Mosaiconline/luglio 2022

Poiché le guerre hanno origine nella mente
dell’uomo, è nello spirito dell’uomo che si
debbono innalzare le difese della pace.
(Dall’Atto costitutivo dell’UNESCO)

L’Istituto Minotauro – Istituto di analisi dei codici affettivi, fondato nel 1984 da un gruppo di studiosi che faceva riferimento all’Istituto di Psicologia dell’Università Statale di Milano, ha tra i suoi compiti Istituzionali l’educazione alla pace. Nel documento fondativo si legge: “Noi ci assumiamo il compito di proseguire nella ricerca di una prassi operativa che permetta il recupero delle potenze affettive naturali, ai fini di promuovere il cambiamento nei gruppi e nelle istituzioni. Favorire la compresenza armonica di tutti i codici affettivi della famiglia umana (del padre, della madre, del bambino e dei fratelli) nei processi decisionali che guidano il lavoro rappresenta il primo passo necessario di un processo di educazione alla pace.”.

Franco Fornari, (1921-1985), il principale ispiratore dell’Istituto Minotauro, è stato lo psicoanalista che più nel mondo si è occupato delle cause della guerra. Alcuni suoi libri, Psicoanalisi della guerra atomica (1964), Psicoanalisi della guerra (1966), Psicoanalisi della situazione atomica (1970) e La malattia dell’Europa (1981), sono stati editi in più lingue. Egli, inoltre, nel 1970 era diventato direttore dell’ISTIP - Istituto italiano di polemologia e di ricerca sui conflitti e membro del Comitato Mondiale di ricerca sulla pace promosso dalle Nazioni Unite.
Negli anni Ottanta, Fornari aveva messo a punto la “Teoria dei Codici Affettivi”, un modello psicoanalitico per l’analisi delle “culture affettive” e quindi dei valori che inconsciamente guidano gli individui e le istituzioni nelle loro scelte decisionali. Esplorando le dinamiche intrapsichiche tra i diversi codici affettivi, egli era riuscito a evidenziare un modello ideale presente naturalmente in ogni essere umano: la “Democrazia affettiva”, cioè, un orientamento naturale volto a favorire un’integrazione tra le diverse logiche affettive. Egli aveva anche descritto due meccanismi inconsci che ostacolano tale integrazione: l’incapacità individuale e sociale di rappresentare adeguatamente tutti i valori affettivi propri di ogni codice e un meccanismo patologico legato alla fragilità psichica individuale che porta alla radicalizzazione di un codice affettivo a scapito degli altri. Quest’ultimo meccanismo sottrae a ogni codice affettivo la sua carica ideale e lo trasforma da Ideale dell’Io in un Super io rigido e tendenzialmente patologico.
Gustavo Pietropolli Charmet, per molti anni presidente e responsabile scientifico del Minotauro, ha arricchito l’analisi dei fenomeni sociali contemporanei con i suoi numerosi studi sulle problematiche evolutive dell’adolescenza. Gli psicologi del Minotauro, dunque, oggi integrano l’ottica semiotica fornariana (analisi delle culture affettive) con un’ottica evolutiva particolarmente attenta ai cambiamenti sociali capaci di influenzare la cultura affettiva delle nuove generazioni.
Integrando questi due approcci, in quest’articolo cercherò di evidenziare le tappe psicologiche necessarie per costruire una cultura di pace.
In 3500 anni di storia, il processo di civilizzazione ha comportato importanti sviluppi psicologici negli individui e nelle organizzazioni sociali. L’evoluzione storica della maggioranza delle nazioni occidentali oggi offre a chi cresce un modello sociale rassicurante, abbastanza vicino alla matrice interna ideale della democrazia affettiva: forme pubbliche di solidarietà, di assistenza e di sostegno sociale (codice materno), il controllo della violenza da parte dello Stato (codice paterno), la possibilità per tutti i cittadini di eleggere liberamente chi li dovrà comandare (codice fraterno), forme sociali aggregative rivolte allo scambio e alla pacificazione come l’Unione Europea e le Nazioni Unite (codice fraterno e materno insieme). Tutte queste conquiste vanno nella direzione della democrazia affettiva e rappresentano dunque importanti tappe evolutive verso una cultura di pace.
Come hanno già osservato molti studiosi, tuttavia, lo sviluppo psicologico e sociale degli esseri umani è molto più lento rispetto all’evoluzione tecnologica della società. I danni prodotti all’ambiente e al clima dall’industrializzazione e la costruzione di armi atomiche hanno portato la nostra specie vicino al rischio di estinzione e mostrano come la nostra intelligenza emotiva sia ancora piuttosto debole.
Negli ultimi mesi le difese di diniego e di scotomizzazione di questi pericoli da parte della maggioranza delle persone nei Paesi occidentali sono improvvisamente cadute a seguito della guerra tra Russia e Ucraina.

