Mosaico di pace/ settembre 2021/ Dossier
Disprezzo imposto dal sistema, dai cambiamenti strutturali, dai ritmi di lavoro e senso che invece cresce in un numero sempre maggiore di persone: che cambiamenti sono intervenuti nel mondo del lavoro? In passato da alcune classi di lavoratori il lavoro era considerato come un qualcosa da cui bisognava liberarsi, arginandone le ore e il tempo. Oggi grandi trasformazioni di leggi e di senso sono intervenute. Quale importanza ha il lavoro, posto all’art 1 della Costituzione e cioè alla base della nostra democrazia?
Una fase nuova per il mondo del lavoro
Anche in Italia si verifica una escalation nell’attacco al lavoro, che potrebbe essere paragonata a quella fase di repressione che caratterizzò gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, interrotta quasi inaspettatamente dalla fine degli anni ‘60 con le conquiste maturate in una crescita democratica dell’intera società. La Costituzione di democrazia sociale che si affermava nel Paese, varcava finalmente la soglia delle fabbriche e degli uffici e il suo cammino si sarebbe detto irreversibile man mano che ci si avvicinava alla fine del secondo millennio. Gli sconvolgimenti della globalizzazione liberista, mentre da una parte hanno sovvertito i rapporti di forza tra capitale e lavoro, hanno contemporaneamente acuito un conflitto con la natura di portata inedita e insuperabile per le sorti della società industriale in espansione. L’incompatibilità con il futuro del Pianeta e chi vi abita e lavora è palese: un sistema alimentato dal consumo di energia fossile e da un deterioramento di natura non ripristinabile in tempi biologici, si trincera dietro la categoria dello sviluppo e ricorre ad un ostinato negazionismo, per negare l’emergenza costituita dall’imminenza di un cambiamento climatico brusco. Un tentativo non solo irresponsabile di mantenere lo “status quo” oltre la sindemia, ma la sottovalutazione di una progressiva inevitabile saldatura tra la specie umana e l’ambiente in nome della sopravvivenza, La cura della biosfera, il diritto alla riproduzione dell’intero vivente non potrebbe che riavvicinare lavoro e natura lungo l’unico asse che restituisca il tempo che verrebbe meno per il mantenimento della salute e della vita sul Pianeta. In questa prospettiva per lui fatale, il capitalismo globalizzato si trova a infierire contemporaneamente sui due fronti in ricomposizione con una pressione micidiale sulle risorse naturali e umane.
Siamo a un passaggio storico sconvolgente e tale da imporre una nuova narrazione, di cui hanno dato e preso coscienza per tempo papa Francesco e, in parte, i movimenti delle donne e le nuove generazioni.
Il ritardo al riguardo del mondo del lavoro, postosi in posizione prevalentemente di difesa, ha dato spazio a una incontrastata corsa alla privatizzazione dei beni comuni e a un inasprimento simultaneo delle condizioni di sfruttamento in ogni parte del mondo, accompagnato da un progressivo deperimento delle risorse della biosfera. Il valore di scambio ha segnato quasi ogni sorta di relazione ed il valore d’uso, nonché il senso peculiare dell’operare e della convivenza umana, si sono visti confinati in ambiti comunitari resistenti, ma accanitamente isolati dalle reti di profitto, dalla competizione del mercato, dalle attività criminali e dall’invadenza delle armi.
Non c’è esagerazione in questa descrizione: i “grandi del mondo”, i vari “G7, 8, 9, e così via” concludono le loro riunioni lasciando irrisolti tutti i punti in agenda, che riguardano le emergenze cui ci troviamo di fronte: clima, guerre, ingiustizia sociale. Esaminerò di seguito alcuni casi eclatanti, per illustrare il disprezzo per il lavoro e la riduzione di natura a scarti con cui viene alimentata una prospettiva ingannevole di massimizzazione dei profitti solo di pochi. Proverò comunque ad estendere la categoria del disprezzo per il lavoro e della predazione della natura anche ad aspetti che non si limitano al campo capitalista, ma che riguardano anche le debolezze e le revisioni in corso nel campo della sinistra lavorista o di parte dello stesso associazionismo e delle esperienze ad ispirazione “social-popolare” che vanno ad affollare il centro di uno schieramento che si arroga funzioni di governo in nome del compromesso.
Perché e dove si fa più acuto l’attacco al lavoro?
