: «posso dire che l’ho fatto, ma non dirò mai con chi.» Allora io ho detto ai colleghi che, semmai un mafioso dovesse dire: «Sì io ho effettivamente partecipato a quell’omicidio "eccellente” o a quelle stragi, ma non vi dirò mai con chi», chiediamogli almeno il perché. Non limitiamoci ad una dissociazione che preveda soltanto una presa di distanza soggettiva dalle azioni criminose che sono state consumate e che vengono confessate.
Le questioni su cui si dovrebbe porre attenzione dal punto di vista giurisdizionale, ma anche da un punto di vista morale sono: c’è mai stato un avvicinamento con i familiari delle vittime? C’è mai stato un abboccamento per un tentativo di rimediare a ciò che si è fatto? E soprattutto: c’è mai stato un contributo per spiegare alle vittime e alla collettività il perché di quei crimini? Perché Rita Borsellino è morta domandandosi le ragioni per cui suo fratello è stato ammazzato. Agnese Borsellino è morta e voleva sapere perché suo marito è stato ucciso. Prima ancora che “da chi” i familiari delle vittime vogliono sapere le ragioni degli omicidi e delle stragi. Questo ovviamente vale non solo per le stragi di mafia, ma anche per quelle della strage di Bologna, di Brescia e della Banca dell’Agricoltura. Il paese ha bisogno di sapere queste cose.

Quello che dice mi riporta alla Commissione per la verità e la riconciliazione creata da Nelson Mandela in Sudafrica dopo lo smantellamento del regime di Apartheid ... anche lì venivano concessi dei benefici a coloro che avevano torturato e compiuto soprusi e omicidi, ma a patto che restituissero ai familiari delle vittime un contributo significativo per ricostruire i contesti e le circostanze in cui i loro congiunti erano stati assassinati…
Io dico che si può anche perdonare, ma la giustizia si realizza ricostruendo la verità e per ricostruire la nostra storia dobbiamo trovare la risposta a questi perché. Mi auguro che il tema della necessità di “uscire dalle mafie” che stiamo affrontando non trascuri quest’esigenza. Non è la prima volta che mi confronto con il laboratorio su nonviolenza e mafie e so che queste tematiche sono affrontate con una accuratezza, un’attenzione e un’ampiezza di veduta tali da non correre questo rischio. Sono altresì convinto che “uscire dalle mafie” si deve e si può fare con una contaminazione sociale continua. Quella che in questo momento, con il Centro Studi Paolo e Rita Borsellino stiamo cercando di fare. Io vado in giro per le scuole e le università cercando di contaminare in bene quei territori che rischiano di essere fortemente avvelenati dalle organizzazioni mafiose: penso all’Emilia Romagna, alla Lombardia, alla Toscana: tutti posti in cui andiamo a parlare tentando di bonificare quei territori dalla radioattività mafiosa di cui troppo tardi ci si è accorti.

Dal 1° gennaio non esercita più la funzione di magistrato che l’ha vista lavorare al fianco di magistrati che sono stati uccisi sapendo che avevano messo in conto questa possibilità. Per questo sono diventati un’icona per la nostra città e per tutto il nostro paese. Ci incontriamo e parlo sempre con una persona serena e allegra che non perde mai la lucidità che gli eventi richiedono… So che per fare un bilancio della sua carriera forse si dovrebbe scrivere un libro, ma ugualmente voglio chiederle: cosa l’ha sostenuta in questi anni?
Mi ha sostenuto la convinzione dell’efficacia dell’azione giudiziaria aperta e condivisa, come rimedio al proliferare delle mafie nel nostro paese. E poi la rabbia covata dopo le stragi del 1992 che sono riuscito a trasformare in determinazione e passione.

Se le mafie, come diceva Giovanni Falcone, avranno prima poi una fine, il lavoro svolto in tutti questi anni ce la fa intravedere?
Credo che la risposta risieda esclusivamente nelle scelte politiche che saranno fatte da ora in poi. Dobbiamo pretendere di vivere in un paese che non ha bisogno delle mafie, che lotti con determinazione contro ogni tipo di corruzione e che punisca ogni tentativo di interlocuzione con i soggetti che rappresentano quel sistema criminale mafioso ancora diffuso su tutto il territorio del nostro paese.

Che cosa l’aspetta oggi, da “pensionato”?
Da pensionato non intendo andare ai giardinetti né iscrivermi alla bocciofila! Non rimarrò alla finestra, ma cercherò di offrire un contributo per la crescita di una coscienza collettiva di resistenza ai sistemi mafiosi. Ritengo di avere accumulato sufficiente esperienza per potere rivolgermi ai giovani, agli studenti delle scuole e delle università per aiutarli a scegliere il tracciato delle loro esistenze ed a sapere riconoscere i sintomi delle contaminazioni mafiose, per poterle rifuggire.


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