Qualifica Autore: Università del Salento – Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo

Mosaicoline/luglio 2022

Don Tonino Bello è stata una delle figure più carismatiche della Chiesa italiana della seconda metà del Novecento. Sono ben noti i suoi contributi propriamente teologici o su temi sociali, meno note le sue riflessioni in ambito propriamente economico. Questa nota, che riprende il mio intervento a un bel convegno organizzato dal Rettorato dell’Università del Salento nel maggio 2018, si propone di ricostruirne gli aspetti essenziali.

Si farà riferimento, in particolare, alle sue riflessioni sull’economia italiana e sul processo di integrazione europeo e sulle diseguaglianze distributive. Quanto segue non ha la pretesa dell’esaustività: intende, più modestamente, invogliare il lettore a un approfondimento del pensiero del vescovo di Molfetta, nella convinzione che esso sia di massima attualità, che abbia connotazioni di massima generalità (sebbene ovviamente risenta del contesto storico nel quale è stato elaborato) e che sia di indirizzo per una riconsiderazione non banale dei controversi rapporti tra etica ed economia.

Oggi la gente digiuna per ottenere un posto, un aumento di salario, un diritto da cui è stato spossessato”. Sembrano parole pronunciate oggi, a dieci anni dallo scoppio della crisi: sono, invece, parole di venticinque anni fa, di Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, nativo di Alessano, una delle figure più carismatiche della Chiesa italiana della seconda metà del Novecento, morto il 20 aprile del 1993. Don Tonino, in un periodo dominato dalla diffusa convinzione che la globalizzazione avrebbe prodotto benefici per tutti, vedeva crescere povertà e diseguaglianze. Su scala globale e nel suo Sud.
L’Italia dei primi anni Novanta sperimentò le prime manovre definite all’epoca di “lacrime e sangue” (manovre antesignane di quelle di austerità dei nostri tempi): riduzioni consistenti della spesa pubblica e aumento della tassazione. Ci si poneva l’obiettivo di frenare la crescita del debito pubblico iniziata nel ventennio precedente e con forte accelerazione negli anni Ottanta. Gli effetti macroeconomici furono dirompenti: il debito pubblico non solo non si ridusse, ma, in rapporto al Pil, aumentò; così come aumentò il tasso di disoccupazione. Soprattutto si ridussero i salari reali, con conseguente aumento delle diseguaglianze, e cominciò il rilevante declino del tasso di crescita della produttività del lavoro. L’economia italiana entrò nella lunga stagione del suo declino. Alle classi agiate del tempo, Don Tonino chiedeva “privatevi del lusso, dello spreco, del superfluo, delle ridondanze dei vostri conti in banca”. Prediche inutili, secondo la felice definizione di Luigi Einaudi, e tuttavia profetiche.
Oggi, a distanza di venticinque anni, la crescita delle diseguaglianze su scala globale è quasi unanimemente considerato IL problema, non solo economico, di questi ultimi anni. Crescono le diseguaglianze di reddito e di patrimonio, crescono i differenziali salariali (si calcola, a riguardo, che la differenza salariale fra un amministratore delegato di una grande impresa e un dipendente della stessa è passata da 20 a 1 nel 1965 a oltre 300 a 1 nel 2017), crescono le divergenze regionali. Le diseguaglianze sono un freno alla crescita per numerose ragioni, ma soprattutto perché, associandosi a compressione dei salari e dunque al calo dei consumi, riducono la domanda, attivando una spirale viziosa di profezie che si auto-verificano. La caduta della domanda peggiora le aspettative degli imprenditori in ordine ai profitti che possono realizzare e dunque posticipano gli investimenti; ciò causa la caduta della domanda che rinforza l’aspettativa iniziale, causando ulteriori riduzioni dell’investimento.