Le fasi più acute delle lotte del lavoro si sono manifestate all’interno di quelle sequenze (macchine, tecnologie e organizzazione) del processo produttivo ritenute strategiche dalla proprietà dei mezzi di produzione: fattori di aumenti di produttività creati grazie all’applicazione dell’innovazione tecnologica ma, spesso, divenuti colli di bottiglia quando del loro funzionamento se ne impadronivano in autonomia le lavoratrici o i lavoratori addetti. È successo per il fordismo nel caso della catena di montaggio, per il toyotismo nel caso dei controlli degli stock e della qualità, per la fabbrica diffusa nel caso dell’assicurarsi la continuità degli approvvigionamenti esterni al “core” della produzione finale. Non deve sorprendere come questi “passaggi chiave” della catena produttiva siano stati contemporaneamente sedi di intensi conflitti da parte dei salariati e di improvvisi mutamenti tecnici e organizzativi da parte dei padroni. La componente dovuta al progresso scientifico e della tecnologia è andata di pari passo con la comparsa e l’obsolescenza di questi autentici nodi delle linee di produzione e dei servizi. Non deve allora stupire se nel passaggio dai sistemi meccanici (fordismo e toyotismo in particolare) a quelli elettronici e digitali che hanno favorito la ridistribuzione spaziale della fabbrica a rete sui territori dell’intero pianeta, sia divenuto un punto cruciale il nodo della logistica: cioè, l’organizzazione del percorso materiale dei componenti e delle merci lungo le tracce disegnate dall’ottimizzazione della rete dai programmi al computer risiedenti nell’azienda madre. I tempi e i ritmi sono usciti dalla fabbrica e sono stati assegnati all’efficienza dei magazzini e dei trasporti, spesso con una tale innaturalità e una pretesa di velocità che, ovviamente, nei circuiti elettronici di controllo è milioni di volte maggiore di quella dei neuroni dei magazzinieri e degli autisti o della rapidità di spostamento dei mezzi meccanici o delle appendici corporee.
In effetti, il “circolo virtuoso” del fordismo consisteva nella capacità dei lavoratori organizzati di contrattare salari e stato sociale per un livello di soddisfazione dei loro bisogni primari così da assicurare al consumo individuale residuo ed al risparmio una funzione anche socialmente condivisibile. Si pensi negli anni Sessanta e Settanta alle politiche per la casa e per le attività ricreative, alle cooperative di consumo, alla diffusione in tutte le dimore dell’accesso all’elettricità, alle politiche tariffarie per i trasporti collettivi. A quel tempo erano i lavoratori organizzati nei loro sindacati a difendere un modello di consumo non orientato solo dal mercato e a riunificare le lotte salariali con quelle di difesa del potere di acquisto, mentre la diffusione dei beni manteneva un suo legame territoriale con il lavoro ed i prodotti del lavoro salariato venivano fruiti, anche da un punto di vista geografico, negli stessi luoghi su cui si ammodernavano le fabbriche, aumentavano i profitti, si espandeva l’innovazione, ma cresceva anche il tenore di vita. Insomma, tra lavoro e consumo correva un filo sottile che faceva da base progettuale per un rapporto da stringere tra riduzione progressiva del tempo di lavoro ed autonoma riappropriazione del tempo di vita.
La globalizzazione estrema ha portato non solo a delocalizzare il lavoro, ma, nell’irriconoscibilità del comando della politica delle imprese globali, al livellamento al ribasso dei diritti dell’intero mondo del lavoro.
Il ritorno all’indietro è drammaticamente spietato. La logistica si sta rivelando ogni giorno di più come il vero cuore nero del capitalismo italiano. Il punto di snodo delle linee strategiche del modello produttivo dominato dalle grandi piattaforme, quello dove con maggiore intensità si scaricano i processi di accelerazione in corso e, di conseguenza, si esasperano i livelli dello sfruttamento e le tensioni nel rapporto capitale-lavoro.
Il 18 giugno 2021, nella giornata di mobilitazione generale della logistica proclamata dai sindacati di base, un sindacalista viene ucciso da un camionista che forza il picchetto. La settimana prima a Lodi, sempre nel settore della logistica, operai in lotta contro i licenziamenti e per rivendicare condizioni salariale e normative migliori, vengono aggrediti sotto gli occhi delle forze dell’ordine che nulla hanno fatto per fermare gli aggressori.
