Mosaico di pace/luglio 2021/Dossier
Intervista a Vittorio Agnoletto a cura di Mauro Castagnaro
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Dedichiamo questo Dossier di Mosaico di pace ai vent’anni da quanto avvenuto a Genova in occasione dei G8. Proviamo a ricostruire, con Vittorio Agnoletto, la cronaca dei mesi che hanno preceduto il G8 di Genova, le mobilitazioni nei giorni stessi del G8 e nel periodo immediatamente successivo, sino a capire cosa ne è stato del movimento globale di allora.
Vittorio Agnoletto, fondatore della Lila, all’epoca era il portavoce del Genoa Social Forum: come è nata l’idea di realizzare alcune iniziative in concomitanza del G8 di Genova?
Dobbiamo partire dalla storia del Movimento alterglobalista che inizia, almeno dal punto di vista mediatico e dell’attenzione dell’opinione pubblica, nel novembre dell’anno precedente, quando a Seattle, ebbe luogo la contestazione dell’incontro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. È quello il punto di riferimento dei movimenti che si stanno organizzando in tutto il mondo. Prima di Genova abbiamo nel gennaio del 2001 il Forum sociale mondiale di Porto Alegre, un appuntamento importante dove convergono i movimenti di tutto il mondo e soprattutto le leadership, coloro che pensano le strategie, che riflettono sulla possibilità di costruire delle reti internazionali. Lì questo movimento scopre la sua forza, costruisce la sua identità. E non dimentichiamo che proprio a Porto Alegre c’è il confronto diretto con i potenti della terra che, in quegli stessi giorni, si riuniscono a Davos, questa località tra le montagne della Svizzera sede di incontri che discutono del futuro dell’umanità del pianeta. Il confronto trasmesso anche da varie reti televisive è molto acceso perché emergono due idee del futuro completamente diverse. Quello che vedevamo era lo sviluppo di alcune istituzioni sovranazionali non elette da alcuno che però decidevano i destini dell’umanità: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale del Commercio. Queste tre realtà praticavano una esautorazione dello spazio democratico, della possibilità di autodeterminazione da parte delle popolazioni. In particolare il Fondo Monetario Internazionale era quello che negli anni precedenti aveva determinato piani di aggiustamento strutturale, cioè le ricette del mondo che erano molto semplici: avete bisogno di fondi? Avete bisogno di prestiti? Dovete tagliare il Servizio Sanitario. Dovete tagliare l’istruzione. In sostanza: dovete tagliare i diritti. Noi vivevamo continuamente una spogliazione di democrazia. Quando abbiamo saputo che il G8 sarebbe stato a luglio, in Italia, a Genova, ci siamo interrogati perché era una grande responsabilità. Anche dal punto di vista dell’immaginario, il messaggio era preciso: voi G8, noi 6 miliardi. 8 persone, capi dei paesi più ricchi e più potenti del mondo perché almeno così loro si credevano, pensavano di poter decidere il destino di tutti e noi volevamo dare una rappresentanza all’umanità intera che si opponeva a questo percorso ed ecco che, ancora prima del dicembre 2000, cioè nell’autunno del 2000, si comincia a costruire questa iniziativa. Inizialmente è un Patto per Genova, poi lanciamo una lettera aperta rivolta ai cittadini genovesi, spiegando che “noi stiamo organizzando un grande incontro internazionale. Sarà nel rispetto delle persone e delle cose e vi invitiamo a esserne parte e a partecipare”. Ci siamo mossi contemporaneamente su diversi piani. Primo: quello di costruire questa dichiarazione comune, a disposizione di tutte le realtà e persone che avrebbero voluto aderire al percorso, dove erano chiari gli obiettivi della nostra lotta; era chiara la scelta del rifiuto della violenza e del rispetto delle persone. È stato messo in piedi un tentativo di allargare la rete a 360 gradi, in tutte le direzioni, anche ai movimenti degli altri continenti europei continenti. Una seconda direzione è stata l’apertura, una ricerca di dialogo con le istituzioni per dire: “noi vi spieghiamo cosa vogliamo organizzare, proviamo a trovare un accordo con le istituzioni sugli spazi a nostra disposizione per riunirci, per discutere, per organizzare l’accoglienza di quello che già noi pensavamo sarebbe stato un popolo di centinaia di migliaia di persone che sarebbero arrivate Genova”. Volevamo avere tutte le autorizzazioni in clima dialogico, ma istituzioni non sono state disponibili a nessuna discussione, non hanno voluto avere nessun rapporto con noi. Hanno continuato a rinviare; poi a maggio ci sono state le elezioni ed è cambiato il Governo… Insomma la discussione con le istituzioni si è ridotte alle ultime settimane, agli ultimi giorni, per non dire alle ultime ore. E la possibilità di avere a disposizione alcune scuole, alcuni luoghi pubblici della provincia di Genova l’abbiamo saputo solo pochi giorni prima e c’era da organizzare l’accoglienza di tutta questa gente che sarebbe venuta. Noi fin dall’inizio abbiamo cercato un rapporto con le istituzioni.
Nei mesi precedenti - tu hai parlato dell’autunno del 2000, e quindi otto/nove mesi precedenti – quali sono le realtà che convergono nell’organizzazione di questo programma degli iniziative? Puoi descriverci qual è il contesto in cui avviene la preparazione del grande incontro di Genova? Qual è il clima che si crea attorno questo vertice e alle attività di contestazione che vengono annunciate?