La crescita delle diseguaglianze è innanzitutto e fondamentalmente imputabile alla compressione dei salari: fenomeno che ha riguardato, in una dinamica quarantennale, tutti i Paesi OCSE e che ha riguardato l’Italia in particolare a partire dalla metà degli anni Novanta e con la massima accelerazione, nel confronto internazionale, nel corso degli ultimi due decenni. Queste misure sono funzionali a una modalità di riproduzione basata sul tentativo di accumulare surplus crescenti della bilancia commerciale (ovvero di esportare più di quanto si importa): il c.d. neomercantilismo. La ratio sta nel fatto che la moderazione salariale serve alle imprese per ridurre i prezzi di vendita dei beni prodotti sui mercati esteri e, al tempo stesso, serve a ridurre i consumi di beni prodotti in altri Paesi. E’ palese che questo modello di sviluppo non è sostenibile per tutti, dal momento che occorre che esistano Paesi che importano. E, inoltre, poiché i Paesi esportatori non hanno raggiunto tutti il medesimo stadio di sviluppo capitalistico, il commercio internazionale tende inevitabilmente ad avvantaggiare i Paesi a più alto grado di sviluppo (i c.d early starters) e a danneggiare gli altri (i c.d. late comers).
Sul piano politico, ne deriva un vero e proprio cortocircuito. Che fa riferimento a una dinamica che parte dall’aumento dell’indebitamento pubblico (non solo in Italia, essendo un fenomeno che coinvolge tutti i Paesi OCSE, e che attiene anche all’impiego di risorse pubbliche per i ‘salvataggi bancari’) e che modifica sensibilmente gli obiettivi dei Governo – acquisire ‘credibilità’ nei mercati finanziari – che, a sua volta, condiziona gli indirizzi di politica economica. Dunque: consolidamento fiscale per generare risparmi pubblici e moderazione salariale per accrescere il saldo delle partite correnti. Nel caso italiano, strumenti entrambi totalmente inefficaci ai fini della crescita economica e dell’aumento dell’occupazione.
Se, dunque, l’obiettivo prioritario di un Governo è l’acquisizione di credibilità nei mercati finanziari, e dunque l’assicurazione fornita ai detentori di titoli di Stato che il debito verrà onorato, c’è ben poco spazio per l’attuazione di misure che migliorino il benessere materiale della gran parte dei cittadini. Ciò accade nella massima misura nell’Unione Monetaria Europea, dal momento che i vincoli imposti dai Trattati che ne definiscono l’architettura (Trattato di Maastricht e Fiscal Compact, in particolare) impediscono di fatto l’attuazione di politiche redistributive mediante, in primis, il potenziamento dei servizi di welfare.
Nel 1992, anno di stipula del Trattato di Maastricht, salvo poche voci isolate, la gran parte degli economisti italiani salutava con favore quell’accordo. Anche in questo caso profeticamente, don Tonino Bello ammoniva: “Verranno tempi duri proprio nel momento in cui ci stiamo preparando a vivere l’esperienza nella casa comune della nuova Europa, che a me si presenta anche con tristi presagi perché ha più il sapore di una convivenza economica, di una cassa comune che di una casa comune”. E ancora: “C’è una polarizzazione intorno a una nazione emergente, la Germania; e intorno alla sua moneta, il marco”. E infine: “L’Unione europea sembra svilupparsi non tanto in una convivialità di differenze quanto attorno al marco e probabilmente attorno a grandi nazioni che renderanno la nostra vita standardizzata un po’ sulla loro”. La sua fondamentale intuizione – che in quegli anni (e ancora oggi) sarebbe stata considerata un’eresia economica – è che la competizione fra Stati in un Unione fra Stati può essere distruttiva. E poiché l’Unione Monetaria Europea era (ed è) basata sull’assunto per il quale un’economia di mercato ‘fortemente competitiva’ genera crescita e benessere diffuso, apparivano inevitabili le preoccupazioni del vescovo di Molfetta. Preoccupazioni che oggi sono realtà.

In un intervento televisivo in RAI nel 1991, don Tonino invocava un nuovo modello di sviluppo, chiedendo agli economisti di individuarne gli aspetti tecnici. Si era nella stagione dell’accelerazione del processo di unificazione europeo e il vescovo di Molfetta avvertiva la necessità di una integrazione soprattutto politica, basata su valori condivisi. Anche in questo caso, la sua invocazione risultò profetica. L’Unione – come è noto – fu costruita esclusivamente sulla moneta unica, nella convinzione, rivelatasi fallace, per la quale l’adozione di una moneta comune sarebbe stato il presupposto e la condizione necessaria e sufficiente per l’ordinato funzionamento dell’Unione.
