Mosaiconline/Dossier aprile 2021/La strada comune

Il Trattato per la proibizione delle armi nucleari è stato un grande traguardo, per il futuro dell’umanità e per la sua sopravvivenza. Risultato reso possibile anche grazie al lavoro capillare e competenza di una grande parte della società civile internazionale, mobilitata in Campagne e azioni di base. Abbiamo ascoltato alcune rappresentanti dei movimenti di base attivi per il disarmo nucleare, impegnate in Italia, ripensaci: Lisa Clark, di Beati i costruttori di pace,  Enza Pellecchia e Sole Becagli, di Senzatomica.

Lisa Clark, oggi anche co-presidente dell’International Peace Bureau e partner di ICAN,  negli anni Ottanta, era accanto ai movimenti di base “contro i mercanti di morte” negli anni di don Tonino Bello, allora presidente di Pax Christi Italia, per la smilitarizzazione dei territori e poi attiva nel periodo della drammatica guerra di Bosnia. Ci puoi raccontare le origini del tuo impegno per il disarmo?

Il mio impegno nasce proprio nel periodo indicato ma si poggia sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto. Ci tenevo a dirlo, perché dimentichiamo che nel 1955 due autori, grandissimi uomini, hanno firmato un Manifesto per il disarmo nucleare: il filosofo-matematico Bertrand Russell e lo scienziato Albert Einstein. L’appello, inviato ai Capi di Stato dieci anni dopo il disastro di Hiroshima e Nagasaki, fu firmato da diverse grandi personalità e premi Nobel: “Ci appelliamo, in quanto esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità, e dimenticate il resto. Se ci riuscirete, si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; altrimenti, vi troverete davanti al rischio di un’estinzione totale”. Pochi anni dopo, nel 1958 in occasione di Pasqua, in Inghilterra si svolse la prima marcia da Londra ad Aldermaston, dove si trovava il Centro di Ricerca britannico per le armi nucleari. Questa è stata la prima marcia per la pace e il disarmo di popolo, di società civile che prendeva in mano il futuro dell’umanità per dire “Non ci sto”, “Dobbiamo intervenire”. Aldo Capitini in Italia venne a conoscenza di quell’iniziativa tramite una pubblicazione di suore nel quale si descriveva una bandiera spiegata, cucita a mano, con i colori dell’arcobaleno, simbolo di pace, e portata per tutti gli 80 chilometri della marcia. Così si fece costruire quella che divenne la prima bandiera della pace, fatta a mano dalla stessa suora che gli aveva fatto leggere l’articolo. E la prima marcia per la pace da Perugia ad Assisi, nel settembre 1961, era stata ideata da Capitini anche perché aveva sentito parlare della marcia di Londra. Obiettivo della prima marcia per la pace fu auspicare e lavorare per porre fine all’olocausto nucleare. Non era una vaga marcia per la pace, bensì specifica contro il pericolo della guerra nucleare. Poi in Italia facilmente si traduce tutto in maggioranza-minoranza, destra-sinistra e così, in un certo senso, si è nel tempo perso il suo valore e il significato iniziale della marcia di Capitini, riducendola a richieste alla politica italiana. Negli anni Ottanta, si respirava un clima fecondo e globale di movimenti per il disarmo, per lo smantellamento della divisione del mondo in blocchi, in chiave internazionalista. Non eravamo quelli che accettavano le bombe dell’Urss perché eravamo di sinistra né quelli che accettavano le bombe della Nato per combattere i soprusi del comunismo. Eravamo tutti insieme perché ritenevamo essenziale salvare l’Europa e il mondo intero dalla catastrofe nucleare.

A Enza Pellecchia, professoressa ordinaria di Diritto Privato e direttrice del Cisp (Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace), chiediamo quale sia il ruolo delle università nel raggiungimento del disarmo e da quando sono riconosciute come tasselli di impegno pacifista.