Nel primo quadrimestre del 2021 i morti sul lavoro sono 306, erano 280 nello stesso periodo 2020. Dati sottostimati perché non tengono conto dei lavoratori in nero e delle decine di migliaia di morti per malattie professionali e ambientali.
Repressione e violenza contro i lavoratori in oltraggio alla carta costituzionale che nel conflitto capitale-lavoro, si schiera dalla parte più debole, il lavoratore, da tutelare e rafforzare, nella prospettiva di una eguaglianza effettiva.
È indubbio che si sia ormai diffusa una certa assuefazione all’ideologia neoliberale e alle sue narrazioni, ma se vogliamo che il lavoro ritorni a essere strumento di dignità ed emancipazione sociale dobbiamo pensare a modelli e strumenti da mettere in campo per ridare forza a un’azione collettiva, impegnarci nella costruzione di un fronte unico del lavoro che sia capace di includere tutti i lavoratori.
Non basta parlare di “lavoro” ma occorre pretendere un lavoro dignitoso, giustamente retribuito, sicuro dalla piaga degli “incidenti” e ora anche dalle aggressioni che ci riportano ai primi decenni del XX secolo. La morte atroce di Adil Belakhdim davanti ai cancelli della Lidl di Biandrate ne è una terribile conferma. Riproduce il profilo della più classica conflittualità sindacale in tempi d’imbarbarimento dell’agire padronale, quando si arriva a toccare la nuda vita, e a toglierla, in un contesto nel quale la logica del profitto mostra di non rispettare più nulla, né leggi dello Stato (di uno Stato che ha abdicato alla propria sia pur formale imparzialità) né della decenza.
All’origine di tutto l’iniziativa della FedEx TNT, gigante della trasportistica globale – circa 400.000 collaboratori, 160.000 veicoli, 657 aerei, 22,4 miliardi di dollari di fatturato – grande beneficiata dalla pandemia, che fin da febbraio ha deciso di chiudere il proprio hub piacentino, lasciando a casa centinaia di lavoratori e distribuendo le proprie sedi logistiche nei capannoni lodigiani e milanesi, dove appunto i licenziati hanno inseguito il proprio lavoro disperso e sono stati accolti a sprangate. È un anticipo di come questi padroni intendono la “ripartenza” e interpretano la fine del blocco dei licenziamenti.
Forse, però, sta nascendo su vari fronti una opposizione al il disprezzo del lavoro. Ne indico due.
Consumo consapevole e cura della terra
Forse ci si dimentica che la scissione tra persona e lavoro è stata un’opera immane perseguita con disinvoltura dalla ricerca del profitto nella società industriale. Scissione a cui si è opposto tenacemente in tutto il mondo il movimento operaio e rispetto alla quale hanno perfino riadattato i propri valori culture e religioni, sorprese e spiazzate dal travolgente economicismo della crescita novecentesca.
Un Cipputi frastornato sta ora scoprendo che dietro i propri consumi e il proprio tenore di vita ci sono persone in altre parti del mondo alla ricerca degli stessi suoi diritti perduti, costretti spesso a emigrare, toccati dalla tragedia delle guerre e che stanno tutti dalla sua stessa parte, per rimettere al centro della società la dignità del lavoro, assieme alla giustizia sociale, al rispetto della natura, alla lotta alla povertà.
Finalmente, consumo consapevole, valorizzazione della natura, tutela dell’ambiente, diritto al lavoro e diritti del lavoro cominciano a ricomporsi addirittura in scala mondiale e ad apparire un tutt’uno da riconquistare, come era parso evidente ai più illuminati e purtroppo perdenti interpreti delle lotte operaie del primo Novecento.
Eppure, provenivamo nei primi anni 2000 da una straordinaria stagione europea - e non solo – in cui milioni di persone nelle piazze, nelle assemblee, con scioperi e forum partecipatissimi, hanno sollevato speranze di cambiamento riscoprendo la persona, la cultura della pace ed i diritti sociali in contrasto con i dogmi della globalizzazione liberista. Ma presto – e Genova ne era stata la spia - si era venuta a creare una convergenza tra associazioni padronali e governo disposta ad infrangere lo stesso tessuto costituzionale e diretta contro due cardini quali l’articolo 11 della Carta e l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Su un altro versante – non più solo quello del filo rosso del consumo, lo stesso rapporto tra lavoro e vita è tutt’altro che sulla via della riconciliazione.