Ovviamente, sarebbe fuori luogo attribuire a Don Tonino una teoria economica del funzionamento di un’Unione monetaria, così come sarebbe fuori luogo attribuirgli una critica articolata sul piano macroeconomico della stessa. Don Tonino era interessato a denunciare l’avidità, l’ossessiva ricerca della gratificazione di breve periodo connessa al possesso e al consumo di beni, alla paura che ne derivava per conseguenza (paura, in primo luogo, di perdere ricchezza). Don Tonino capiva che la ricerca dell’utile – la gratificazione derivante dal consumo di merci e dunque dal rapporto uomo-cosa – avrebbe distolto l’interesse dalla ricerca della felicità – derivante da relazioni intersoggettive non animate da finalità auto-interessate e, dunque, dal rapporto uomo-uomo. Da questa prospettiva antropologica, andava criticando la costruzione europea, in quanto basata sulla moneta e, dunque, anche simbolicamente, su una dimensione esclusivamente economicistica.
Quella di don Tonino è dunque essenzialmente una critica all’edonismo e all’utilitarismo, per come venivano manifestandosi nella forma del consumismo. Il Vescovo di Molfetta intuiva il potenziale distruttivo della crescita delle diseguaglianze e della povertà diffusa, in un clima culturale – va rimarcato - nel quale era convinzione diffusa fra gli economisti che le diseguaglianze producano crescita. Su questo tema soffermeremo ora la nostra attenzione.
I nessi esistenti fra etica ed economia, con riferimento alla crescita delle diseguaglianze e ai loro effetti sullo sviluppo economico, possono essere sinteticamente ordinati in questo modo.
Va innanzitutto rilevato che per lungo tempo, nella Storia del pensiero economico, la dimensione etica dell’agire economico è stata sostanzialmente espunta dal discorso economico. Ciò è essenzialmente da imputare al prevalere, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, dell’approccio neoclassico e della conseguente ridefinizione del campo d’indagine dell’Economia, concepita come scienza che studia i problemi di allocazione di risorse scarse fra usi alternativi dati. Questo approccio richiede di considerare l’agente economico come un individuo che, in assenza di condizionamenti storico-sociali e in un vacuum istituzionale, massimizza una propria funzione-obiettivo (assunte esogene le preferenze), dati i costi monetari e di tempo (la c.d. razionalità strumentale). Di norma, la funzione-obiettivo include argomenti che attengono esclusivamente al proprio interesse, sebbene occorra chiarire che, sul piano strettamente logico, non si può dedurre che l’assioma della razionalità strumentale sia incompatibile con qualche forma di comportamento pro-sociale o altruistico.
Nei tempi più recenti, maggiore attenzione, anche da parte di economisti di orientamento neoclassico, è stata data alle motivazioni etiche dell’agire economico, con particolare riferimento allo studio dei meccanismi che sono a fondamento della genesi e della propagazione delle norme morali.
Schematicamente, nell’ambito dell’etica economica descrittiva, si confrontano, a riguardo, due principali orientamenti contrapposti.
(i) L’orientamento neoclassico-liberista. Nella tradizione liberista, in una linea di ricerca che, idealmente, va da Mandeville ad Hayek e a Rand è semmai l’egoismo a essere considerato una virtù, dal momento che è solo il perseguimento dell’interesse individuale che consente di raggiungere il massimo benessere sociale (cfr. Rand, 1964). Una variante di questa tesi la si ritrova nell’opera dell’economista italiano Maffeo Pantaleoni, secondo il quale:
La asserita nobiltà di questi sentimenti [altruistici], rispetto a quello che consiste nel sentire il proprio interesse, è forse anch’essa un fenomeno economico consistente in questo: che coloro che sono mossi ognora da cotali sentimenti sono pochissimi, là dove la ricerca di gente che abbia moventi altruistici è appunto quasi universale, ossia, in linguaggio economico, è assai limitata la quantità di servizi offerti gratuitamente, mentre è universale, o massima possibile, la domanda di servizi ad un prezzo che è zero […]. Se questa spiegazione fosse esatta, la maggiore nobiltà stessa di questi sentimenti, rispetto a quelli egoistici, sparirebbe il giorno in cui fossero universali, e diventerebbe il più nobile di tutti i sentimenti precisamente quello egoistico. E siccome la ragione per volerli vedere sostituiti all’egoismo sta appunto nella loro maggiore nobiltà, questa ragione verrebbe completamente meno precisamente il giorno in cui avesse portato i propri frutti; e sarebbe già andata diventando meno vigorosa a misura che a questo risultato gradatamente si stesse giungendo” (Pantaleoni, 1963 [1900], pp.141-142, n.1).