La rete continua a crescere in modo impressionante perché a quello che poi ha cambiato nome diventando Genoa Social Forum hanno aderito 1300 organizzazioni, in gran parte italiane (quasi 1000) ma anche europee che condividevano obiettivi e modi. Erano organizzazioni molto diverse tra loro, dai centri sociali ai missionari, dai sindacati di base alla Fiom, dall’ARCI a pezzi interi delle ACLI (le ACLI nazionali avevano deciso di non aderire come tale al Genoa Social Forum). Abbiamo avuto un’adesione enorme, trasversale, tanto è vero che Famiglia Cristiana pubblicò diversi servizi dove dava il resoconto dei risultati delle interviste e dei sondaggi che loro stessi facevano oltre quelli che il movimento proponeva. Era incredibile il consenso perché andava ben oltre lo schieramento della sinistra. Coinvolgeva amplissimi settori anche del mondo cattolico e questa crescita era a livello europeo. Nel giro di pochissime settimane lanciammo la Campagna per la Tobin Tax. Qual era l’idea? La finanza domina l’economia; l’economia reale è soppiantata dalla finanza speculativa attraverso la quale un numero sempre più ristretto di persone realizza dei guadagni enormi ma questo modo di funzionare dell’economia sta creando grandi disagi sociali e licenziamenti. La Tobin Tax era una piccola tassa da mettere sulle operazioni finanziarie speculative. Nella nostra idea doveva essere il granello per inceppare il meccanismo: 150 mila firme raccolte in pochissime settimane con la richiesta al Parlamento italiano di confrontarsi e di votare un indirizzo in questa direzione.
Poi c’era il grande tema della lotta alla produzione e alla vendita delle armi. Avevamo davanti un pianeta con centinaia di milioni di persone che soffrono la fame e la sete e delle economie che rilanciavano continuamente la produzione e la vendita delle armi. Questo era un altro nostro obiettivo.
Un terzo obiettivo era lo stop ai piani di aggiustamento strutturale voluti dal Fondo Monetario Internazionale. La salute e l’istruzione sono diritti universali che ogni essere umano ha in quanto tale non perché cittadino di un paese piuttosto che di un altro. E su questo per esempio se è costruito il rapporto con il missionari che lavoravano in Africa.
Un altro tema al centro del nostro lavoro, che peraltro fu il motivo per cui aderii al Social Forum, era il libero accesso ai farmaci essenziali. Io allora ero Presidente della Lega italiana per la lotta contro l’Aids. Nel 2001 venivamo da quattro anni di battaglie durissime a fianco di Mandela e del suo governo. Quando Mandela diventa presidente del Sudafrica ha un paese dove 30% delle donne tra i 14 e i 40 anni erano sieropositive. Cerca di trattare con le aziende farmaceutiche per avere accesso ai farmaci antiretrovirali, in particolare agli inibitori delle proteasi ma non riesce a ottenere assolutamente nulla. A quel punto dice alle aziende sudafricane: “producete voi i farmaci”. 39 multinazionali capeggiata dalla Glaxo Wellcome lo denunciano al Tribunale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio accusandolo di non aver rispettato le regole sulla proprietà intellettuale e cioè il monopolio ventennale delle aziende farmaceutiche sui nuovi prodotti. Si realizza una Campagna in tutto il mondo di sostegno a Mandela; io, in quel momento presidente della Lila, coordinavo questo movimento in Europea. La linea del Social Forum era proprio questa: basta con i brevetti, i farmaci e i vaccini salvavita devono essere a disposizione di tutti. Non dimentichiamo che allora l’Africa era praticamente senza farmaci antiretrovirali. Ancora oggi ci sono milioni di persone in quel continente che non possono accedere ai farmaci importanti contro l’HIV. Allora quello era un tema caldissimo, importantissimo, fortemente sentito anche in America Latina.
Inoltre, nel 2001 riprendiamo il dibattito avviato a Porto Alegre sull’acqua come bene comune ed è proprio nel percorso di preparazione di Genova che viene coniato il termine “bene comune” che non esiste precedentemente nel linguaggio sociale o politico.
Altro tema importante è quello di una filiera corta nell’agricoltura: non dimentichiamoci che sono quelli gli anni nei quali l’Europa su spinta dell’Organizzazione Mondiale del Commercio vuole imporre all’Africa the Economic Partnership Agreement, cioè degli accordi che impediscono ai paesi africani di proteggere i loro prodotti agricoli dall’invasione delle grandi multinazionali europee che peraltro producono anche grazie ai sussidi che la Commissione Europea da’ loro permettendo di tenere bassi i prezzi e di invadere così il mercato africano il quale di proteggeva imponendo dazi. Sono gli anni in cui l’Unione Europea vuole abbattere tali dazi. Arriveremo poi negli anni seguenti al paradosso che, a Nairobi, sui mercatini si trovino i prodotti europei e non quelli che vengono dalla terra dell’uomo. Nasce la difesa dei prodotti africani e inizia la lotta contro l’acquisto di grandi terreni africani o dell’America Latina da parte di multinazionali che poi finalizzano quelle culture a prodotti da esportazioni (il noto tentativo di trasformare l’Africa in paese di produzione di monoculture finalizzate alle esportazioni, sradicando invece la filiera corta dell’agricoltura). Il ruolo dei contadini nella mobilitazione genovese è stato importante, poi certamente anche simbolizzata dalla figura del francese Josè Bovè. Ma si andava ben oltre la sua persona