Il lavoro – così come il non lavoro – si colloca in una dimensione spazio temporale continua con quella dell’esistenza. E in uno sconvolgimento dei parametri spaziali e temporali imposti dalle nuove tecnologie, dalla riorganizzazione su scala mondiale della produzione, potrebbe cambiare tutto della nostra quotidianità e della nostra esperienza e rimanere pressoché immutata la “cifra” delle relazioni sociali connaturata al lavoro? Non credo. Ci si è a lungo illusi che si potesse trattare l’occupazione come un portato oggettivo del processo produttivo e che il suo valore sociale si potesse ricondurre a un problema meramente economico. Ora si è visto che in questa visione c’era un errore di prospettiva; non a caso l’acutizzarsi di un conflitto esplicito, evidente, attorno al diritto al lavoro e ai diritti del lavoro rende modernissima e attuale (e obbligatoria/necessaria) la ripresa di un ragionamento che la politica si è illusa di poter trascurare. Nessuno sviluppo su scala locale o planetaria è durevole senza la rivisitazione dell’antico problema della “liberazione del lavoro”. La produzione di ricchezza, la sua distribuzione, il fermento della natura entrano in contraddizione con le diverse condizioni cui sottostanno donne ed uomini impegnati contemporaneamente a vivere, oziare, produrre e servire secondo regole economiche e sociali disciplinate da rapporti di forza, che passano inevitabilmente anche dall’essere dipendenti da condizioni e diritti specifici quando si è al lavoro.
Nel lavoro che c’è, che manca, che cambia, a Varese come a Melfi o a Dakkar o a Manaus, si riflettono e rifrangono economia, politica, etica, conoscenza, psicologia, benessere e povertà nel senso più profondo. E, di conseguenza, l ‘alienazione o lo sfruttamento sono ancora oggi un problema primario di civiltà, non più soltanto in un senso astratto legato alla permanenza delle classi, ma in riferimento a come chi governa il mondo si è arrogato la pretesa di farne un perfetto manufatto al fine di trasformarlo in valore di scambio a uso della specie dominante in uno spazio ed in un tempo illimitati. Forse ci troviamo di fronte a un passaggio importante nella storia del lavoro, che punta in dimensione globale a riconnettere tra di loro fatica e creatività, responsabilità e diritti, salario ed autostima, prestazione e senso di essa. Una fase nuova del conflitto in cui soggettività, maturità civile, coscienza sociale tendono a relazionarsi, anziché divaricarsi.
Qui viene in soccorso un’alleanza sempre più stringente con la natura, la cura, la giustizia: su questa sfondo l’intreccio tra innovazione tecnologica e crisi climatica costituisce un nodo e una sintesi che non possono essere oggetto di una competizione globale – come è parso nella vicenda dei vaccini – dato che la posta in gioco è il controllo sulla riproduzione della vita a livello globale. Chi, se non il lavoro liberato, può riconsegnarci un territorio che sia socialmente e ambientalmente ‘abitabile’, di diritti universali e da cui non si debba prima o poi migrare?
La vicenda della pandemia da Sars-Cov-2 , l’assenza di un agire strategico che impattasse lo sviluppo del contagio a livello globale per evitare il ritorno di nuove varianti nelle regioni già vaccinate è la dimostrazione più lampante dell’incapacità di agire globalmente, di realizzare strategie di sopravvivenza che riguardino l’insieme del genere umano.
Un ruolo importante potrebbe essere assunto dall’Unione Europea: l’impressione è tuttavia che essa sia un vaso di coccio tra vasi di ferro, senza distinguersi con una logica alternativa per un diverso modello di sviluppo; mantenendosi coerente con il modello globale e la competizione dei mercati del lavoro che ne minano l’unità. Mi preme evidenziare come la comunità scientifica, ormai da oltre sessant’anni, offre un’interpretazione drammatica dell’incompatibilità tra l’assetto politico-economico-sociale – di cui la condizione del lavoro è parte essenziale – e le residue possibilità di resilienza del pianeta in cui viviamo. Il quadro da essa fornito con rigore rivela come la maggior parte dei conflitti locali coincidano con la ribellione di soggetti deboli, maggiormente esposti a danni, soprusi, emarginazioni e violazioni: tra essi le lavoratrici e i lavoratori occupano sempre posizioni di rilievo. In un certo senso la scienza accredita un legame tra eventi naturali disastrosi, peggioramento delle condizioni di vita, abbandono di territori, ingiustizia sociale. Ma la politica sembra non curarsene affatto.