Si sta qui affermando il principio in base al quale la ‘nobiltà’ dei fini - e, dunque, la loro moralità - è un puro fatto statistico, ovvero è segnalata dalla devianza rispetto alla norma (è morale ciò che è eccezionale): l’altruismo è ritenuto un atteggiamento moralmente accettabile solo in quanto è meno diffuso rispetto all’egoismo e, per converso, l’egoismo è ritenuto moralmente censurabile solo in quanto più diffuso dell’altruismo. Una linea di ricerca più recente, nell’ambito di questo orientamento, estende l’approccio tradizionale, rilevando che anche i comportamenti pro-sociali, altruisti, finalizzati alla condivisione, possono essere razionalizzati all’interno della cornice metodologica dell’individualismo e dell’utilitarismo. Tecnicamente, ciò si realizza includendo nella funzione di utilità del singolo agente anche l’utilità di altri individui con i quali egli si relaziona. In tal senso, è razionale essere morali. Sul piano macroeconomico, si teorizza che la propensione al rispetto dei codici etici è funzione del tasso di crescita del Pil, secondo la seguente sequenza causale. Al crescere del Pil pro-capite, assunta valida la c.d. piramide di Maslow, gli individui tendono a soddisfare innanzitutto i loro bisogni primari per poi soddisfare bisogni lato sensu relazionali, incluso il ‘bisogno di solidarietà’. In tal senso, si stabilisce che la crescita economica è anche crescita morale (cfr. nota 1 al termine dell’articolo). A ciò si aggiunge che, per effetto dell’aumento del reddito medio, e della conseguente diffusione dei ‘bisogni di solidarietà’, aumenta la domanda di fairness che i consumatori esprimono nei confronti delle imprese. In un contesto nel quale vige la ‘sovranità del consumatore’, sono in ultima analisi le scelte dei consumatori a orientare la scala e la composizione merceologica della produzione, che, per l’operare di effetti di reputazione, incentiva le imprese a riorientare l’offerta verso beni con maggior contenuto di ‘eticità’. In tal senso, si può affermare che – in questo contesto teorico – è razionale essere morali (cfr. Blank and McGurn, 2005). Più in generale, in questo ambito teorico, si rileva che la distribuzione del reddito, in un’economia di mercato deregolamentata, riflette il contributo individuale alla produzione, così che, in una condizione di equilibrio, il salario reale unitario eguaglia la produttività marginale del lavoro. Questa condizione, oltre che costituire una condizione di efficienza, può essere anche considerata come una condizione di equità, nella specifica accezione dell’etica produttivistica – ovvero di una visione etica per la quale è giusto che ciascuno si appropri di quella parte del prodotto sociale che ha contribuito a generare (cfr. Forges Davanzati, 2006).
(ii) L’orientamento istituzionalista. Viene qui rilevato che, per contro, il rispetto dei codici etici dipende essenzialmente dalla distribuzione del reddito e la sua diffusione è correlata all’intensità del conflitto sociale, secondo un approccio definito outside-the-market per indicare che le norme morali non possono essere spontaneamente generate dal mercato e risentono del potere contrattuale dei capitalisti e dei lavoratori nella sfera politica (Korpi, 2006) (cfr nota 2 a piè di pagina). L’eticità, in tal senso, riflette i rapporti di produzione. Il potere contrattuale di capitalisti e lavoratori nella sfera politica, a sua volta, discende dal potere contrattuale che le controparti hanno, in particolare, nel mercato del lavoro, così che una condizione di bassi salari ed elevata disoccupazione tende a tradursi in scelte di politica economica che redistribuiscono risorse a danno dei lavoratori. Si argomenta, in particolare, che – contro l’assioma della razionalità strumentale – i codici etici funzionali alla riproduzione capitalistica vengono istituzionalizzati attraverso abitudini e consuetudini, in un processo che conduce, nel tempo, alla loro interiorizzazione (Veblen, 1919). E le condizioni di riproduzione del capitale soggiacciono al conflitto di obiettivi fra politiche per l’accumulazione e politiche per la legittimazione del sistema (O’Connor, 2002 [1976]) (cfr nota 3 a piè di pagina).