La scienza e il rischio di estinzione del Pianeta

L’etnologo Konrad Lorentz iniziò una delle sue ultime conferenze con questa battuta fulminante: “Signori e signore devo farvi un annuncio importante: ho scoperto l’anello mancante fra le scimmie primitive e gli esseri umani intelligenti… siamo noi!”.
L’intelligenza degli esseri umani, effettivamente, è ancora piuttosto limitata, soprattutto se consideriamo i nostri limiti nell’area dell’intelligenza emotiva.
Molti scienziati, spesso dopo aver contribuito con i propri studi a sviluppare tecnologie pericolose (basta pensare ad Alfred Nobel), si sono battuti a favore della pace, consapevoli dei rischi che corre la nostra specie ed hanno assunto un atteggiamento più responsabile verso il Pianeta. La loro maggioranza, ora, non solo è contro la guerra, ma è anche impegnata attivamente in azioni per favorire la pace. Il 9 luglio del 1955 Albert Einstein e Bertrand Russel scrissero un appello per il disarmo controfirmato da undici scienziati di primo piano. Da allora i più importanti scienziati nel mondo si sono impegnati per favorire la pace, sia individualmente, sia collettivamente. Un documento del 28 febbraio del 2022 di 115 scienziati russi contro la guerra definiva le motivazioni di Putin per l’intervento contro l’Ucraina come “Dubbie fantasie di filosofia della storia”. Anche in Italia è noto, ad esempio, il grande impegno di scienziati come Umberto Veronesi a favore della pace.
Riguardo alle nostre possibilità di sopravvivenza come specie, oggi diversi studiosi esprimono un certo pessimismo preoccupati per i danni dell’uomo all’ambiente e al clima, per le folli spese militari e per i rischi di una guerra atomica. Edgar Morin descrive l’essere umano, l’Homo sapiens, più come un Homo demens. Egli scrive: “La natura composita dell’essere umano ne fa animale isterico posseduto dai suoi sogni e tuttavia capace di oggettività” (2002, pag. 125). Nicholas P. Money, professore di biologia e direttore presso la Western Program presso la Miami University in Ohio, ne parla come di Homo narcissus. Il titolo del suo ultimo libro suona come una sorta di condanna definitiva: “La scimmia egoista. Perché l’uomo deve estinguersi” (2020). Uno strumento creato nel 1947 dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists dell'Università di Chicago, il Doomsday Clock, l'Orologio dell'apocalisse, misura anno per anno il pericolo di un’ipotetica fine del mondo cui l'umanità è sottoposta (thebulletin.org, 2022). Tale misurazione viene effettuata spostando le lancette in avanti di fronte ai rischi effettivi di fine del mondo. Secondo gli scienziati che valutano la situazione del Pianeta manca poco più di un minuto a mezzanotte, cioè, alla catastrofe.