La sopravvivenza si è, evidentemente, fatta questione di classe a livello globale, ma la sinistra non se ne è fatta ancora pienamente una ragione, anche se condivide che per ragioni antropiche si prospetta una brusca e irreversibile rottura dell’equilibrio per cui la vita si è mantenuta per milioni di anni sulla Terra.
Tornando al lavoro, l’eccesso della sua capacità trasformativa delle risorse naturali va a profitto di pochi, mentre, al contrario, il modello di relazioni, produzioni e consumi che coinvolge miliardi di persone non è a sufficienza destinato a “curare” il pianeta né a estendere un apparato di diritti civili e sociali universali. In questa constatazione c’è già l’essenza di un programma politico alternativo.
Crisi e senso de lavoro
Siamo di fronte all’attraversamento di due crisi che sono le facce di una stessa medaglia: la crisi del capitalismo (e con esso, in parte, anche del lavoro) e la crisi ambientale, unite in un indistricabile groviglio, provocato da effetti concomitanti. Effetti provocati da forze e meccanismi che sono frutto della struttura stessa della nostra vita e del nostro consumo, del modo in cui produciamo e lavoriamo, degli squilibri ambientali prodotti, delle ingiuste distribuzioni della ricchezza accumulata, della logica distorta di uno sviluppo che è arrivato a modificare le linee evolutive della vita con cui il pianeta interviene sui codici genetici dei vivi. Su tale groviglio ha davvero molto da apprendere, ma anche da proporre autonomamente e lottare il movimento sindacale. La sua percezione delle problematiche che riguardano la natura non gli è infatti pervenuta solo attraverso un’informazione ed una conoscenza spesso non adeguate, ma attraverso anche la constatazione diretta che la riduzione dei costi nelle imprese avveniva non solo agendo sui salari ed i diritti, ma anche al prezzo del disboscamento del bacino amazzonico, l’uso eccessivo di idrocarburi, lo sfruttamento della manodopera a basso costo, l’impiego di lavoro minorile dalle tessiture alle miniere, gli orari spaventosi nella logistica e gli “omicidi bianchi”. Così, nella testa di operai, contadini e operatori dei servizi, lavoro e ambiente hanno cominciato a dissociarsi, autonomizzarsi dall’impresa, fino a cominciare a ipotizzare un nuovo modo di organizzare la soddisfazione dei bisogni non esclusivamente umani, per rendere questo requisito compatibile con i cicli della vita sulla Terra e la giustizia sociale.
Nel frattempo, i grandi della Terra e i loro consiglieri cercano di convincere che il tempo proprio, riscoperto, pur a fatica, durante la fermata del Covid-19, come una risorsa “rubata”, rimarrà un lusso per privilegiati, in quanto la cifra del capitalismo globalizzato risiederà sempre nella totale saturazione e alienazione del tempo di lavoro e di consumo. Si tornerà, dicono, ad abbandonare per strada sia i diritti sociali sia quelli della natura, all’inseguimento del PIL. Senza tener in conto che tra quest’ultimo e il clima c’è lo stesso rapporto che esiste tra predatore e preda e che, senza l’obbiettivo di una piena occupazione ad orario ridotto, finalizzata alla cura dell’intero vivente, la crisi non allontanerà certo nel tempo le tre grandi emergenze di questo secolo; quella climatica, quella dell’innesco di una guerra nucleare, quella di una crescente ingiustizia sociale.
Proviamo allora a individuare un quadro coerente entro cui collocare con certezza e beneficio le cose dalle quali prendere le distanze quando il lockdown dovuto alla pandemia dovesse cessare. E’ possibile superare il concetto di occupazione fine a se stessa, a cui corrisponde quella realtà corposa e ambivalente che è il lavoro? Cioè la pretesa di attribuire un valore al lavoro indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge e dai risultati che produce su società e natura. Una società percorsa da ineguaglianza sociale, eppure condannata ad un conflitto difensivo e alla fine svantaggioso pur di salvare posti di lavoro ed una natura degradata e consumata da un eccesso di capacità trasformativa messa all’opera per il profitto di pochi.