La riflessione sul tema di don Tonino Bello è, ancora una volta, di notevole originalità. Don Tonino fa rilevare un effetto perverso della crescita delle diseguaglianze al quale la teoria economica arriverà solo in tempi relativamente recenti, con la c.d. economics of happiness. L’intuizione fa riferimento al nesso fra diseguaglianze e paura: possedere grandi ricchezze non rende felici, in molti casi rende infelici (come mostrato dalla contemporanea economia comportamentale e dal c.d. paradosso della felicità) dal momento che accresce la paura di perderle. Ma, in un meccanismo perverso di ostentazione dei consumi, i possessori di grandi ricchezze sono indotti a competere fra loro; e la competizione sui consumi vistosi rende i partecipanti al gioco sempre più ossessionati dalla ricerca della ricchezza, sempre più impegnati nel lavoro, sempre meno nelle relazioni interpersonali, sempre più timorosi di perdere le ricchezze accumulate, per conseguenza sempre meno felici.

Considerazioni conclusive
In questa nota, si è proposta una ricostruzione del pensiero economico di Don Tonino Bello. Ci si è soffermati sulla sua visione del declino dell’economia italiana, sulle sue considerazioni relative al processo di unificazione europeo e infine sulle sue preoccupazioni relative alla crescita delle diseguaglianze. Si è rilevato come il vescovo di Molfetta abbia intuito, con straordinaria anticipazione rispetto agli sviluppi teorici e fattuali in economia, alcune tesi (e alcuni accadimenti) riscontrabili solo nei decenni successivi alla sua morte. In tal senso, il suo messaggio è, al tempo stesso, di straordinaria profondità ed eccezionalmente profetico.

Riferimenti bibliografici
Bello, A. (2011). La Chiesa del grembiule. San Paolo Edizioni, a cura di Saverio Gaeta.
Bello, A. (2012). Servi inutili a tempo pieno. San Paolo Edizioni.
Blank, R.B. and McGurn, W. (2004). Is the market moral? A dialogue on religion, economics and justice, Washington D.C.: Brookings Institution Press.
Forges Davanzati, G. (2006). Ethical codes and income distribution: A study of John Bates Clark and Thorstein Veblen. London-New York, Routledge.
Graziani, A. (1989), L’economia italiana dal ’45 a oggi. Bologna: Il Mulino.
Hirschman, A.O. (1970). Exit, voice, and loyalty. Harvard University Press.
Korpi, W. (2006). Power resources and employer-centered approaches in explanations of welfare states and varieties of capitalism, “World Politics”, 58(2): 167–167.
Maslow A. (1954). Motivation and Personality. Harper&Row.
O’ Connor, J. (2002 [1976]). The fiscal crisis of the State. New Jersey: St. Martin’s Press.
Pantaleoni, M. (1963 [1900]), Erotemi di economia politica. Padova: Cedam.
Rajan, R.G. (2010). Fault lines: How hidden fractures still threaten the world economy. Princeton: Princeton University Press.
Rand, A. (1964). The virtue of selfishness: A new concept of egoism. New York: New American Library.
Stiglitz, J.E. (2013). The Price of Inequality: How Today's Divided Society Endangers Our Future, New York, New York Times Best Sellers.
Veblen, T.B. (1919). The vested interests and the state of the industrial arts. B.W.Heubsch: New York.

