Mosaiconline/settembre 2022
Un giorno prima del vertice della Nato, lo scorso 28 giugno, Turchia, Svezia e Finlandia hanno firmato un accordo che celebra l’approvazione di Ankara dell’adesione al Patto transatlantico di questi due Paesi baltici. La Turchia era l’unico Paese tra gli alleati a opporsi all’adesione di Stoccolma e Helsinki. Prima analizziamo alcuni punti dell’accordo che ci permetteranno di scoprire le motivazioni del “No” di Ankara.
Ambiguità costruttiva
La prima frase dell’articolo 5 dice: “Sia la Finlandia che la Svezia confermano che il PKK sia un’organizzazione terroristica e vietata”. Nulla di nuovo: dal 2002, per l’intera Unione Europea, ufficialmente la posizione è questa.
Lo stesso articolo continua dicendo che questi due Paesi promettono d'impegnarsi per impedire ogni tipo di attività del PKK, di altre organizzazioni “terroristiche” e dei loro sostenitori. Questa è un’affermazione che possiamo definire come “ambiguità costruttiva” come ci ha insegnato l’ex Ministro degli Esteri degli USA, Henry Kissinger. Una dichiarazione sì ambigua ma contemporaneamente anche “soddisfacente” per l’interlocutore che sarebbe Ankara in questa circostanza.
Nell’articolo 4 vediamo un passaggio importante: “Finlandia e Svezia non sosterranno le organizzazioni PYD/YPG e Feto”. Qui non si legge la parola “terroristica” quindi possiamo dire che non tutte le richieste di Ankara siano state soddisfatte. Tuttavia, il giorno dopo l’accordo, i mezzi di propaganda del governo hanno raccontato diversamente le cose dicendo che le YPG/J e il PYD erano state definite come delle organizzazioni “terroristiche”. Inoltre, per la prima volta, la comunità di Gulen (FETO) è stata definita come un “organizzazione” con la quale è meglio non avere dei legami. Infatti, una delle “vittorie” del governo turco è stata questa. Il Ministro degli Esteri, Cavusoglu, il 4 di luglio, in diretta tv raccontava questa prima volta come un successo storico del governo.
Nello stesso articolo si parla della fondazione di un “meccanismo di collaborazione” che avrebbe l’obiettivo di verificare se le promesse saranno mantenute o meno. Questo punto assume un’importanza notevole, se teniamo in considerazione che per l’adesione dei Paesi baltici serve l’approvazione di questa richiesta presso i parlamenti nazionali di tutti i 30 membri della Nato. Quindi, se le cose non andassero come desidera Ankara, potrebbe nascere una nuova crisi tra pochi mesi. Questa crisi potrebbe essere molto probabile tenendo in considerazione che in Turchia, nel giugno 2023, si svolgeranno le elezioni nazionali con quelle presidenziali. Erodgan potrebbe usare una crisi diplomatica-politica per ricattare i suoi alleati nel periodo elettorale e portare a casa sia una vittoria concreta sia un po’ di voti dell’elettorato ultranazionalista e fondamentalista.
Nell’articolo 7, i Paesi baltici promettono che non emetteranno nessun embargo militare contro la Turchia. Quindi il parziale embargo emesso dalla Svezia nel 2019 per protestare contro l’invasione di Rojava da parte della Turchia è stato sospeso. Si tratterebbe di un’altra vittoria per la Turchia oggi e una piccola garanzia per il futuro nell’ottica di un nuovo intervento militare in Rojava già annunciato nel mese di maggio dal Presidente della Repubblica.