Io penso però che il lavoro non abbia solo una dimensione costrittiva, ma, anche a fronte della presa di coscienza dell’estensione del carattere precario e povero del lavoro, relegato a una sorta di condanna, il suo valore emancipatorio, celebrato anche in Costituzione, non venga soffocato dal ricatto della sua arbitraria degradazione da parte del padrone. Continuo a pensare che l’aspetto collettivo dell’emancipazione nel lavoro sia propedeutico all’esercizio di un potere per la riconversione ecologica delle produzioni, ormai insostenibili e pregiudizievoli non solo della salute, ma della vita stessa e della riproduzione. Nella mia esperienza sindacale, liberarsi dalla oppressione del comando gerarchico e dall’idea di flessibilità come dalla precarizzazione e dalla discriminazione tra chi sa e chi è escluso da qualsiasi controllo, ha sempre costituito la premessa per progetti di cambiamento quando essi diventavano maturi e agibili, pur nella loro parzialità. La costruzione di un sistema formativo e informativo in grado di promuovere e accompagnare il mutamento del lavoro da dipendenza e oppressione ad un grado più elevato di autodeterminazione e di modifica dell’organizzazione e del tempo di lavoro, dava a volte frutti insperabili anche sul versante di un ri-orientamento delle finalità del lavoro. È vero che l’aspetto ineliminabile del potenziale emancipatorio della resistenza allo sfruttamento non era allora in grado ancora di porre all’ordine del giorno la minima connessione tra il posto di lavoro in catena e gli effetti di quella produzione e del consumo di quei prodotti sulla salute del pianeta: eppure credo che oggi l’intreccio di nuove culture ormai calate a livello popolare rendano possibile l’entrata in campo dell’ecologia integrale.
Anche se niente è ormai più anonimo ed eterodiretto del cosiddetto lavoro “di piattaforma”, programmato da un algoritmo, è anche vero che ad oggi la resistenza allo sfruttamento ha un significato che va oltre alla tutela della persona o alla rigenerazione dell’ambiente e della salute individuale per collocarsi immediatamente nel solco di una conversione profonda del proprio operare, nel nome prevalente della cura.
Anche se per il capitalismo globalizzato è parso giungere il momento per rendere ancora più aspro il conflitto con la crescente massa dei salariati e più pressante l’alienazione degli ultimi, sia nei confronti del lavoro sia verso la natura, nelle strette di un cambio di passo con la pretesa di una resa dei conti, si è fatta strada un’interpretazione del futuro prossimo del tutto compatibile con il pensiero del pontefice argentino.
Le encicliche pontificie
La posta oggi è alta; forse più di quanto lo fosse cinque anni addietro quando fu diffusa la Laudato Si’, perché la pandemia ha accorciato ancor più i tempi. Ed è pertanto in un contesto aggravato che dobbiamo valutare il “rilancio” di Bergoglio attraverso la nuova enciclica “Fratelli Tutti”. Fortunatamente, Landini, i metalmeccanici e il sindacato stanno ribattendo senza arretramenti all’offensiva di Confindustria in una partita apertissima, il cui esito sarebbe ancora più incerto se terreni di scontro tra loro disconnessi si frazionassero ulteriormente. Non arriverei certo qui a sostenere che ci debba essere un nesso tra due versanti – i contratti sindacali e la predicazione del Papa – ovviamente autonomi e indipendenti. Ma come non riconoscere che il mondo cui si rivolge Francesco abbia necessità di poter contare anche sulla riconversione della produzione verso valori d’uso condivisi e sulla dignità del lavoro, affinché si possa aver cura della Terra, del clima e della giustizia sociale? Basta leggere – e rileggere, se occorre – il testo firmato il 3 di Ottobre del 2020 nella Basilisca di Assisi. Il Papa riprende sul terreno esplicito dove si sarebbe dovuta collocare la politica – cosa che quest’ultima non ha fatto – l’intero discorso del cambiamento strutturale antropologico, economico, finanziario e sociale auspicato, ma platealmente eluso. Ovviamente non si ripete, ma articola su altri temi e terreni la stessa provocazione di un cambio d’era evocata un lustro prima. Una boccata d’aria per credenti, non credenti, movimenti popolari, democrazie, forze sociali, forze politiche impegnate in cantieri spesso smarriti: un messaggio ed una alleanza da non lasciarsi sfuggire, anche se risulterà complesso comporre il quadro entro cui superare e sconfiggere l’involuzione nazionalista, populista e xenofoba, che comprime gli scarti e le povertà che dilagano nella società mondiale.