Web
https://www.youtube.com/watch?v=gXg13wKQBsU

Note
1. La Piramide di Maslow costituisce una scala delle aspirazioni degli individui, in cui i bisogni fondamentali vengono ordinati secondo la priorità della soddisfazione. Ne consegue che i desideri tenderanno a disporsi secondo una gerarchia di dominanza e importanza., in cui l’individuo tenderà prima a soddisfare i bisogni più bassi, per poi passare a quelli che occupano posizioni più alte nella scala stessa. Alla base di questa piramide si dispongono, dunque, tutti i bisogni fisiologici, essenziali per la stessa sopravvivenza dell’uomo, mentre i bisogni collocati più in alto, sono variabili nel tempo e mutano a seconda del percorso individuale. Per approfondire si veda Maslow (1954). La principale critica a questo approccio riguarda il fatto che esso pretende di essere generalizzabile in ogni circostanza di tempo e di spazio. Per contro, studi antropologici mostrano che, in molte comunità nei c.d. Paesi sottosviluppati, la coesione sociale è una precondizione per la produzione (e, dunque, la piramide di Maslow è per così dire ribaltata) dal momento che, per esempio, il rito della festa è funzionale alla creazione di legami di solidarietà che producono maggiore efficienza nell’attività produttiva. Un’ulteriore considerazione critica riguarda la constatazione in base alla quale non sempre e non necessariamente i comportamenti pro-sociali sono più diffusi nelle fasi di crescita: accade spesso che lo siano, per contro, nelle fasi recessive: può costituirne esempio la diffusione della c.d. sharing economy nell’attuale fase di crisi economica. Occorre anche considerare che, affinché un comportamento possa essere moralmente accettabile, è necessario che agli scambi pre-esista un insieme di codici etici condivisi che attesti la congruenza fra tali codici e quelli i comportamenti messi in atto. Ciò a ragione del fatto che il mercato è una costruzione sociale, non un luogo “naturale” (Veblen, 1919).
2. Si può anche osservare che il primo orientamento si fonda evidentemente su una tradizione utilitarista e consequenzialista, mentre il secondo fa riferimento a un ambito attinente alle teorie (etiche) del conflitto (cfr. Wood, 1995). In più, l’approccio inside-the-market parte dal presupposto che le scelte del consumatore orientano le strategie di mercato e dunque inducono quest’ultimo ad adottare codici etici. Il rifiuto del principio della sovranità del consumatore porta ad affermare che l’adozione di codici etici da parte del mercato non può essere il risultato di una domanda di responsabilità sociale da parte dello stesso consumatore e dunque che la creazione di norme morali dovrà dipendere necessariamente da fattori esterni dal mercato e quindi non basati sul principio della scelta razionale (cfr. Forges Davanzati, 2006 e la bibliografia lì citata). E’ anche da notare che, in ambito neoclassico, le diseguaglianze possono costituire un problema se sollecitano risposte di politica economica “populiste”. È il caso, secondo Rajan (2010), delle politiche di agevolazione del credito al consumo per l’acquisto di abitazioni negli Stati Uniti dei primi anni Duemila.
In questo contesto teorico, il conflitto emerge nei casi nei quali il sistema non è in grado di legittimarsi. Per esempio, in un’economia con elevati tassi di disoccupazione e bassi salari (ovvero salari sistematicamente inferiori al livello di sussistenza socialmente e storicamente determinato) ci si attende una bassa attitudine al rispetto dei codici etici, essendo elevata la necessità di acquisire reddito in modo illecito. In altri termini, si può distinguere fra moralità ex-ante (ovvero l’attitudine al rispetto di dati codici etici preliminare alle transazioni sul mercato) e moralità ex-post (ovvero l’effettivo rispetto dei codici etici una volta entrati nel mercato), il che rende possibile il fatto che individui con elevata moralità ex-ante possano essere indotti, perché disoccupati e/o percettori di bassi salari, a commettere atti illeciti o, più in generale a deviare rispetto al set di norme vigenti. In altri termini, la propensione al rispetto delle norme formali, informali e morali dominanti è qui considerata endogena, dipendente essenzialmente dal reddito pro-capite e dal tasso di disoccupazione, le cui variazioni possono generare “effetti di conversione”, stando ai quali la i codici morali sono subordinati alla dimensione economica. Per un approfondimento si rinvia a Forges Davanzati (2006) e alla bibliografia lì citata.
3. In questo contesto teorico, il conflitto emerge nei casi nei quali il sistema non è in grado di legittimarsi.


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