perché c’era un coordinamento di contadini che erano in stretto rapporto con le grandi organizzazioni di contadini africane che sono venute con delle loro rappresentanze. Cito questo per dire qual era la complessità non solo del movimento ma i temi che affrontò e mentre noi lanciavamo gli inviti a essere presenti, pensiamo a Susan George, a Wanden Bello, i media del nostro paese, salvo rarissime eccezioni, si occupano solo di lanciare grandi titoli in prima pagina utilizzando le veline dei servizi segreti del Ministero dell’Interno. Mentre noi lavoriamo piccoli fanno crescere un clima di paura, di timore, scrivendo delle cose assurde, che oggi sembrano delle battute ma erano riportate nei media…. Hanno scritto che il monumento si preparava a lanciare nei vicoli di Genova delle ruote, delle gomme chiodate contro le forze dell’ordine. Hanno scritto che pensavamo di andare a rapire qualche poliziotto per utilizzarlo come scudo umano. Sono arrivati a scrivere che aveva affittato degli aerei per buttare del sangue infetto sui cittadini di Genova e le forze dell’ordine, al punto che io ho dovuto spiegare, come medico che lavorava tutto il giorno sull’Aids, che quello che dicevano era un’imbecillità scientifica perché oltretutto il sangue infetto sinché arriva a terra non era più infetto perché il virus dell’Aids sopravvive pochissimo all’aria. Li abbiamo persino presi in giro perché non sapevano cosa stessero dicendo ma questo ha creato timore, ha alimentato la paura perché purtroppo – perché la verità bisogna dirla, anche a costo di perdere un po’ di consenso – queste cose non le scrivevano solo i giornali della destra. Bisogna andare a leggere cosa scrivevano tutti i principali giornali italiani. Ebbi delle discussioni con alcuni direttori perché avevano affidato la cronaca di quello che si stava preparando ai loro esperti di cronaca nera. Nel frattempo a Genova veniva applicata la zona rossa e quindi veniva costruita un’inferriata dentro cui veniva chiuso il centro e attraverso le veline del Ministero dell’Interno dei Servizi Segreti i media consigliavano alla popolazione genovese di allontanarsi da Genova perché chissà cosa sarebbe successo. Sono veramente rarissimi i giornali e le riviste quelle settimane – mesi, perché il percorso di preparazione è stato molto lungo – hanno discusso e si sono confrontati con noi, sulle nostre contenuto perché noi chiedevamo delle risposte. Nel frattempo il movimento ha deciso di darsi una sua organizzazione. Di questo si discute sempre troppo poco. Preparando le iniziative per il ventennale, dentro per esempio la Società della Cura, questa rete che oggi coinvolge centinaia di organizzazioni, parlando di Genova si osservava che dal dopoguerra in poi Italia non c’è mai stato un momento così unitario di movimenti e associazioni fra di loro così diverse ma che sono riuscite a darsi un’organizzazione. Abbiamo formato il Genoa Social Forum che aveva un consiglio di 18 portavoce e ognuno di essi rappresentava non un’associazione ma un’aria di intervento, i sindacati di base, i centri sociali, le associazioni che lavoravano sui servizi alla persona cioè nell’assistenza, le associazioni che lavoravano nella solidarietà con i migranti, quelli che lavoravano nel campo ambientalista… Ogni settore esprimeva un portavoce il quale prima di venire in consiglio consultava e ascoltava le associazioni in questo campo e poi c’era il consiglio che discuteva. A un certo punto si è ritenuto opportuno avere un portavoce per tutto il movimento e quel ruolo è toccato a me. Dovevo dare il messaggio è unitario e unico del Movimento all’esterno, ero la faccia pubblica del movimento, in modo tale da evitare messaggi se non contrastanti anche diversi così da dare idea di chi e quali erano i punti di riferimento e le decisioni prese, decisioni assunte sempre attraverso il meccanismo del consenso che vorrei spiegare come funzionava perché a mio parere sarebbe utile. Non sempre tutti erano d’accordo sull’agire nello stesso.
Facciamo un passo indietro.
Il Forum durava una settimana, cominciava lunedì pomeriggio, 16 luglio, e si apriva con le due sessioni inaugurali sui grandi temi, poi si sviluppava per tutta settimana ed era previsto a metà settimana il corteo di solidarietà con i migranti e poi, nella giornata di venerdì 20, le azioni dirette e il 21 il grande corteo.
Sulla giornata del 20 c’erano posizioni diverse: eravamo tutti d’accordo che tutte le iniziative del Genoa Social Forum si sarebbe realizzate nella logica della nonviolenza. C’era chi voleva fare il corteo sul percorso depositato e concordato con le autorità, altri che volevano fare delle piazze tematiche ai confini, vicino alla rete della zona rossa, altri una veglia di preghiera. Cosa abbiamo deciso? Che si sarebbero fatte quelle iniziative verso le quali nessun gruppo del Genoa Social Forum sarebbe stato contrario. Cioè un gruppo poteva decidere che non avrebbe partecipato alla veglia di preghiera ma era d’accordo che tra le proposte ci sarebbe stata anche una veglia di preghiera. “Non vado a fare il corteo che hanno fatto i sindacati di base ma mi va bene, ritengo legittimo che, dentro le iniziative proposte del Genoa Social Forum ci sia anche questa”. Se qualcuno proponeva un’attività che ad altri non andava bene, se tutti o anche qualcuno riteneva che quella attività non rientrava nelle finalità del Genoa Social Forum quella attività non andava fatta.