Mi ricollego al filo conduttore della riflessione di Lisa: “Siamo nani sulle spalle dei giganti”. Anche io parto dalla memoria storica dell’impegno degli scienziati per la pace e per il disarmo, anche nucleare. Il Manifesto Russel-Einstein citato prima segna l’assunzione di responsabilità degli scienziati e delle scienziate rispetto a quelle che possono essere le conseguenze negative che lo sviluppo della scienza può provocare. Dal Manifesto del 1955 nascono, su iniziativa di Joseph Rotblat, le Conferenze di Pugwash che traducono sempre di più l’impegno internazionale degli scienziati per la pace e in Italia, nel 1982, nasce l’Uspid, Unione Scienziati per il Disarmo, a cui aderiscono molti professori e ricercatori universitari, all’inizio soprattutto fisici, chimici, matematici, informatici e, successivamente, vengono accolte anche personalità di qualunque disciplina che si impegnano per il disarmo. Io stessa ne faccio parte, pur essendo una giurista e dell’area delle scienze umane. Negli stessi anni Ottanta di cui si parlava, è nato un grande impegno per la pace di scienziati e docenti, avviato dapprima fuori dalle università e poi sempre più coltivato attraverso le loro specifiche competenze. Infatti, in riferimento all’Uspid, non c’è solo l’assunzione di responsabilità ma anche la traduzione di competenze precise, proprio quelle di informatici, chimici, fisici… al servizio della costruzione della pace e del disarmo. Cosa vuol dire concretamente? Significa elaborare strumenti e tecniche per verificare che vengano rispettati gli accordi in materia di smantellamento degli arsenali nucleari. Penso, ad esempio, a tal riguardo al ruolo importantissimo che hanno gli organismi di sorveglianza per controllare che non vengano eseguiti test nucleari. Un impegno grande, non solo sociale, ma di ricerca.

Sono particolarmente onorata di rappresentare una tradizione universitaria che ha a Pisa uno dei momenti fondanti di impegno all’interno dell’università per la costruzione della pace. Il Cisp, che attualmente dirigo, nato nel 1998, guardava come modello il Centro per i Diritti Umani di Padova che ha un’esperienza oramai trentennale. Dopo Padova, Pisa, dal 2001 con uno specifico corso di laurea in Scienze per la Pace. Esperienze longeve, dunque, consolidate e che poi hanno voluto fare un salto di qualità allorquando, nel 2019, il rettore di Pisa e il rettore di Brescia hanno proposto alla Conferenza dei rettori delle università italiane una Rete di università per la pace, individuando nel Cisp il centro di coordinamento. A tale Rete, presentata ufficialmente il 10 dicembre 2020, aderiscono più di 50 atenei di tutto il territorio nazionale. Un’esperienza bella e importante e, nello stesso tempo, difficile perché si dovrà scontrare con alcuni nodi critici. Perché nelle università si fa ricerca militare. Perché nelle università arrivano finanziamenti da parte dell’industria militare. E su questi sono aspetti prima o poi ci dovremo confrontare.

Sole Becagli, coordinatrice della campagna Senzatomica, quanto è importante e che ruolo ha la società civile nel raggiungimento di un tale risultato?

Aggiungo un tassello al racconto fatto, innanzitutto. Faccio parte di Senzatomica che in Italia è promossa dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai e che, nel corso di questi anni, si è mossa portando in giro due mostre, allestite in 83 location con più di 370.000 visitatori di cui quasi il 40% studenti. Per noi questo è molto importante, perché ci consente di trasmettere alle generazioni future quello in cui crediamo e per il quale lavoriamo. Il nostro obiettivo è sensibilizzare le coscienze, come si evince dal sottotitolo della Campagna stessa: “Trasformare lo spirito umano per un mondo libero da armi nucleari”. Se non si parte dal cambiamento di ciascuno, anche obiettivi più grandi politici e istituzionali non potranno realizzarsi. Lavoriamo per cambiare la coscienza collettiva, dunque, e il nostro lavoro si è incontrato con quello di Rete italiana Pace e Disarmo. Insieme abbiamo messo in piedi “Italia, ripensaci” proprio per stimolare il governo italiano a ripensare la non adesione al trattato ma, più in generale, a rivedere tutto l’approccio sul disarmo nucleare. Dal punto di vista storico, si noti che le grandi rivoluzioni sono partite dal basso e da un cambiamento della coscienza collettiva. Nell’ambito del nucleare sono state decisive per il nostro lavoro le testimonianze degli hibakusha (nome con cui sono denominati i sopravvissuti agli attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki), che hanno raccontato in giro per il mondo gli orrori delle bombe. L’impegno della società civile è necessario, fondamentale. Quando eravamo a New York, nel corso dei negoziati che poi hanno portato a questo grande risultato, anche i delegati dei vari governi, in tutta una prima sessione, a marzo 2017, hanno ascoltato responsabili della società civile, scienziati, attivisti e hibakusha. Perché in questo ambito noi siamo i veri esperti e l’input che arriva dalla società civile serve al raggiungimento del medesimo obiettivo sul fronte politico. Di recente a livello europeo abbiamo promosso un sondaggio: alla domanda se l’Italia dovrebbe aderire al Trattato di proibizione delle armi nucleari, l’87% degli intervistati ha risposto di sì. Questo è molto significativo.