Infine, anche nell’articolo 8 sarebbe nascosta una vittoria per Ankara, ossia il suo inserimento nel progetto internazionale di sicurezza militare, PESCO, e il sostegno dei Paesi baltici in questo percorso. Nel terzo paragrafo di quest’articolo i due Paesi si impegnano, nel rispetto della Convenzione europea sul rimpatrio, a ricevere e analizzare le richieste di rimpatrio emesse dalla Turchia in merito alle persone accusate di attività terroristica. Rispetto a questo punto, non si può parlare di una novità e nemmeno di una promessa che vincola fortemente i due Paesi baltici. Da tempo, tra Ankara e il Consiglio d’Europa e la CEDU c’è un enorme disaccordo nella definizione dell’accusa di “terrorismo” pronunciata in numerosi processi e questo punto è un’altra vittoria politica per Ankara. Qualche giorno prima dell’incontro di Madrid sulla prima pagina di alcuni giornali venivano pubblicate le liste delle persone accusate di terrorismo, che il ministero della Giustizia voleva presentare sia alla Svezia che alla Finlandia. Quelle liste piene di nomi, cognomi e foto, secondo il ministro della Giustizia, Bozdag, sono state mandate a Stoccolma e Helsinki il giorno dopo l’accordo di Madrid. Quindi, da ora in avanti, Ankara attenderà i rimpatri e avrà la possibilità di creare nuovi ostacoli all'adesione alla Nato di questi due paesi nel caso in cui non saranno consegnate le persone indicate.
Prime reazioni
In Svezia in particolare, ma anche in Finlandia, vari partiti di opposizione e numerose associazioni, insieme a una notevole parte dell’opinione pubblica, hanno definito l’accordo come un atto di tradimento nei confronti delle forze armate “curde” che sono in Turchia e in Siria (è importante spiegare perché scrivo “curde” tra virgolette: non è molto corretto che le unità di protezione popolari, YPG/J, e il Partito dell’Unione democratica, PYD, siano definite come due forze politiche o armate “curde”; queste realtà, nate tra il 2003 e 2004, inizialmente si sarebbero potute definire come forze curde ma oggi hanno un profilo molto più internazionalista e comprendono diverse “etnie” presenti in zona). Anche le prime reazioni che arrivano da queste confermano che l’accordo sia stato percepito come una decisione non gradita. Invece secondo il governo svedese e quello finlandese non si tratta di un cambiamento radicale che scombussolerebbe le loro storiche posizioni politiche. Mentre per i paesi baltici si tratta di un successo con pochi danni, per Ankara si tratta di una vera propria “vittoria”: il giorno dopo l’accordo, in Turchia, i mezzi di propaganda del governo parlavano di un risultato storico molto importante.
Si tratta di un accordo più politico che tecnico. Sembra che queste tre parti abbiano portato a casa un risultato – momentaneamente – soddisfacente e utile. Invece per le forze armate “curde” come PKK, YPG/J oppure il partito politico PYD ma anche i membri della comunità di Gulen si può parlare dell’inizio di un percorso politico pericoloso e rischioso.
Per analizzare bene il profilo politico di quest’accordo ricordiamo come sono andate le cose in questi ultimi mesi.
Prime reazioni russe…
Pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, sia la Svezia che la Finlandia, nel mese di maggio, hanno espresso pubblicamente la loro volontà di aderire alla Nato, principalmente per motivi di sicurezza. In risposta dalla Russia arrivano due messaggi netti: eventuali sanzioni economiche nei confronti di questi due paesi e l’aumento delle forze armate nella regione di Kaliningrad che si trova davanti alle coste finlandesi e svedesi. Non dimentichiamo il fatto che uno dei motivi dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia fosse l’eventuale adesione di Kiev alla NATO e i progetti di allargamento di questa organizzazione. Senz’altro, quattro mesi dopo, oggi, per una Russia stanca di fare guerra, non solo in Ucraina, e in profonda crisi economica la situazione potrebbe essere diversa. Ossia non è detto che l’intenzione di prendere una misura militare contro Stoccolma e Helsinki sia ancora realistica. Va però tenuto in conto che Vladimir Putin oggi si trova con poche via di uscita ed è un leader più vendicativo che revisionista; quindi, le follie sono sempre dietro la porta.