Questa è stata la grande forza che ha permesso a quel movimento di rimanere insieme per tanto tempo perché non dimentichiamo che quel movimento non finisce quel giorno. È quello stesso movimento che nel novembre 2002 organizza il Forum sociale europeo a Firenze e successivamente, nel febbraio del 2003, la più grande manifestazione che si sia mai realizzata nella storia dell’umanità contro la guerra. In un giorno solo milioni di persone in piazza in tutte le più grandi città del pianeta con il New York Times che uscì dicendo “è nata la seconda superpotenza” che sarebbe stato quel grande movimento pacifista. Queste grandi manifestazioni del febbraio del 2003 erano state lanciate nel novembre del 2002 dal Forum sociale di Firenze, coordinato dal Genoa Social Forum. Allora è molto importante capire come abbiamo fatto a stare insieme perché la storia delle associazioni, non solo delle forze politiche, la storia dei dei movimenti è una storia fatta molte volte di fratture, di litigi, di concorrenza… lì siamo riusciti a costruire questo grande percorso unitario. L’unica nota individuale che mi permetto di inserire in questo racconto (perché entro che abbia un senso per chi ascolta) è che il mio ruolo di portavoce, che in qualche modo era anche di garante per smussare gli angoli nelle discussioni più accese, era stato accettato da tutte le anime del Movimento, per due ragioni: ero da ormai 14 anni nella Lila e quest’ultima aveva lavorato con tutte quelle associazioni. Con tutte loro avevamo gestito gruppi di auto-aiuto, di consulenze, avevamo raccolto e offerto suggerimenti per affrontare il tema della comunicazione nelle associazioni anche verso l’esterno. Diversi attori in quegli anni mi hanno chiesto aiuto nell’affrontare un tema difficile come quello dell’Aids, anche in ambienti cattolici in cui bisognava confrontarsi con la posizione di una parte della gerarchia cattolica che considerava le persone che si toccavano come peccatrici. Avevo in sintesi lavorato con tutte le diverse associazioni. La seconda ragione è nel fatto che io ero e sono cresciuto a cavallo di questi due mondi, il mondo credente e quello della sinistra. Arrivai a Genova che avevo alle spalle anni di militanza nei movimenti giovanili di Democrazia Proletaria ma anche 20 anni di scoutismo cattolico e non solo da bambino. Lo dico perché nel Genoa Social Forum quei linguaggi si incontravano in qualche modo. C’era questa sintesi, elemento fortissimo e caratterizzante, che poi abbiamo ritrovato in due situazioni successive: nel 2003 e 2004, il grande movimento per la pace esponeva le bandiere della pace sia fuori dai centri sociali sia davanti a centinaia di parrocchie. Ritroviamo tutto questo mondo che poi riemerge con forza nel referendum per il diritto all’acqua nel 2011. È sempre questo pezzo di società civile che si mette in moto e, permettetemi, lo ritroviamo ancora oggi, nel 2021, che si mette ancora una volta insieme. Dieci anni di distanza il movimento si rimette insieme nel Comitato che chiede il superamento del profitto per proprietà intellettuale. Ci siamo ritrovati con lo stesso mondo e con la stessa ampiezza: 105 organizzazioni nazionali in cui si ritrovano le stesse motivazioni e gli stessi filoni culturali con le stesse motivazioni del 2001 in fin dei conti. Al centro c’è la vita e non il profitto e il pianeta che abbiamo è uno solo.
Vittorio, tu hai insistito molto su questo aspetto unitario. Nella fase di preparazione e durante le giornate di Genova si assiste a una mobilitazione unitaria come non mai, però poi citi tra i protagonisti i sindacati di base. Cosa vuol dire che quindi Cgil-Cisl-Uil non sono presenti in quanto Confederali bensì solo alcune categorie come la Fiom? E quello che allora era il principale partito della sinistra non era presente. È proprio vero che questa capacità unitaria riusciva a tenere dentro mondi così differenti?
Sì! Hai fatto bene a porre questa domanda perché è un tema che torna e sul quale sto riflettendo in questi giorni. Lì c’è stata l’unità della società civile e dell’associazionismo e quell’unità il grosso della politica si è tenuto lontano, anzi si è contrapposto. È una cosa su cui dovremmo riflettere. Nel 2011, quando si va al referendum sull’acqua, il 5% del parlamento è a favore di questo referendum. Poi, nella settimana che precede il referendum, quando i sondaggi dicono come sarebbe andato, allora alcune aree parlamentari cambiano vestiti. E oggi in questo comitato abbiamo dentro tutti i sindacati, confederali, di base, tutte le associazioni che si occupano di sanità, da Emergency alle storiche Arci, Acli ecc. , le forze politiche che appoggiano la lotta contro i brevetti stando nel comitato sono quelle che stanno alla sinistra del Partito Democratico. Come portavoce di questo Comitato italiano ho mandato le lettere a PD e M5S per chiedere di aderire ma ci sono solo adesioni individuali. I 30 artisti che sono venuti in questo comitato e che il 7 aprile hanno dato 5 minuti della loro arte a favore della battaglia contro i brevetti aderendo al Comitato, rappresentano un pezzo della società civile non della vita politica. Anche in questo caso la società politica è lontana, è fuori però questo va visto positivamente, perché in Italia c’è una ricchezza della società civile e di un pezzo del mondo artistico che ha una sua capacità enorme di riflessione, di decisione e di azione indipendente dal quadro politico. Sono quelli che si battuti per l’acqua, quelli che fanno parte di questo comitato ma anche quelli che sono venuti alla mobilitazione contro la guerra negli anni scorsi. Si sono riconosciuti in alcuni contenuti. È questa la forza della società civile. Ed è importante.
Sì hai ragione, anche se penso che questo sia un nodo che non riusciamo ad affrontare. Ad esempio, quale fetta del nostro Parlamento sosterrebbe oggi l’adesione dell’Italia al Trattato ONU per la proibizione delle armi nucleari? Probabilmente saremmo su percentuali intorno al 5%. Poi però i sondaggi ci dicono che perfino nell’elettorato di Fratelli d’Italia la maggioranza degli sostenitori della firma ruota attorno al 70%. C’è una sfasatura tra l’opinione pubblica e la rappresentanza politica che è un problema. Un problema sia per la legittimità della istituzioni democratiche sia per la loro permeabilità e per la possibilità che la società civile veda le proprie istanze tradotte in decisioni politiche, in leggi, in interventi di politica estera….
Quello che tu dici è incontestabile ed è vero che è un problema però ci dice anche quale può essere la forza dei movimenti della società civile per ottenere dei risultati. Perché anche le conquiste storiche che ci son state, come il divorzio, la possibilità di ricorrere all’interruzione di gravidanza, lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria…, sono state conquiste costruite prima nel paese e poi sul piano istituzionale con dei partiti. Sono state ottenute prima nel paese come coscienza e consapevolezza. Allora c’è tutto limite e l’aspetto negativo che tu illustri ma c’è anche l’importanza di dire a chi ci legge e ascolta del peso che possiamo avere quando ci organizziamo insieme per delle battaglie precise e mirate. Questo credo che ci dia speranza.