Sulla strada dell’evoluzione

Gli studi sull’evoluzione dell’Homo sapiens ci mostrano dati contradditori rispetto alla sua natura violenta o pacifista. Il ramo evolutivo da cui veniamo somiglia più a quello degli scimpanzé, specie caratterizzata da una cultura a dominanza maschile aggressiva e molto competitiva, rispetto, ad esempio, ai Bonomo, scimmie antropomorfe molto più pacifiche, solidali e caratterizzate da una dominanza femminile-materna (il capo branco è sempre una femmina). Ma la storia evolutiva stessa degli scimpanzé, secondo gli studiosi, sembra raccontare che questa specie è diventata così aggressiva soltanto a causa di prolungate condizioni di carenze ambientali nel proprio habitat naturale, cosa che ha favorito un forte sentimento competitivo legato ai bisogni di sopravvivenza. Questo mostra la necessità di favorire un ambiente solidale e di mutuo aiuto tra i popoli.
L’homo sapiens inizia la sua evoluzione dalle scimmie antropomorfe circa sette milioni di anni fa partendo da una selezione dei membri maschi più empatici da parte delle stesse femmine del branco. Secondo i paleoantropologi, i primi homo sapiens si sono evoluti modificando un’abituale dinamica di distribuzione del cibo imperniata sulla dominanza maschile/patriarcale. Tale dinamica prevedeva che il cibo toccasse di diritto per primo al capo del branco, poi agli altri maschi e solo dopo il cibo avanzato era messo a disposizione delle femmine e dei cuccioli. Offrendosi sessualmente ai maschi più generosi che condividevano subito il cibo con loro e con i propri cuccioli, dunque, le femmine hanno favorito un’evoluzione sociale che ha permesso la nascita della coppia e della famiglia (Cohen e Bennet, 1993). Nel frattempo, le nuove abitudini alimentari degli homo sapiens, diventate pian piano meno carnivore e più vegetariane, hanno favorito anche la perdita del grande canino, strumento offensivo che favorisce la violenza nelle scimmie. Il nutrirsi di verdura e di frutta sugli alberi, inoltre, pare abbia facilitato la posizione eretta e quindi lo sviluppo dell’intelligenza.
Il processo di civilizzazione ha favorito altri cambiamenti postivi nella direzione di una cultura di pace. Accettando di civilizzarsi, infatti, l’uomo moderno vede migliorare anche la sua intelligenza emotiva. I programmi per l’istruzione orientano il suo processo di soggettivazione rafforzando la “coscienza secondaria o riflessiva” rispetto alla “coscienza primaria”. Un moderno strumento come la risonanza magnetica rende evidente come l’alfabetizzazione, quindi, lo sviluppo delle capacità riflessive, abbia creato un inspessimento del corpo calloso del cervello. Una maggiore razionalità, favorita dagli stati superiori di coscienza, favorisce un migliore controllo delle pulsioni e degli stati emotivi più perturbanti e inoltre facilita i processi d’integrazione mentale.
E’ necessario però chiedersi: come mai scoppiano ancora delle guerre nel mondo, nonostante questi cambiamenti evolutivi positivi e nonostante la fine della competizione tra i popoli per la sopravvivenza alimentare? Come si spiega la guerra, evento definito da tutti, almeno a posteriori, come terribile e tragico?
Studiando le angosce che ruotano intorno all’evento del parto nascita, Franco Fornari aveva individuato un altro aspetto della nostra evoluzione che spiega il fenomeno della guerra. Nella nostra specie le condizioni di estrema fragilità del cucciolo al momento della nascita e il suo rischio di morte al momento del parto attivano negli esseri umani angosce molto intense e forti timori per la sopravvivenza dei propri “progetti creativi”. Questi stati d’ansia coinvolgono tutto ciò che su un piano simbolico è simbolizzato come proprio figlio (la cultura, la religione, le proprie appartenenze sociali, le proprie tradizioni). Questo tipo di ansia alimenta facilmente vissuti paranoici nei confronti di chi appartiene ad altre culture per la minaccia che esse rappresentano alla sopravvivenza dei propri “figli simbolici” e favorisce forme di conflitto violento come la guerra. Quando il bambino, reale o simbolico, si trova di fronte a delle minacce concrete, le ansie attivate dalla situazione del parto-nascita si riattivano, inducendoci non solo a una protezione amorevole, ma anche a mobilitare una forte aggressività difensiva, spesso satura di vissuti persecutori.
In sostanza, l’evoluzione ha permesso alla nostra specie di diventare tendenzialmente pacifista e di sviluppare sia organizzazioni private di muto aiuto (la famiglia, la coppia e l’amicizia) sia numerose organizzazioni sociali rivolte alla cura reciproca e allo scambio pacifico all’interno e all’esterno del gruppo di appartenenza, ma non ci ha ancora permesso di superare questa paranoia.
Rimangono, quindi, due ultimi passaggi evolutivi per liberarci definitivamente dall’incubo della guerra: innanzitutto dobbiamo definire meglio quali siano le condizioni psicologiche interne e sociali che devono essere rafforzate per superare la tendenza alla paranoia, stato d’animo comune a tutti gli esseri umani, nello stesso tempo, vanno create le condizioni interiori e sociali per lo sviluppo delle competenze psicologiche che possano favorire la democrazia affettiva.
La psicoanalisi per fortuna oggi ci offre delle indicazioni abbastanza chiare in questa direzione.