Lisa C.: E l’anno prima, estate 2019, a questa stessa domanda ha risposto di sì il 70% degli italiani. Quindi, in meno di due anni, la Campagna Italia, rispensaci ha stimolato un altro 17% della popolazione a rispondere positivamente. Sono molti meno quelli che dicono “non so” e ancora meno quelli che dicono di “no” (il 5%). Cosa fanno dunque i movimenti dal basso? Creano coscienza, fanno cultura. Ed è fondamentale, prioritario su tutto.

L’Italia però non ha firmato. Quali sono i passi da fare ora e quali gli ostacoli hanno impedito di aderire al Trattato? E come la mettiamo con le basi militari che ospitano le bombe nucleari?

Lisa C: Innanzitutto preciso che il parlamento non è stato interpellato sulla decisione di non aderire al TPNW. Anzi era stata approvata una risoluzione, nel 2017, – che adesso dovremo riprendere in mano – che chiedeva al governo di commissionare uno studio su quali potrebbero essere per l’Italia le conseguenze dell’adesione al trattato in rapporto alla sua posizione nella Nato. Questo è stato un passo notevole, ottenuto grazie a parlamentari che hanno creduto nella causa. Noi, come Italia, ripensaci, nei confronti del governo italiano abbiamo scelto di avere un atteggiamento dialogico perché stiamo cercando di aprire una strada, a partire, ad esempio, dall’iniziare una collaborazione con i paesi firmatari sui temi dell’assistenza alle vittime e della bonifica ambientale. Crediamo che se l’Italia partecipasse anche come osservatore nella Conferenza degli Stati parte del trattato che si terrà a gennaio 2022 in Austria, sarebbe un passo avanti, perché ci sono cose che l’Italia può fare prima di firmare il trattato e questo può essere strategicamente importante. I nostri obiettivi per l’anno sono, dunque, l’approvazione di una nuova risoluzione parlamentare e la richiesta che l’Italia partecipi in qualità di osservatore alla predetta Conferenza degli Stati parte. Tutti passi positivi verso l’adesione dell’Italia al TPNW.

Enza P.: Io penso che gli ostacoli siano sostanzialmente due: una mancanza di conoscenza da parte politica e una sorta di modo inerziale con cui si lavora. La prima: ogni volta che ci è capitato di parlare con un esponente politico, che sia nazionale o di enti locali o regionali, abbiamo costatato proprio una elementare mancanza di conoscenza rispetto all’esistenza di armi atomiche americane in Italia, all’esistenza di un trattato e di quello che è stato il comportamento dell’Italia in sede di lavori e poi di discussione sino alla mancata ratifica. Quindi, spesso ci troviamo di fronte a un sincero sconcerto da parte di parlamentari che sono spesso ignari dell’argomento. La nostra prima opera di sensibilizzazione deve includere innanzitutto i rappresentanti politici. E anche quando abbiamo cercato di lavorare in questa direzione non abbiamo avuto molto ascolto, per loro mancanza di tempo, per le agende sempre troppo piene, per priorità che vanno sempre in altra direzione. Questa è per noi una priorità di lavoro: aprirci una strada, un varco di dialogo che prevede una loro (dei politici, ndr) previa informazione. Il secondo ostacolo è che in molti parlamentari, una volta preso atto della situazione attuale, reagiscono in modo inerziale: “Non si può fare”. Perché? Chiediamo noi. E, appunto, con inerzia, le risposte sono sempre le stesse: “Perché apparteniamo all’alleanza atlantica”, “perché come si fa?” “ma gli altri cosa paesi cosa hanno fatto?”. C’è una convinzione errata circa le conseguenze per l’adesione dell’Italia al trattato e per una richiesta di “trasloco” delle bombe B-61 che sono a Ghedi e ad Aviano. Voglio però aggiungere un terzo elemento che mi preoccupa di più: se da parte di coloro che sono in buona fede, si tratta di poca conoscenza o di inerzia, vi è anche chi opera in “mala fede”: sono coloro che conoscono bene le “questioni” di cui parliamo; sono coloro che in questi decenni, di qualsiasi colore, hanno analizzato e discusso di nucleare, di basi, di bombe, di armi. Da parte di questi ultimi si evidenzia un’ostinata volontà a conservare le atomiche americane sul suolo italiane. È un radicato “attaccamento” ad avere un posto, sia pure di seconda fila, nel club del nucleare. Questo status che ne deriva, questa appartenenza a un club di “eletti” nucleari, di ammessi alla corte delle potenze nucleari, è l’atteggiamento più pericoloso perché è consapevole e determina le decisioni politiche. Il nostro lavoro è questo: dobbiamo trasformare in deplorevole, in disdicevole, in qualcosa di cui vergognarsi l’appartenere a questo club nucleare.