…e ad Ankara
Dopo la preghiera di venerdì del 13 maggio, il Presidente della Repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdogan esprimeva il suo parere negativo in merito all’adesione alla Nato di questi due paesi. Dopo quest’introduzione prudente, Erdogan pronunciava parole molto forti definendo i suoi futuri alleati come due Paesi che “sostengono e ospitano le organizzazioni terroristiche come PKK e DHKP-C e addirittura danno loro spazio nei loro Parlamenti nazionali”. Dal giorno successivo fino all’incontro di Madrid, la posizione di Erdogan è diventata più forte: “Non c’è bisogno che i loro rappresentanti vengano in Turchia per convincerci. Secondo noi le porte sono chiuse per loro”. Anche la lista delle organizzazioni “terroristiche” diventava più lunga, ogni volta che il Presidente si pronunciava a proposito di questo tema, e venivano inserite le YPG/J, PYG e la comunità di Gulen. La posizione di Erdogan nei giorni successivi diventava la voce comune del governo. Il Ministro degli Esteri, Cavusoglu, il Ministro della Giustizia, Bozdag e anche il Ministro della Difesa Nazionale, Akar, in diverse occasioni assecondavano le dichiarazioni di Erdogan.
Prima di passare alle motivazioni che stanno dietro i comportamenti di Ankara sarebbe ideale analizzare bene l’accordo di Madrid.
Cosa vuol dire quest’accordo per la Turchia e per la Nato?
Ankara ha ottenuto, soprattutto a livello mediatico, e non solo, quasi tutto ciò che voleva. Le sanzioni rimosse, due nuovi alleati nella sua lotta contro il “terrorismo”, le future eventuali operazioni militari in Siria forse più tranquille e meno osservate, l’inserimento nel grande giro di affari PESCO, una nuova carta per ricattare gli alleati con l’obiettivo di ottenere qualcosa in futuro e un’ondata di propaganda mediatica.
Il Patto transatlantico prosegue con il suo piano di allargamento “a tutti i costi”. Anche se Ankara ha portato a casa un elemento che in parte consolida la figura di Erdogan, la Nato si allargherà. Forse quel “dittatore utile” non è proprio così cattivo come si pensa.
I leader dei futuri nuovi membri della Nato a proposito delle reazioni mediatiche e pubbliche che hanno ricevuto a casa hanno sottolineato alcuni punti dell’accordo che tutelano le loro posizioni e scelte storiche. Non c’è nessun punto preciso in cui si specifica che alle YPG/J saranno tolti gli aiuti umanitari che soprattutto la Svezia indirizzava. Questo è un dettaglio importante tenendo in considerazione che nelle galere in Rojava ci sono parecchi cittadini svedesi appartenenti all’ISIS e la Svezia non vuole il loro rimpatrio. Sono circa 300 e del loro caso parla in modo dettagliato e realistico la serie Netflix, Califfato. In merito ai rimpatri devono essere tenute in considerazione le convenzioni internazionali.
Infine, e soprattutto per la Finlandia ma anche per la Svezia, il risultato è un passo importante, per il momento. Le mosse di Putin hanno un significato molto diverso per le persone che vivono in quella zona rispetto a noi che viviamo nel sud dell’Europa. Particolarmente per la Finlandia il “pericolo russo”, con l’adesione del paese alla Nato, potrebbe non essere così temibile. Un tema storico molto delicato per questi due paesi che oggi sembra abbia trovato una sorta di “soluzione” nell’adesione. Ovviamente questo cambiamento storico avrà anche delle ripercussioni politiche all’interno dei parlamenti nazionali.
E i curdi?
Senz’altro con l’accordo di Madrid sia la Svezia che la Finlandia hanno concesso una serie di cose a Ankara nella sua guerra contro il PKK ma anche contro le YPG/J e PYD. Inoltre, finché il parlamento turco non approverà l’adesione di questi due paesi alla Nato con la Turchia potrebbe venire fuori un ballo molto pericoloso. In quest’ottica in merito alle forze politiche o armate “curde” potremmo assistere a una serie di cambiamenti di posizione da parte dei paesi baltici.
Uno dei membri del Comitato Esecutivo del Consiglio Democratico Siriano, Hasan Mohammed, afferma di essere in contatto con la Svezia e la Finlandia per capire meglio le loro intenzioni reali. Şiyar Ali, il rappresentante dell'amministrazione autonoma della Siria nord-orientale in Svezia, afferma di essere stato rassicurato dal governo per il fatto che la posizione storica di Stoccolma non cambierà.