Psicoanalisi e cultura di pace

In passato il tema della pace ha interessato davvero poco l’umanità. In 3500 anni di storia i periodi di pace sono stati veramente pochi, soltanto circa il 7%. L’idea stessa di pace è senza referenti lessicali ed è definita soltanto facendo riferimento al suo opposto, cioè, alla “assenza di guerra e conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno Stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc., sia all’esterno con altri popoli, altri Stati, altri gruppi” (Treccani 1994).
Freud riteneva che la pace fosse qualcosa di irraggiungibile. Nel 1931 la Società delle Nazioni invitò lui ed Einstein a dare un contributo al tema della Pace. Alla domanda di Einstein se fosse possibile che gli uomini diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione, Freud rispose che non c’era speranza di sopprimere totalmente le inclinazioni aggressive e distruttive dell’uomo che provocano la guerra perché esse derivano dalla deflessione all’esterno della pulsione di morte, sempre presente in ogni azione assieme a quella di vita. Aggiunse però che si può trovare un antidoto da opporre alla guerra nelle relazioni d’amore, nella possibilità di identificarsi nell’altro e “in tutto ciò che favorisce l’incivilimento”.
Soltanto studiando le cause psicologiche della guerra, dagli anni trenta in poi, alcuni psicoanalisti iniziarono a porre le basi per una riflessione scientifica sui contenuti psicologici della pace. Roger Money-Kyrle, in particolare (1934, 1937), analizzò il fenomeno studiando tre tipologie di personalità nevrotiche o psicopatiche le cui decisioni, pensieri e azioni portano alla guerra, distinguendole nettamente da una quarta tipologia di persone, quelle tendenzialmente sane psicologicamente e capaci di elaborare pacificamente le controversie tra di loro. Money-Kyrle attribuiva le cause della guerra soprattutto alla diffusione tra gli uomini di queste tre tipologie di personalità nevrotiche. Il primo tipo, quello “paranoide”, è sempre pronto a proiettare sugli altri, sugli oppositori, le qualità peggiori e la colpa di ciò che succede di negativo a sé o agli altri. Il secondo tipo è il “pacificatore”, cioè, chi ricorre al diniego del pericolo e quindi tende ad abbandonare i propri valori poiché si sente impotente a difenderli. Il terzo tipo è il “cinico” cui non importa nulla degli altri ed è pronto a negare la possibilità che esista qualcosa di buono in sé e negli altri. Secondo Money-Kyrle, dunque, le “qualità della pace” coincidevano con una condizione psicologica non nevrotica. Comprensibilmente con questo punto di vista, la soluzione da lui suggerita per favorire una cultura di pace era l’analisi personale.
Il limite di quest’analisi può essere visto nel voler attribuire al cosiddetto “uomo normale-non nevrotico” delle qualità personali che gli impediscono di aderire alla “follia della guerra”. Sappiamo tutti, in realtà, come osservava Franco Fornari, che anche le persone più buone “vanno in guerra perché si sentono spinte, non da una necessità di odio, ma da una necessità di amore, cioè, dalla paura della perdita, reale o immaginaria, di un oggetto di amore primario indispensabile all’identità del gruppo.” (Fornari, 1966).
L’analisi di Franco Fornari nel libro Psicoanalisi della guerra (1966) riportava le cause della guerra a condizioni di fragilità psichica comuni a tutti gli individui. In particolare, egli attribuiva a un meccanismo di “elaborazione paranoica del lutto” tra i gruppi umani la tendenza a ritenere responsabile delle proprie condizioni di disagio un gruppo diverso dal proprio. E’ proprio riferendosi a questa ipotesi che Massimo Recalcati il 23 marzo scorso ha analizzato la causa della guerra tra Russia e Ucraina, riferendola all’incapacità della dirigenza russa di elaborare il lutto per la perdita della “Grande Madre Russia” dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia.
Questo tipo di analisi riconosce una fragilità emotiva comune a tutti gli Esseri Umani, ma sembra indicare ancora come unica soluzione per una realizzare una “cultura di pace” la necessità di un lavoro psicologico profondo per tutti. Questa lettura, inoltre, non definisce ancora chiaramente quali siano le qualità intrapsichiche di questa cultura di pace.
Sulla stessa posizione sembra trovarsi un altro importante psicoanalista italiano, Luigi Zoja. Il 27 marzo scorso, sul Corriere, egli scriveva: “Solo se conosciamo il nostro male e lo teniamo sotto controllo possiamo salvarci come singoli e come collettività”. Coerentemente, egli citava questa affermazione di Primo Levi: “I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi, sono più pericolosi gli uomini comuni”.
Sono gli studi di Franco Fornari sui codici affettivi negli anni ottanta a fornirci indicazioni più precise per capire che cosa sia veramente una “cultura di pace”.
Secondo Fornari, la democrazia affettiva rappresenta una sorta di codice etico naturale che definisce la normalità in conformità a caratteristiche non ideologiche ma razionali. Tale codice etico, in sostanza, prevede la presenza simultanea armoniosa e integrata di tutti i codici affettivi, contrapposta alla tendenza alla radicalizzazione di un solo codice affettivo che è tipica delle situazioni patologiche. Questo modello di riferimento ci aiuta a operare creativamente sulla nostra cultura sociale, riconoscendone gli elementi affettivi carenti o troppo radicalizzati e quindi patologici. La condizione ottimale per l’equilibrio interno ed esterno, dunque, è legata a una cultura educativa e sociale capace di sollecitare e far crescere tutti diversi codici affettivi favorendo nel contempo la loro integrazione e armonizzazione. Questa condizione permette di riconoscere la parzialità della nostra cultura affettiva e ci orienta a riscoprire, rafforzare e integrare il codice affettivo mancante. I codici affettivi, in sostanza, sono circuiti mentali e ognuno di loro necessita di un’attivazione ottimale, insieme a un processo parallelo d’integrazione con gli altri codici.
Solo quando la cultura educativa e sociale sarà capace di favorire l’attivazione e l’integrazione di tutti i codici affettivi, dunque, potremo affermare che il processo di civilizzazione ci ha portato finalmente vicino a una cultura di pace.