Sole B.: Il legame tra le lobby economiche di armi e la politica è forte ed è qui che il trattato si inserisce. Qualche settimana fa ne parlavamo in un incontro pubblico con Susi Snyder, di Pax Christi International e promotrice della Campagna “Don’t bank on the bomb” che affronta la tematica degli investimenti da parte delle banche. Un primo risultato a pochi giorni dall’entrata in vigore del trattato è che diversi istituti bancari si sono rifiutati di continuare a investire in armi nucleari perché ora sono illegali. Una specie di una reazione a catena. Dal primo istituto che ha messo in atto questo meccanismo ne sono seguiti altri che hanno bloccato gli investimenti. Questa è un ulteriore elemento di forza del trattato capace di rendere le armi nucleari, già immorali, anche illegali.

Lisa C.: Aggiungo un aneddoto importante a tal riguardo. Uno dei paesi che non ha mai firmato la convenzione di Ottawa sono gli Usa. Dal momento della sua approvazione, però, non hanno più usato una mina antipersona perché l’opinione pubblica, i cittadini, considererebbero questo un atto di crudeltà inaccettabile. Anche lo stigma dell’orrore delle armi nucleari può avere un grande effetto!

Il movimento italiano per un disarmo nucleare ha avuto molte anime, è variegato e con diversi approcci pur nella condivisione di un unico obiettivo. Quale l’elemento di forza del vostro metodo?

Lisa C.: In parte la risposta la si può evincere da quello che si è detto nelle domande precedenti in merito al nostro atteggiamento verso il governo. Riteniamo che deve essere sempre un lavoro di persuasione, di coscientizzazione e non un rapporto di aggressione. Siamo movimenti nonviolenti e quello che vogliamo raggiungere è il convincimento di chi la pensa in modo diverso da noi, non la sua eliminazione.

Sole B: Io penso che la nostra forza in tutti questi anni sia stata proprio il dialogo anche con chi sta su posizioni diametralmente opposte. Un dialogo basato sempre sul rispetto, sullo scambio, sull’arricchimento reciproco. Da questo punto di vista, come ci ha dimostrato ICAN, l’essere rete consente di lavorare a livello internazionale ma anche nei singoli territori; permette di operare con metodi e in luoghi diversi, ma per un obiettivo comune. ICAN così ha raggiunto risultati grandiosi, come il Premio Nobel per la Pace nel 2017.