Torniamo a Genova 2001. Raccontaci qualcosa di quei giorni. Una settimana, una quantità enorme di iniziative, il clima fecondo e unitario che si respira… Raccontaci anche i retroscena perché sei uno che non solo ha partecipato a tutta la settimana ma hai contribuito, con un ruolo chiave, a costruire tutto quel lavoro.
Hai ragione, hai profondamente ragione. Va raccontata la settimana perché Genova non sono solo i due giorni di tragedia che si sono verificati venerdì e sabato. Genova comincia lunedì e in questa grandissima assemblea di apertura, ad esempio, interviene Susan George che mette in guardia dalla finanziarizzazione dell’economia che condurrà l’Europa in tempi brevi sulla strada di una crisi economica e sociale senza precedenti. È il 2001. Cosa avviene nel 2008 e nel 2009? Esattamente questo. E la causa di quelle crisi non è la finanziarizzazione dell’economia? Non è la bolla finanziaria? In quella stessa assemblea interviene Walden Bello che aggiunge che se questo modello di sviluppo non cambia rotta assisteremo a cambiamenti climatici e alla riduzione di risorse tali alcune popolazioni dovranno mettere in discussione il loro stesso habitat. E gli tsunami? E l’aumento di temperatura, la pandemia stessa non è una zoonosi, cioè un salto di specie di un agente infettivo provocato dall’abbattimento di quelle barriere che dividevano le specie? E l’abbattimento di quelle barriere non è risultato di uno sfruttamento senza freni di ogni centimetro quadrato del pianeta? E ancora non è il risultato di un modello di sviluppo centrato per esempio sulla deforestazione, sugli allevamenti intensivi e via dicendo? Lunedì 16 luglio 2001 delle “Cassandre” prevedevano quello che sarebbe accaduto al nostro mondo, al nostro pianeta se non fossimo riusciti a cambiare direzione e di marcia. Per 4 giorni andiamo avanti a discutere tema per tema con esperti che arrivano da tutto il mondo, oltre che sa tutta Italia. Abbiamo una schiera autorevole di studiosi e ricercatori di movimenti sociali, esponenti della cultura progressista. Arrivano a Genova per parlare e confrontarsi su ambiente, acqua, armi, migrazioni, modello di sviluppo, cultura. Ci sono sessioni sull’incontro tra le religioni; c’è lo scibile analizzato e trasformato in progetto perché il movimento altermondialista che va da Seattle a Genova e poi a Firenze è sempre stato movimento fortemente propositivo, aperto al confronto. Confluirono anche tante esperienze, che poi si rappresenteranno nella rete, di piccoli comuni sulle capacità di produrre energia, sulla capacità di ridurre il consumo di suolo, trovano spazio di presentazione e studio. Oltre ai contenuti tematici, è importante anche il metodo: il bilancio partecipato ad esempio, che noi avevamo visto e sperimentato a Porto Alegre, città brasiliana in cui la giunta, frutto dell’alleanza di partiti della sinistra brasiliana, aveva stabilito che una parte del budget comunale sarebbe stato deciso nelle sue priorità da parte di cittadini attraverso una serie di incontri quartiere per quartiere per individuare le urgenze del territorio. A Genova abbiamo parlato di queste esperienze, di sperimentazioni con qualche successo nei comuni più piccoli e con resistenze di quelli più grandi, perché le amministrazioni delle grandi città Pensa non capiscono l’importanza di coinvolgere la popolazione.
Quindi per i primi 4 giorni questo è stato il nostro evento, in clima di festa, di gioia, anche sotto forti acquazzoni. Tanti giovani dormivano in tende, in campeggi nelle zone che ci erano state indicate. Di notte hanno dovuto smontare le tende e correre a cercare riparo perché pioveva.
La scuola Diaz era una di quelle messe a disposizione dalla provincia di Genova per ospitare chi non aveva un posto per dormire (o non avevano più un posto per dormire).
Poi c’è stata la grande manifestazione, imponente, importante perché anche lì, in anticipo, abbiamo colto che il migrante sarebbe stato paradigma degli anni successi; che era sulla figura dei migranti che si giocava il futuro perché quel modello di sviluppo aveva bisogno di milioni di persone da utilizzare come schivi privandoli dei loro diritti cui far fare il lavoro nero. Il mondo più ricco aveva bisogno di usare il migrante e di gettarlo via. È quello che è avvenuto nel mar Mediterraneo che è diventato una tomba, nei governi che danno la caccia agli uomini e alle donne.
Capivamo che la figura del migrante avrebbe attirato su di sé una fetta importante del conflitto futuro. E quando parliamo di migranti cerchiamo di evitare di essere eurocentrici perché il problema delle migrazioni riguarda tutti. Riguarda per esempio anche quella tragedia, di cui si parla troppo poco, che continuo ad accadere ogni giorno al confine tra gli Stati Uniti e il Messico. O a quella che accade con le carovane di popolazioni che partono dal Costa Rica, dall’Honduras. Fu una manifestazione con decine di migliaia di persone, bella, festosa, con tantissimi canti. Poi il concerto con Manu Chao la sera, con don Andrea Gallo. È questo clima che si respirava a Genova. Io mi ricordo che dissi a chi mi era vicino che era come se stessimo in un catino, dove noi facciamo tutte queste cose, discutiamo di questi temi, lanciamo messaggi ovunque, riceviamo persone da tutto il mondo ma fuori stanno costruendo un’altra cosa. Fuori le televisioni e i giornali continuavano a lanciare allarme, a far crescere un clima di paura. E dentro questo clima di paura ci sono tutta una serie di singoli episodi che si verificano e che danno segni che a questo movimento non potevano permettere di andare avanti in questa direzione. Hanno paura della nostra forza, avevamo avuto paura anche prima perché questo movimento è stato represso a Praga, perché questo movimento è stato represso pesantemente anche a Napoli dal governo che c’era prima, un governo di centro-sinistra non destra. Si arriva a venerdì. Giorno di mobilitazioni, anche intorno alla zona rossa. Il Genoa Social Forum organizza diverse piazze, disegnate sulla cartina, consegnate giorni prima ai vertici della polizia, alla questura, ai giornalisti. Tutto alla luce del sole per comunicare cosa si voleva fare.