Analisi di codice del conflitto tra Russia e Ucraina

Quali sono le condizioni psicologiche e sociali per una cultura di pace? E che significato psicologico attribuire alla guerra iniziata in febbraio tra Russia e Ucraina?
Proverò a rispondere a queste domande utilizzando l’analisi dei codici affettivi per leggere i diversi significati affettivi che emergono dalle diverse affermazioni e scelte che sono state fatte in queste settimane da Stati, organizzazioni politiche, culturali e singoli commentatori come risposta all’invasione russa. Non prenderò in esame, dunque, quei punti di vista che contengono evidenti difese psicopatologiche: non analizzerò, cioè né la posizione di coloro che di fronte alle terribili distruzioni nelle città e alla morte di migliaia di soldati e civili assumono atteggiamenti di diniego, negando che questa sia una guerra e neanche le posizioni più cariche di elementi paranoici, come quella di chi sostiene che sia necessario intervenire subito militarmente da parte della Nato contro la Russia. Tali punti di vista sono molto minoritari e rappresentano, dunque, solo delle manifestazioni psicopatologiche di poche persone.
La maggioranza dei commentatori ha adottato un punto di vista culturale che fa riferimento a un unico codice affettivo, cioè, a valori parziali positivi. Tale prospettiva, tuttavia, non permette loro di leggere ciò che sta succedendo in Ucraina in un’ottica di democrazia affettiva.
La mia analisi non si prefigge di “vendere” alcuna verità, ma intende mostrare come il fenomeno della guerra sia figlio di una scissione interna tra i diversi codici affettivi comune alla maggioranza degli uomini.


Il punto di vista del Codice Materno
Coloro che si riconoscono in questo punto di vista affettivo, sostenuto apertamente da Papa Francesco e da una miriade di altri movimenti e associazioni pacifiste, vedono la guerra come una follia, un crimine orrendo, la negazione assoluta del valore di protezione cui ha diritto ogni essere umano. Ispirati da una logica affettiva rivolta innanzitutto alla cura e alla protezione dei più deboli, essi vedono come inaccettabile, non solo la guerra, ma anche l’aumento delle spese militari. Nel mondo sono state accumulate 15.000 testate nucleari, quando, per distruggere l’intero Pianeta, ne basterebbero meno di 100. Ispirati dalla logica affettiva del codice materno, essi criticano la strategia degli investimenti militari che ha portato l’umanità a rischio d’estinzione; essi ricordano l’affermazione di Gandhi, “la logica di rispondere occhio per occhio, rende il mondo cieco”. Costoro fanno seguire a questa presa di posizione anche azioni concrete come preghiere, digiuni, manifestazioni per la pace e per il sostegno materiale alla popolazione dell’Ucraina. Pochi giorni fa, ad esempio, il 2 aprile, una delegazione italiana di circa duecento pacifisti in rappresentanza di 145 associazioni ha marciato per la pace a Leopoli, portando nello stesso tempo aiuti alla popolazione.