Enza P.: Poi c’è l’importanza del rigore scientifico, del fondamento rigoroso della campagna Italia, ripensaci. Nessuna delle affermazioni di questa campagna ha mai assunto l’espressione dell’iperbole o dell’esagerazione o dello slogan, perché alla base ci sono sempre i numeri, le analisi, il contributo degli scienziati. Così è stato per le attività e le mostre di Senzatomica: nessuna parola è mai stata licenziata senza essere stata prima verificata e rivista da un comitato scientifico. Con lo stesso rigore lavora la Rete italiana pace e disarmo. Proviamo molto disagio quando, in contesti pubblici, sono fatte affermazioni infondate o non supportate da evidenze scientifiche, da dati o da prove bensì volte a provocare reazioni emotive, che non costruiscono nulla, o reazioni di contrasto individuando nello Stato italiano il nemico. A tal fine ad esempio può essere considerata l’espressione “mettere con le spalle al muro il governo”, espressione che a noi ripugna perché contrastante alla nostra convinzione e al nostro metodo, dialogico appunto. Aggiungo infine che trovo ricco e importante il contributo che può venire da chi è contrario al trattato perché acquisendo le informazioni alla base della contrarietà noi possiamo affinare le nostre capacità di analisi e di argomentazione. Gandhi diceva: “Amo il nemico perché da lui imparo”. Imparo perché porta informazioni diverse dalle mie e se voglio avere una visione più completa ed essere efficace nelle comunicazioni, queste informazioni le devo includere nel mio pensiero, altrimenti mi rivolgerò sempre e soltanto a una parte.

Abbiamo scelto donne per questa conversazione sul disarmo nucleare, e non casualmente. Vogliamo proseguire, infatti, l’anno editoriale di Mosaico di pace con uno sguardo nuovo partendo dalla cura come cultura di pace. Proponiamo un protagonismo femminile costruttivo, libero, per uscire da stereotipi e schemi. Anche nella storia del pacifismo le donne hanno avuto un grande ruolo. Esiste una peculiarità femminile in questi percorsi di pace?

Lisa C.: Ho girato il mondo negli anni passati anche in zone di guerre. Sono stata a Sarajevo, in Chiapas, in Congo... e ho trovato un’apertura culturale delle donne in tutte le culture. Nonostante queste siano diverse, l’apertura mentale delle donne è la stessa. Non è un fattore biologico bensì culturale. Le donne si occupano della comunità e del suo futuro a ogni latitudine. A Sarajevo, quando c’erano i bombardamenti e stavamo nelle cantine in attesa del termine dei boati, le donne prendevano i bambini – che fossero i loro o meno non importava – e facevano scuola, in un angolo buio di una cantina insegnavano. Per dare un aspetto di normalità alla vita dei bambini, per donargli un nòcciolo di futuro. Quando un bambino una volta, non ricordando le tabelline, chiese a una donna il senso di quello sforzo di memoria che veniva preteso mentre fuori si sentivano le bombe, la donna gli rispose che era necessario perché, una volta terminata la guerra, le scuole sarebbero state aperte nuovamente e bisognava poi essere pronti. Ecco cosa vuol dire costruire il futuro. E ho trovato lo stesso ardore nelle donne dell’est del Congo. Credo che nelle diverse culture le donne si assumono la responsabilità della comunità, non la voglia di essere necessariamente protagoniste.

Enza P: è importante quest’ultima nota sul protagonismo, perché l’essere state escluse da potere per secoli, ha reso le donne più capaci di uno sguardo diverso e non è un caso che quelle che siano arrivate al potere abbiano talora perso questa capacità di sguardo diverso. Donne che sono sempre state ai margini, messe nelle condizioni di creare relazioni laddove si trovano, possono essere vere costruttrici di pace. Non penso che il cambiamento verrà dal numero di donne che andrà ai negoziati perché, se tali donne avranno introiettato una mentalità maschile di affermazione dell’io e si saranno appiattite sulla logica dell’“uno vince l’altro perde”, il cambiamento non arriverà. Quest’ultimo si verificherà solo grazie a donne che, nelle loro comunità, producono relazione e cambiamento e sanno mettersi in rete tra loro. In questo ho grande fiducia così come ho avuto grandissima fiducia nella leadership femminile che ICAN ha sempre avuto. Leader così ci piacciono.

Sole B.: una nota “fotografica”, simbolicamente importante: sul palco del Nobel a ICAN, a ritirare il premio c’erano due donne, una protagonista della lotta per il disarmo oggi e una sopravvissuta della bomba atomica. Erano insieme. Questo è il punto di arrivo e il punto di partenza nello stesso tempo.

Grazie! Prossimo appuntamento allora sarà nella ricostruzione storica del pacifismo con protagonismo femminile.

E' possibile ascoltare l'intervista integrale in Youtube: https://youtu.be/lF2QqLctbQQ