Parlo di alleanza da costruire perché abbiamo a che fare più con una pietra angolare che non con un edificio già strutturato. La diagnosi papale dei mali del mondo è oggettiva ed esplicita, ma la “pars construens”, anche quando luminosa e circostanziata, resta debole. Manca un anello: non è un limite di pensiero o di intenti, è un guasto – forse irreparabile – nell’ordine delle cose: la fraternità e l’amore universale non hanno ancora la forza che ha animato i movimenti politici in nome della libertà e dell’uguaglianza. A meno che, con il capovolgimento che nella Lettera viene concepito come una nuova gerarchia nella triade libertà-uguaglianza-fraternità si riscopra un primato di sorellanza e fratellanza tra gli individui ed un rapporto nuovo tra loro e la natura mediato dal lavoro: un lavoro che, avrebbero detto Marx ed Engels di metà Ottocento , “produce l’accrescimento della natura umanizzata senza provocare la scomparsa della primordiale natura amica”, ovvero, un lavoro che si autolimita a creare valore d’uso in un mondo in cui la sufficienza soppianta l’efficienza e il profitto cessa di essere identificato col fare impresa.
Dopo le sconfitte, rimangono due certezze: rivalutare la memoria come fonte di valori inalienabili e dare titolo di rappresentanza al fondo del barile dell’ingiustizia sociale e ambientale. Non sorprende allora se si dichiara senza mezzi termini che “Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati”, con un attacco frontale al principio su cui si regge un sistema capitalistico sempre più raffinato e corroborato dalla tecnocrazia. E non ci si stupisce nemmeno quando viene ribadita “la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”, riprendendo così, all’interno delle contraddizioni laceranti tra sistema d’impresa, società e natura, il contestatissimo art. 41 di una Costituzione di democrazia sociale come quella della nostra Repubblica. Tanto meno meraviglia il ricorso a una “consapevole coltivazione della fraternità”, come antidoto alla restrizione della libertà quando questa appaga solo per possedere o godere e come inveramento di una uguaglianza, che, se è definita solo in astratto, viene in realtà minata dall’individualismo competitivo.
Pochi mettono in risalto un ragionamento sul lavoro che ritengo centrale e che nella prima enciclica era solo un po’ sbiadito di fronte alla preoccupazione per lo scempio della natura. Qui invece c’è un crescendo di carico sul senso del lavoro, come agente unitario, solidale, fraterno, alla fin fine globale, dopo aver constatato che, all’opposto, “il senso sociale è stato fatto proprio dall’economia e dalla finanza con una cultura che unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni”.
Si parte dall’auspicio che “i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri, crescano dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino”. Poi si passa alla denuncia dell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà. Ma, alla fine, ecco comparire anche quell’organizzazione, quella disciplina e quella socializzazione del tempo, delle attività e delle vite di masse (e che altro sono se non i lavori, le opere, le arti, i mestieri, le attività in cui viene organizzata la società umana?) che, dopo la vittoria della rivoluzione industriale e dei modi di produzione capitalistici, tra il diciottesimo, il diciannovesimo e il ventesimo secolo, hanno smembrato intere comunità con la divisione del lavoro, la meccanizzazione, l’automazione, la digitalizzazione. la globalizzazione del commercio, fino alla trasformazione delle merci in mezzi di comunicazione attraverso il loro consumo. Ritengo che qui il papa – a contatto ormai giornaliero col resto del mondo intero - abbia rifatto i conti con una visione più generale e complessa della organizzazione della produzione e del consumo, che dall’esperienza argentina non aveva ancora potuto derivare appieno quando scrisse la Laudato sì.
Ne viene un’attenzione ineliminabile per l’obiettivo della piena occupazione (o, addirittura, il timore che la tecnologia porti a una nuova forma di alienazione come nel caso di una inoccupazione strutturale dovuta all’incorporazione dell’uomo nel macchinario o rete intelligente che sia) e per l’universalità dei diritti del lavoro al fine di assicurarne la funzione come atto creativo e non distruttore della natura. Va annotato come trattare di “piena occupazione” possa rimanere un espediente finché non si capiscono i meccanismi e i poteri che regolano la distribuzione del lavoro. C’è materia di cui discutere più in concreto, così come del limite dello stesso valore sociale del lavoro, che, in quanto capacità trasformativa resa eccessiva dalla massimizzazione del profitto (ridurre l’orario!), finisce col nuocere sia alla realizzazione della donna e dell’uomo sia alla sopravvivenza della biosfera.