Il punto di vista del Codice Virile e Paterno
Chi sostiene questo punto di vista affettivo è convinto che in certe condizioni come in Ucraina, cioè, quando una nazione subisce un’aggressione, l’uso della forza sia l’unico modo per costruire la pace. Ci si deve quindi armare come e più del nemico. Ispirati da una logica affettiva che fa riferimento alla forza, al coraggio alla determinazione (codice virile), ma anche alla responsabilità, al rispetto delle regole e alla giusta punizione quando queste regole non sono rispettate (codice paterno), costoro pensano che sia giusto rispondere aiutando militarmente la parte aggredita, pur nel rispetto dei trattati internazionali. La critica fatta da costoro ai pacifisti è d’ingenuità e d’irresponsabilità. Questa critica è sostenuta dall’idea che la rinuncia incondizionata a ogni reazione difensiva comporterebbe conseguenze ben peggiori e ancora più distruttive: lasciando a una nazione la possibilità di sottometterne un’altra si alimenterebbe soltanto il suo atteggiamento violento e si porrebbero le basi per un'altra guerra. La scelta fatta dai Paesi che si riconoscono in questa posizione è di inviare armi, sostenendo il diritto degli ucraini alla difesa almeno per permettere loro di ottenere migliori condizioni al tavolo delle trattative.