Dall’altra parte secondo Aldar Halil, membro del Comitato esecutivo del Movimento per la Società democratica in Rojava, l’accordo di Madrid potrebbe essere definito come un lasciapassare per un nuovo intervento militare di Ankara.
In merito all'accordo di Madrid, una serie di artisti e intellettuali di Jazira in Rojava, il 2 luglio, hanno pubblicato una lettera aperta dicendo che “la Nato vuole legittimare i crimini e l'aggressione della Turchia”. Anche dalle montagne di Zap, dal PKK, è arrivato un breve comunicato in cui la mossa della Nato veniva definita come “un atto di ostilità contro il popolo curdo”.
Le dinamiche della guerra per procura in Siria tendono a cambiare. La Russia è sempre più debole e meno presente sul territorio. Le spese di questa lunga guerra pesano molto sulle spalle dello Stato che non riesce ormai ad affrontare la crisi economica. L’Iran deve inventarsi nuove soluzioni dato che sarà sempre più isolato in Siria. Infatti, il primo luglio, il ministro degli Esteri iraniano, Abdullahiyan era a Ankara per incontrare il suo collega. Alla fine di quest’incontro Abdullahiyan ha espresso il sostegno del suo governo a Ankara nella sua lotta per la “sicurezza nazionale” e ha proposto una serie di mosse per ripristinare i rapporti con Damasco.
In quest’ottica il regime siriano guidato da Bashar al-Assad, si trova in un momento in cui può valutare le proposte di collaborazione che arrivano da Rojava. Infatti, nell’ultimo congresso del PYD, il 20 giugno, è stata sottolineata l’importanza di una nuova Costituzione democratica per risolvere i problemi nazionali e strutturare una collaborazione strategica con Damasco per affrontare le minacce di guerra di Ankara.
Quindi “i curdi” sembra che abbiano già iniziato a studiare bene le dinamiche in evoluzione e a valutare le nuove soluzioni, soprattutto tenendo in considerazione che il sostegno dell’occidente ha una sua scadenza.
Capire Ankara
In poche parole, Ankara cerca di determinare l’andamento di alcune dinamiche internazionali che potrebbero cambiare il futuro del governo centrale. Inoltre, vuole ottenere nuove vittorie per consolidare il potere del disegno economico e politico che in parte rappresenta Erdogan. Nel fare questo Ankara vuole ricordare al mondo che ha tuttora un capitolo aperto con i suoi vecchi alleati, oggi nemici numero uno, ossia la comunità religiosa guidata dall’ex imam Fethullah Gulen. Centinaia e migliaia dei suoi adepti sono stati licenziati, arrestati, denunciati e i loro beni sono stati confiscati dallo Stato durante lo stato d’emergenza dal 2016 al 2018 perché Ankara accusa la comunità di Gulen di essere l’esecutrice del fallito golpe del 2016. Il punto centrale di questo desiderio di Ankara è legato al fatto che Gulen sia in auto esilio da circa 20 anni in Pennsylvania negli USA e non è stato consegnato alla Turchia nonostante numerose richieste fatte in questi anni. Inoltre, migliaia di adepti di Gulen hanno trovato rifugio in diversi paesi europei (per esempio Germania, Grecia e Svizzera) in questi anni e solo pochi hanno collaborato con la Turchia per la loro estradizione (per esempio Bosnia e Kosovo). Quindi Erdogan deve portare a casa “qualche testa”, se lo aiutano i suoi alleati, per ottenere un po’ di sostegno.