E la sinistra sociale?
Altri nelle pagine di questo numero prenderanno in considerazione estesamente il lavoro negletto e i rovesci che si stanno abbattendo sull’occupazione. Io aggiungo solo poche annotazioni per non dare solo la colpa ai nemici più dichiarati.
Molta della sinistra moderna non ama la classe operaia, essendone diventata anche inconsapevolmente in disaccordo con la cultura e i valori.
La disconnessione è stata inevitabile da quando l’establishment politico di sinistra ha ingoiato una miscela velenosa di liberalismo economico e sociale. Sono arrivati a disprezzare i valori tradizionali della classe operaia ed hanno invece abbracciato la globalizzazione, il rapido cambiamento demografico e una politica identitaria tossica e divisiva. Credo che la sinistra possa rinascere solo se parla ancora una volta delle priorità dei salariati, combinando l’economia socialista con la politica culturale di appartenenza, luogo, comunità e perfino fede, quando è schietta e non manipolata.
Per il tempo trascorso al sindacato, ricordo che gli elettori elettori perduti della classe operaia, hanno una storia anche di conservatorismo sociale e culturale che si identificava in una comunità. Un “conservatorismo” che rende possibile la solidarietà, poiché il futuro della sinistra è una politica di persone, luoghi e appartenenze radicate nella solidarietà sociale. mentre la combinazione di iper-globalizzazione e politica dell’identità ha capovolto la politica della classe operaia, una società post-liberale radicata nella relazionalità, nella solidarietà e nel bene comune. Molti dei rappresentanti politici della sinistra e del centro sinistra ed anche alcune delle figure rappresentative dell’associazionismo e dei movimenti sociali, almeno per i media, vivono vite completamente diverse e hanno interessi e priorità contrastanti rispetto a milioni di persone della classe operaia che vivono nelle parti più svantaggiate dei nostri territori.
Dove le persone si prendevano cura l’una dell’altra e c’era una solidarietà sociale tangibile. La globalizzazione, l’immigrazione di massa e la libertà di movimento ne aveva fatto una minoranza e chiunque avesse osato esprimere dubbi su questo sarebbe stato probabilmente etichettato come razzista, senza rendersi conto che l’integrazione è anch’essa un atto di solidarietà, tanto più valido quanto meno scontato.
Quando il pieno impatto del nuovo mercato globale ha cominciato a prendere piede e le loro vite e la loro comunità sono state soggette a rapidi cambiamenti economici e demografici senza precedenti, le loro espressioni di ansia e malcontento sono cadute nel vuoto mentre la coesione sui luoghi di lavoro stentava a reggere l’urto. La realtà è che gran parte delle lavoratrici e dei lavoratori, in assenza di formazione e di un sindacato che sta in mezzo a loro e oberati da orari esorbitanti e da straordinari non si considerava semplicemente come una sorta di esercito di scena in una guerra contro il capitalismo. Faremmo bene a riscoprire questa sorta di conservatorismo legato a sentimenti di identità e appartenenza che non vanno regalati alle destre.
La diminuzione del potere dei sindacati in un settore manifatturiero in contrazione, e l’attenta coltivazione di un nuovo individualismo da parte della destra, stavano facendo sembrare la vecchia politica della solidarietà di classe antiquata e poco attraente dal punto di vista elettorale. Nel tentativo di trovare un punto d’appoggio, la sinistra sociale si è mossa soprattutto verso una politica liberale e ambiziosa delle pari opportunità e dei diritti delle minoranze. Il presupposto era che la sua base tradizionale sarebbe seguita, non avendo nessun altro posto dove andare. Ma senza dibattito, democrazia e partecipazione, senza la ricostruzione di un senso del lavoro forte finalizzato alla risoluzione in chiave collettiva delle emergenze in atto risulta difficile ricostruire una tradizione comunitaria sottovalutata e, a volte, diffidata.
Se si criticano gli eccessi destabilizzanti del capitalismo in cerca di profitto non si può, contemporaneamente, non ricostruire quel senso di appartenenza che le lotte – anche le più dure come quelle oggi nella logistica o nel caporalato – riservano all’affermazione di umanità, e quindi, di civiltà che hanno un valore generale e che le ricollega alla resistenza antifascista, al movimento antischiavista, alle plurisecolari lotte per la conquista dei diritti fondamentali per tutti i viventi.