Il punto di vista del Codice Fraterno
Questo punto di vista fa appello a un istinto naturale presente nella maggioranza degli esseri umani. Come ricordava Bowlby, la natura umana in condizioni di pace è rivolta verso la socializzazione: “I piccoli dell’uomo […] sono programmati per svilupparsi in modo socialmente cooperativo, che poi lo facciano o meno dipende in grande misura da come vengono trattati.” (1989). La tendenza naturale alla socialità cooperativa, tuttavia, può facilmente venire meno a causa tensioni e conflitti. La maggioranza degli europei ha imparato a tenere a bada tali tensioni dando sostegno a un sistema politico basato sui diritti fondamentali umani, su istituzioni liberali, sulla solidarietà e il sostegno reciproco. Gli europei hanno sviluppato il concetto di democrazia fin dal medio evo (la Magna Carta è del 1215). La rivoluzione francese e la progressiva conquista di una Costituzione che limitava il potere dei tiranni in tutti gli Stati europei nel corso dell’ottocento, hanno costituito le premesse per uno sviluppo pieno della democrazia nei Paesi occidentali. Dopo la follia delle due guerre mondiali del secolo scorso, inoltre, lo sviluppo democratico in Europa si è accelerato rapidamente con la nascita dell’Unione Europea. Ogni cittadino europeo oggi vuole scegliersi la propria vita e il proprio governo in piena libertà. I valori di libertà di parola, di pensiero, d’impresa, di stampa, di scelte culturali e religiose, di organizzazione politica e sindacale e infine anche dei propri comportamenti sessuali sono ormai considerati diritti inalienabili. In Europa oggi la guerra è vista come una scelta anacronistica poiché esiste un sistema basato su istituzioni multilaterali liberali e sui diritti umani per risolvere i conflitti. La stessa possibilità di dover prendere parte a un combattimento è diventata inconcepibile e la scelta di Putin di invadere l’Ucraina è stata vista come un retaggio di una vecchia mentalità ottocentesca. Partendo da questi ideali, la maggioranza degli Stati europei è stata immediatamente favorevole all’uso di sanzioni contro la Russia e molti leader europei sono subito intervenuti per chiedere alle parti in conflitto un immediato cessate il fuoco e degli incontri di mediazione a vario livello.
Com’è evidente da quest’analisi, ognuna di queste posizioni esprime un prezioso “valore affettivo ed etico naturale”, veicolato dal codice affettivo con cui è più forte il processo di identificazione.
All’interno delle proposte che sono state formulate, tuttavia, tale valore s’indebolisce e rischia di perdere la sua valenza positiva perché tende a negare gli altri punti di vista affettivi, ignorandoli o a volte denigrandoli apertamente come insufficienti, inutili o addirittura pericolosi. Ciò che sembra essere più carente e in certi casi mancare del tutto in queste diverse posizioni è proprio la base più importante della democrazia affettiva: la capacità cioè d’integrare punti di vista affettivi diversi. Attualmente, questa capacità sembra presente soltanto in un numero limitato di pensatori che ricevono però poca attenzione da parte del mondo politico. Uno di questi è Donald Sasson, uno dei più importanti storici britannici. In queste settimane, pur condannando apertamente l’aggressione russa all’Ucraina (codice paterno), egli è riuscito a sposare anche le ragioni del codice materno e del codice fraterno. In un’intervista del 8 aprile sul Corriere, infatti, egli afferma a proposito del regime russo: “Coi russi il grande sbaglio è stato punirli […] caduto il regime comunista si è subito accerchiata la Russia. Bisognava aiutare Russia e Ucraina, magari facendo entrare l’Ucraina nella UE e facendo in modo che la Russia si sentisse partecipe di una ricostruzione europea.”. Un’altra posizione vicina alla democrazia affettiva è quella degli “Scienziati per la pace” (vedi: www.science for peace.ca/nonviolent-response-to-aggression/). Costoro, invece di preparare le forze armate a difendersi militarmente, come ha fatto la Nato negli scorsi anni (alimentando così la paranoia dei russi), suggeriscono di formare la popolazione a difendersi in modo pacifico. Come spiega in un suo libro del 1973 Gene Sharp (filosofo, politologo, accademico e saggista), oltre all’azione non violenta di Gandhi, esistono altri 198 metodi di azione non violenta che possono, più efficacemente di una guerra, fiaccare e debellare un eventuale aggressore senza la necessità di dover ricorrere alla violenza stessa (sanzioni economiche dure e controinformazione fanno parte di queste misure). Un’azione di questo tipo integra le ragioni del codice materno con quelle del codice paterno e del codice fraterno.
In questo momento, l’unico codice al potere nel conflitto tra Russia e Ucraina è un codice virile radicalizzato. In queste condizioni, durante una guerra, le dinamiche psicologiche tra i due nemici si somigliano: i contendenti regrediscono a uno stadio infantile perdendo la capacità di pensare razionalmente e le difese psicologiche che prevalgono in loro sono la scissione e la proiezione. La tendenza è di demonizzare il nemico e di idealizzare invece chi combatte dalla propria parte. Nella comunicazione sociale ci si concentra soltanto sulla condanna dell’aggressore, ovviamente per ognuna delle parti è sempre l’altro che ha iniziato per primo. Si raccolgono prove per dimostrare da che parte sia il torto. Tutto alimenta il “Noi contro di loro” all’insegna di una lotta giusta ed eroica. Dovrebbero essere gli alleati delle due parti in lotta a sostenere le ragioni della pace, ma attualmente, come si è visto, i vissuti paranoici attivati fortemente dalla guerra sembrano coinvolgere anche gli alleati e i simpatizzanti delle due parti. Sono questi stessi vissuti paranoici che hanno portato, nel 1946, nel 1996 e infine nel 2016, alla bocciature di tre risoluzioni dell’ONU per l’abolizione degli armamenti atomici. Tali risoluzioni sono state sconfitte a causa del voto contrario, non solo delle Nazioni che detengono le armi atomiche, ma anche da tutti i loro alleati, compresa l’Italia.
Se non ci s’impegna a investire risorse sull’educazione alla pace, c’è da chiedersi se il mondo voglia veramente la pace oppure, come sembrano dire gli scienziati del Doomsday clock, possiamo solo rassegnarci ad avviarci verso l’estinzione della nostra specie.
Programmi rivolti allo sviluppo dell’intelligenza emotiva che, come sosteneva anche Freud, possono accelerare il processo di incivilimento, esistono da alcuni anni in diversi Paesi del nord Europa. Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva offre qualche elemento di speranza alla possibilità che si possa frenare la follia dell’uomo. In Italia esistono solo associazioni private come il CPP di Daniele Novara (Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti) che operano attivamente e su larga scala per formare gli educatori alla gestione pacifica dei conflitti. Sembra però necessario operare su più vasta scala e formare soprattutto chi si occupa di politica e di relazioni sociali, attivando un programma di formazione psicopedagogica rivolto a promuovere le competenze psicologiche della pace.

Bibliografia

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