Cosa succede quel venerdì dopo tutto questo?
Sappiamo bene tutti cosa succede. Scatta una repressione tremenda, violentissima. Succede che il corteo delle Tute bianche, regolarmente autorizzato, viene attaccato da stormi di ufficiali dei carabinieri il quale ha ricevuto ordini dalla polizia – è la polizia che gestisce gli ordini in piazza, non i carabinieri – di avviarsi in un sottopassaggio e di andare in un’altra zona di Genova per fermare quello che stanno facendo i cd Black Block, che sono totalmente esterni, che anzi si sono contrapposti al Genoa Social Forum. Un gruppo di carabinieri dunque riceve ordine ma inspiegabilmente invece si ferma a metà strada e blocca il percorso del corteo autorizzato. Ci sono le registrazioni che partono dal comando della polizia che dicono: “Cosa fanno lì? Toglietevi di mezzo”. C’è la polizia che è alla fine del percorso del corteo e chiama in centrale per sapere cosa facessero i carabinieri lì davanti…E la polizia replica: “Non rispondono più non riusciamo a comunicare con loro”. Quindi assistiamo a un’iniziativa autonoma dei carabinieri contro il corteo delle Tute bianche che ha commesso alcun atto di violenza, anzi nella zona in cui vi erano i Black Block le Tute bianche passano stando ben attenti a non avere il minimo contatto, a non creare la minima confusione. E se qualcuno è esagitato viene bloccato. Parte l’attacco dei carabinieri con tutto quello che ne consegue fino ad arrivare alla morte di Carlo Giuliani.
Questi sono gli eventi. Possiamo dire che in quel momento, nella centrale operativa dei carabinieri – che per volere di questi ultimi era stata unificata con quella della polizia ma, come detto, in piazza è responsabile la polizia – nella centrale operativa dei carabinieri c’erano tre parlamentari della destra che non avrebbero mai dovuto essere là. Dopo che è accaduto ciò che sappiano, Fini che era il “capo” del partito di destra, abbandona immediatamente tutto per correre a Genova a giustificare quello che è accaduto. Da quel momento tutto lo scenario cambia. Non si discute più dei contenuti ma solo di quello che è accaduto. Il giorno dopo, abbiamo poi la grande manifestazione. La sera tardi c’è una riunione tra i portavoce ma è gran caos, perché ci sono migliaia di persone ferite dalla calca e della violenza dei carabinieri, è stato ammazzato Carlo Giuliani. C’è un grande tensione e bisogna decidere che cosa fare. Lì c’è un’assunzione di responsabilità da parte del movimento perché in quel momento, da tutta Italia, sono già partiti treni, bus, macchine, di persone che devono arrivare a Genova. Se il Genoa Social Forum si fosse tirato indietro, le trecentomila persone che sarebbero arrivate, da sole, senza indicazioni, senza informazioni, con la notizia del morto avvenuta il giorno prima, cosa sarebbe successo? Quali tragedie sarebbero capitate? Noi ci siamo assunti la responsabilità di mantenere la manifestazione del giorno dopo e il grande corteo. E si fa. Ma anche il grande corte viene attaccato polizia in modalità della violenza e di forte repressione. Non ho bisogno di raccontare, è sufficiente vedere uno dei centinaia di persone che sono in rete. Si riempiono gli ospedali e i Pronto Soccorso. Arriviamo alla sera di sabato, è quasi mezzanotte, io sono a casa un amico. Sino a quel momento io stavo regolarmente con gli altri della Lila, poi è cambiato tutto perché mi erano arrivate delle minacce, con una busta con dei proiettili e così dovevo cambiare ogni sera il luogo in cui dormire. Non avevo guardie del corpo. Di me si occupavano due persone della Fiom e due messa a mia disposizione dal Gruppo Abele, da don Luigi Ciotti, mio grande amico anche perché era stato presidente della Lila prima di me. A mezzanotte mi arriva la telefonata: corri alla Diaz, stanno ammazzando tutti. Quando arrivo… quello che vedo lo avete visto anche voi nei filmati. Non ci si può avvicinare. Alla polizia grido di essere il portavoce, di essere medico, per potermi far entrare. Dopo vedo uscire delle barelle con persone che… non sappiamo in che condizioni sono. Quando poi entro nella scuola, tremo. Sangue da tutte le parti. Sapremo dopo che i giovani erano stati portati all’ospedale e che molti di loro sarebbero stati prelevati e alcuni portati a Bolzaneto. Per più di quarantott’ore non sapevamo nulla delle persone. I telefoni erano sopraffatti dalle telefonate dei genitori che non sapevano più nulla dei figli. Poi si viene a sapere delle torture, riconosciute dal tribunale come tali, praticate a Bolzaneto. I genitori poi hanno ritrovato i loro figli nei diversi carceri sparsi in tutta Italia, alcuni giorni dopo.
Abbiamo fatto la grande assemblea domenica con un clima completamente cambiato dal giovedì. Forse vale la pena anche che racconti un paio di questioni meno conosciute.