Erdogan, inoltre, vuole ricordare al mondo che il conflitto armato in atto da 40 anni con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) non è mai stato “compreso” dai suoi alleati come ha sempre desiderato lo “Stato turco”. Come risultato di una propaganda antiamericana, in Turchia è molto diffusa l’idea che in primis Washington ma anche la Grecia, Germania, Francia e Italia sostengano economicamente, politicamente e militarmente quest’organizzazione. Ovviamente con la dichiarazione del Confederalismo Democratico in Rojava-Siria, nel 2014, e con il protagonismo delle unità di protezione popolari YPG/J nella lotta contro l’ISIS questa “ferita” ha avuto una nuova piaga. La rivoluzione avvenuta in Rojava senz’altro è il frutto di lavoro politico e militare del leader storico del PKK ossia Abdullah Ocalan e di diverse forze politiche locali. Quindi già nel 2014 per Ankara era nato un nuovo “nemico” oltre il confine, ossia le YPG/J. Il sostegno internazionale (economico, militare ma soprattutto politico) espresso verso le YPG/J nella loro lotta contro l’ISIS ha messo Ankara in una posizione molto difficile. Per uscire da questa “solitudine” Ankara non ha percorso la strada del dialogo, anzi, il governo turco ha deciso di avviare numerose operazioni militari sul territorio siriano, in coordinamento con Mosca e Tehran e in collaborazione con le bande jihadiste. Anche queste operazioni hanno attirato le reazioni negative dei suoi alleati e non solo. La crisi più grande fu con l’ex Presidente statunitense, Trump, ma anche l’embargo militare emesso dalla Svezia in quest’ottica va ricordato.
Quindi una serie di problemi interni della Turchia, non risolti in questi anni, in diverse occasioni hanno messo in “difficoltà” e “isolato” Erdogan e il suo governo. Come reazione il governo centrale ha deciso di trasformare questi problemi in scenate di vittimismo ma anche in armi di vendetta invece che lavorare per la riconciliazione e la democratizzazione del paese. Quindi, ignorando le reazioni provenienti dall’estero ma ignorando anche una serie di convenzioni internazionali, ha deciso di lanciare una vera “crociata” dentro e fuori dalla Turchia. In questa sua missione Erdogan, mediaticamente, non è stato sostenuto quasi per niente dai suoi alleati. Quindi a Madrid, l’adesione di questi due paesi baltici alla Nato è stata un’occasione di ricatto e vendetta per Ankara.
Senz’altro Ankara vuole ottenere più sostegno e acquisire più credibilità e rispetto nella politica estera dove si trova isolata. Inoltre, vuole ricucire i suoi rapporti con gli Usa dato che da tempo sono in atto una serie di sanzioni economiche e militari (come le CAATSA). Ovviamente Ankara vuole approfittare dell’occasione della guerra in Ucraina per ricordare ai suoi alleati che potrebbe fare da tramite con Putin, ma anche con i paesi medio orientali, nel campo dell’energia e non solo. Oltre alla sua relazione forte con la Russia, la Turchia ha pian piano ricucito i suoi rapporti anche con gli Emirati, Israele e l’Arabia Saudita.
Tutto questo piano diventa molto importante se teniamo in considerazione che nel giugno 2023, quando la Repubblica compirà 100 anni, si svolgeranno le elezioni politiche e presidenziali in Turchia. Il Partito dello Sviluppo e della Giustizia, AKP, insieme al suo alleato al governo, il Partito del Movimento Nazionalista, MHP, sono ai minimi storici. Dopo le elezioni amministrative perse nel 2019 e con una crisi economica senza precedenti, Erdogan rischia decisamente di andare all’opposizione. Questa eventuale sconfitta elettorale rappresenta un rischio grosso per un disegno politico ed economico criminale e fascista come quello che rappresenta e, in parte, guida Erdogan.
A tutta questa enorme “insalata” ovviamente va aggiunta la questione dei rifugiati siriani. Le condizioni abitative, sociali e lavorative dei siriani in Turchia sono precarie e la loro vita è soggetta ai continui linciaggi razzisti. C’è una diffusa xenofobia che sta entrando anche nei programmi elettorali dei partiti d’opposizione che potrebbero vincere le elezioni del 2023. Quindi, il piano di rimpatriare circa 1 milione di siriani dei quasi 4 milioni presenti sul territorio verso il nord della Siria potrebbe essere riproposto da Erdogan come una mossa elettorale.
Un piano che lui stesso presentò nel vertice dell’Onu nel 2019 negli USA ma mai assecondato dai suoi alleati. Quindi Erdogan è alla ricerca della “legittimità” per la sua futura azione militare nel nord della Siria che avrebbe quest’obiettivo. Pretende sostegno se non almeno il silenzio da parte dei suoi alleati per compiere un’azione che servirebbe a calmare le acque in Turchia e salvare le prossime elezioni.