Il lunedì dopo, quindi stiamo al 23 luglio, c’è una riunione per gestire la situazione anche in termini di comunicazione. Di tanti non si hanno notizie, sono spariti, tra i genitori e i parenti c’è panico. Mi arriva una telefonata da una persona informata che mi avvisa che c’è stata una riunione e che hanno deciso che Genoa Social Forum deve essere dichiarato fuorilegge, un’associazione sovversiva, e che sarei stato arrestato. Io rientro in riunione e riferisco la comunicazione. Ho fatto sempre tutto alla luce del sole, però dovevamo decidere perché, nel caso di mio arresto bisognava decidere chi sarebbe stato il portavoce del movimento. C’era bisogno di una voce che rappresentasse tutti. Decidemmo che invece di un portavoce ci sarebbe stato bisogno di un comitato di personalità che si mettano in gioco per questo movimento che era stato un grande movimento pacifico. Io propongo di affidare la presidenza di questo comitato di garanzia a Luigi Ciotti, così lo chiamo avvisandolo che, in caso di mio arresto, sarebbe stato lui la voce di tutti. Chiese solo una condizione: l’accordo unanime di tutti. Eravamo tutti d’accordo. Fui avvisato che sarei stato arrestato dopo il funerale di Carlo. Appena finito il funerale, ho ricevuto una telefonata da un giornalista che mi avvisa che non sarei stato arrestato perché nessun magistrato nel Palazzo di Giustizia di Genova aveva voluto firmare per dichiarare sovversivo il Genoa Social Forum.
Non è la politica che decide dove stanno i reati e chi deve essere perseguito ma c’è una giustizia che si rifiutava di seguire un’indicazione arbitraria. Certo è che quella repressione ha segnato molto, l’ha segnato nella carne, nello spirito, nella testa. Nella carne perché tanti nella carne hanno il segno delle violenze subite, alla Diaz, a Bolzaneto…. L’ha segnato nello spirito perché ha rotto un sogno anche di giovanissimi che per la prima volta prendevano la parola. All’entusiasmo, all’idea che poteva cambiare qualcosa, è seguita invece la repressione. Ha colpito anche nella testa perché la repressione era finalizzata a destabilizzare e distruggere il movimento. A quel punto ci sono state spinte diverse: una parte del Movimento voleva rispondere concentrandosi sul tema della repressione e un altro gruppo di associazioni sosteneva di non essere abituato a confronti così forti. Torniamo alle nostre attività, difendiamo quello che stiamo facendo. La Lila aveva gruppi di autoaiuto, le case da gestire, non tutti volevano passare tutto il tempo a rispondere alle accuse di governo perché c’era bisogno di mandare avanti le attività di ogni giorno. Ognuno si rimette la propria giacca. Ognuno riprende la propria strada. Il movimento si è indebolito, certo ha retto ancora per due anni poi le spinte sono stati troppo forti. Per molti è stato l’unico modo per dire “continuo a fare così in cui credo ma nel mio piccolo” perché la possibilità di pensare in grande era stata soffocata nella risposta violenta.
Tu ne hai parlato pochissimo ma in quei giorni l’enfasi sui Black Block era stata alta. Che idea ti sei fatto di quella realtà?
Non ho cambiato idea. Il Genoa Social Forum aveva le sue regole, le sue scelte. Aveva scelto il terreno della nonviolenza. Questi altri gruppi avevano logiche totalmente diverse; hanno anche individuato come controparte il Genoa Social Forum. Il mio giudizio è netto, l’ho allora e lo ribadisco. Nei Black Block c’erano anche infiltrati dei servizi segreti non solo italiani, perché è chiaro qual era il gioco del potere: “sono tutti responsabili di quello che è accaduto”. In realtà serviva per squalificare il Genoa Social Forum. Le istituzioni avevano una grande paura dei nostri contenuto e della loro forza, perché il movimento stava conquistando fasce importantissime della popolazione. Questo stesso movimento in America Latina è stato alla base di decenni di governi progressisti in quasi tutti i paesi dell’America Latina, dal Brasile, all’Ecuador, alla Bolivia... Il substrato sociale di contenuti, con contesti e storie diverse, era simile e in Europa è stato stroncato immediatamente. Il potere utilizzato le azioni Black Block per spegnere tutto.
A distanza di venti anni: hai già accennato a qualcosa in merito ai contenuti; alcune contraddizioni che il movimento evidenziava – non essendo state affrontate allora, non essendo stato aperto il dialogo con il movimento da parte delle istituzioni – ce le siamo ritrovate amplificate a distanza di vent’anni. Che cosa resta, dopo vent’anni, di quell’esperienza di mobilitazione e di repressione? Cosa resta di un’esperienza di rapporto tra azione sociale e istituzioni che dovrebbero essere democratiche?
Sta uscendo proprio adesso la seconda edizione ampiamente rivista del libro nuovo sulla democrazia, “Le verità nascoste del G8 di Genova 2011”, scritto con Lorenzo Guadagnucci e lì ci soffermiamo proprio sui temi che hai posto adesso. È incredibile che, dopo le sentenze sulla Diaz e su Bolzaneto (e dobbiamo molto è al pubblico ministero Enrico Zucca che, nonostante tutte le difficoltà che gli hanno creato tutti suggerimenti di fermarsi, è andato avanti), dopo le decisioni della Corte europea, dopo tutto questo, è molto triste andare a vedere come molto poco, direi nulla o quasi è cambiato all’interno delle forze dell’ordine. Sono passati vent’anni e siamo ancora a discutere sui codici di riferimento, richiesti espressamente dalla Corte europea, cioè la possibilità che, quando un carabiniere sta compiendo il suo lavoro, il suo dovere, abbia un codice per cui debba poi essere riconosciuto per le sue azioni. Peraltro, proprio i carabinieri e i poliziotti dovrebbero chiederlo come tutela per il proprio agire se corretto. Eppure non siamo ancora riusciti ad arrivare a questa legge. C’è una legge sulla tortura che è semplicemente un documento di principi. I magistrati che si sono occupati dei processi di Genova hanno detto che, anche qualora ci fosse stata una legge sulla tortura, non sarebbe stata applicabile così come è stata fatta. Non sarebbe stata applicabile all’interno delle sentenze della Diaz e di Bolzaneto, perché in Italia non c’è una legge sulla tortura. Non c’è stata un’assunzione di responsabilità da parte dei vertici della polizia e chi è venuto dopo. La formazione delle forze dell’ordine in ogni parte del mondo è una cosa importante e delicata. Non è formazione all’uso della forza e basta bensì anche alle tattiche di interposizione e altro. Cosa è stato fatto di tutto questo? Noi abbiamo assistito negli anni alla promozione di dirigenti della polizia che erano stati condannati nei processi. Venivano condannati nei processi e promossi ai livelli più alti della politica. Ma questo ambito credo che sia importante sempre evitare di fare di tutta l’erba un fascio perché anche nella polizia ci sono state delle persone, e più di una, che hanno testimoniato con coerenza i valori della Costituzione che loro servono indossando la loro divisa e credo che vadano ricordati. E voglio ricordare il vicecapo della polizia Andreassi, era il capo operativo a Genova, mentre De Gennaro stava a Roma. Quando arrivarono le indicazioni dell’operazione Diaz, Andreassi non vi partecipa, non va alle riunioni. Da Roma devono inviare un altro capo polizia a gestire tutto e quando poi i magistrati svolgono le loro indagini, Andreassi collabora, testimonia davanti ai magistrati e così Andreassi finisce la sua carriera nella polizia. Ma ci sono altri esempi: il poliziotto che testimonia che le molotov dentro la Diaz stavano prima dentro un mezzo della polizia e che poi lui riceve una telefonata che gli dice di portale nella scuola. O il poliziotto che riconosce che altri materiali erano stati trovati in altra zona di Genova non dentro la Diaz.
Io credo che sia giusto dire queste cose. Quello che però mi crea maggiore inquietudine è che queste sono le persone che avrebbero dovuto fare carriera dentro la polizia; sono le persone che avrebbero dovuto arrivare ai vertici, perché incarnavano i valori costituzionali. Sono persone che invece sono state messe ai lati e più di una di queste ha dovuto abbandonare la polizia e non è un fatto isolato. Come mai a un certo punto i magistrati vanno a fondo sulle indagini che riguardano Bolzaneto?
Perché due infermieri penitenziari che erano in quei giorni a Bolzaneto tornano a casa loro, passano delle notti insonni, poi decidono di andare dai magistrati di Genova a raccontare quello che hanno visto. Sono arrivati ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. Hanno dovuto lasciare tutto, ritenuti indegni di stare dentro e stiamo parlando di un settore dello Stato.
Queste cose non sono accadute in quei giorni ma dopo, quando già si sapeva cosa era accaduto e non devono accadere perché queste sono il vulnus di tutto nostro paese, della nostra democrazia. Io credo che dobbiamo tanto a queste persone che sono anche rimaste senza lavoro. Non sono state dimenticate. Poi ci sono le idee, quelle che vanno avanti: è più facile colpire le persone. Le idee nessuno riesce a rinchiuderle. Sfuggono. E le idee sono andate avanti, magari non in modo pubblico, ma poi sono riaffiorate. Per esempio nel 2011: ritroviamo molto spesso le stesse persone ma soprattutto le stesse realtà, associazioni, movimenti che hanno fatto il Genoa Social Forum. E i valori sono sempre quelli, non cambiano, in Italia e nel mondo. E sono valori che costruiscono reti che sono quelle di solidarietà con i migranti, che non hanno avuto la capacità magari di darsi una significativa rappresentanza politica ma che non ha mai smesso di mettere al centro i diritti e il diritto alla vita per tutti. E quando allora noi dicevamo voi G8 noi 6 miliardi.
Oggi è la stessa cosa: voi poche persone, che sono gli azionisti delle grandi multinazionali aziende farmaceutiche, e noi 7 miliardi e 800 milioni di persone, che siamo qui ad aspettare di avere un vaccino mentre voi state facendo miliardi e miliardi di euro all’anno con i brevetti.
Lo scontro è ancora quello: può cambiare il nome dell’oggetto, ma in nome dell’umanità. Un piccolo gruppo di persone che rappresenta l’apice della piramide della ricchezza. Una piramide con un apice sempre più piccolo e una base sempre più estesa, ma lo scontro è sempre lo stesso, con un’aggravante perché oggi che il pianeta, il futuro del pianeta è in discussione. Che l’esistenza del genere umano è in discussione e che cosa sarà delle future generazioni dipende unicamente da noi.
Se lo devo sintetizzare, allora noi dicevamo “un altro mondo è possibile”; io oggi direi “un altro mondo è necessario”, anzi “urgentemente necessario” perché il tempo che abbiamo davanti non è infinito. Allora io mi rivolgo non solo quelli che allora erano a Genova, non solo a quelli che hanno capito cosa era Genova anche se non sono venuti, ma mi rivolgo a tutti, e sono tantissimi, che hanno colto quello che dicevamo. Forse non siamo stati in grado di spiegarci, alcuni ci hanno guardato con diffidenza. Ma la battaglia che dobbiamo fare adesso è una battaglia nell’interesse di tutti non in quello di poche persone. Mai come oggi nella storia recente del genere umano, il valore politico e sociale della solidarietà, il valore religioso della carità e le evidenze scientifiche hanno viaggiato in modo così vicino, sovrapposte l’una all’altra. Il messaggio è chiarissimo: o cambiamo il corso della storia e dello sviluppo dell’umanità o ne pagheremo tutti conseguenze gravissime.
Grazie Vittorio, per questa carrellata. Ci sarebbe ovviamente tantissimo da dire, da riprendere, ma ovviamente non si può esaurire tutto in una chiacchierata di un’ora e mezza. Grazie!
Questa versione dell'intervista, più lunga rispetto a quanto pubblicato nel numero di luglio 2021 di Mosaico di pace, non è stata rivista dall'autore. La Redazione ringrazia Mauro Castagnaro e Vittorio Agnoletto per la disponibilità.