Mosaiconline / ottobre 2022 (pagg.36-37)
Il viaggio in Palestina, al quale ho partecipato ad agosto, è stato organizzato da Pax Christi Italia nell’ambito della campagna Ponti e non Muri ed è stato condotto, con attenta e calibrata sapienza politica e con atteggiamento evangelico autentico e coinvolgente, da don Nandino Capovilla, Rossana Lignano e Betta Tusset, che lo hanno realizzato come un pellegrinaggio esperienziale, promotore di testimonianza, di solidarietà e di giustizia.
L’ho condiviso con un gruppo eterogeneo di persone, di provenienza disparata e che non si conoscevano prima, ma che nel corso di quel viaggio hanno saputo costituirsi come una comunità viva, impegnata in una prova conoscitiva e sentimentale non facile, alla quale, tuttavia, ciascuno ha saputo offrire, senza filtro e senza inibizione, l’apporto essenziale di sé, del proprio pensiero e della propria emozione. Da vecchio insegnante so che conoscere insieme, è conoscere meglio e più in profondità.
Ero partito convinto di essermi preparato a interrogare e comprendere la situazione che avrei attraversato. Da tanto tempo, infatti, desideravo recarmi in quei luoghi e per varie ragioni. E poi, ero il più vecchio dei partecipanti e mi sentivo perciò di aver avuto, se non altro, più tempo di altri per studiare e fare abbastanza bene i compiti propedeutici al viaggio.
Avevo, infatti, cominciato a interessarmi delle vicende storiche della resistenza palestinese fin dal ginnasio, ai tempi della guerra dei sei giorni del ’67 e dalla successiva assunzione della direzione dell’OLP da parte di Yasser Arafat, che ne svincolava ruolo e attività dal patrocinio degli eserciti e degli stati arabi confinanti, fino a ottenerne dall’Assemblea delle Nazioni Unite, nel ’74, il riconoscimento formale di unica e legittima rappresentante del popolo palestinese. Mi ero entusiasmato nel ’94, come tutti, alle strette di mano fra Ytzhak Rabin, Shimon Peres e Arafat stesso che sancivano, nel giardino della Casa Bianca, la firma degli accordi di Oslo per la pace in Terra Santa. Avevo poi vissuto lo sconcerto di tanti per l’assassinio israeliano di Rabin, l’anno successivo, a Gerusalemme, e avevo sentito crescere il senso di impotenza e di sconfitta durante il confino e poi l’assedio, con bombardamento quotidiano, di Arafat a Ramallah, nei terribili mesi del 2001-02. La misteriosa e improvvisa morte del presidente palestinese nel 2004 e le successive e sempre più aggressive politiche dei governi di Ariel Sharon e di Benjamin Netanyahu, con l’espansione della colonizzazione israeliana nei territori, la ghettizzazione di Gaza, la costruzione del Muro in Cisgiordania e, peggio di tutto, la progressiva, feroce opera di marginalizzazione della questione palestinese dagli scenari internazionali, mi avevano convinto, ormai da tempo, che la situazione fosse senza sbocco, nonostante la seconda Intifada e la azioni di resistenza. Sul Muro, poi, avevo letto articoli, ascoltato testimonianze e visto film e documentari: mi ero quindi venuto persuadendo che la sua costruzione fosse una metafora concretizzata e irrevocabile della definitiva pietra tombale sull’indipendenza della Palestina e sulla pace in quella tormentata regione.
Ma poi, quando i volti e le voci dei testimoni che ho incontrato in Palestina, hanno cominciato a raccontarmi la loro vita quotidiana all’ombra, incombente e minacciosa ovunque, di quell’immenso recinto, ho capito quanta presunzione ci fosse nel mio sentirmi informato e quanta improntitudine intellettuale si annidasse nelle mie valutazioni. Come osavo, io, dall’alto della mia posizione esterna e privilegiata arrogarmi il diritto di avere le parole per spiegare, per dare giudizi e per credere così di capire quello che accadeva nella materia viva delle loro esistenze e dei loro pensieri? Con quale orgogliosa arroganza avevo potuto pensare di poter essere anche solo interlocutore dei loro discorsi e delle loro considerazioni? Dovevo davvero fare un bagno di umiltà e ascoltare in silenzio la forza, la dignità del loro dire. Dovevo affidare a loro la mia mente e il mio sentire perché li irrorassero con le loro narrazioni di determinazione, di coraggio e di speranza. Era ed è una questione di postura intellettuale verso quella storia e quella vita. E la mia, di postura, era quella sbagliata. Era astratta e vuota. Sono contento di averlo imparato. Sono contento di aver imparato l’umiltà dell’ascolto e la fertilità del silenzio. Sono contento di averlo imparato in quel modo così intenso, proprio perché condiviso con gli altri viaggiatori e con la mia compagna.
La comprensione profonda dei processi geopolitici che hanno portato e portano lo stato Israele a costituirsi, nell’indifferenza o peggio nella complicità internazionale, come un aberrante e violento Regime coloniale di Apartheid; la consapevolezza di non poter ormai inquadrare le attività di resistenza e la ricerca della pace in un più ampio progetto politico di riscatto e di liberazione di quel popolo e di quella terra; la constatazione della latitanza, della dimissione e, forse, del cedimento di una classe dirigente palestinese che quel progetto possa elaborare e gestire nel confronto con Israele e sulla scena internazionale; l’esperienza della disgregazione e dell’omologazione progressive, sofferte dalle popolazioni impoverite e ricattate dalle tante forme d’interdizione e di umiliazione che sono costrette a subire; queste e chissà quante altre cose apparivano ben presenti alla coscienza dei testimoni che abbiamo incontrate, ma niente di tutto ciò sembrava intaccare in loro la tenace volontà di resistenza e l’impegno quotidiano per la pace. Sulle loro facce abbiamo potuto leggere i segni della delusione e della fatica, nelle loro voci abbiamo avvertito le incrinature del timore per l’isolamento o della preoccupazione per il fallimento. Ma mai abbiamo colto, nei loro racconti, segnali di disincanto o di rassegnazione; nessuno di loro ci è parso sulla soglia della rinunzia o dell’abbandono.
Non la signora betlemita Claire Anastas, che avendo vinto, dopo anni di angherie e di provocazioni, una battaglia legale contro lo Stato per evitare la prevista distruzione della propria abitazione e dell’annesso negozio, se li è visti circondare su tre lati dal Muro che le impedisce ora l’accesso a casa e inibisce quasi completamente la sua attività commerciale. Non il dottor Nidal Salameh, impegnato, da anni e in condizioni drammatiche, a gestire e a rifornire di strumentazione terapeutica e di medicinali una clinica di Betlemme dove i tanti palestinesi poveri possono essere curati. Non la studentessa ebrea Shula Treves, di origini triestine, vero leader sorridente, appassionato e competente di un movimento di giovani israeliani abituati a schierarsi fra la polizia e i palestinesi, nelle continue manifestazioni di protesta per gli abusi e gli sfratti dalle loro case che il governo impone agli abitanti di Gerusalemme Est. Non il rabbino Jeremy Milgron, dal viso solcato dalla fatica amara della speranza, che tuttavia scherza sul fatto che, in tutto il mondo, solo in Israele un’Associazione di Rabbini, come quella che ha fondato, deve portare nel nome la specificazione aggiuntiva e lì non scontata di per i Diritti Umani. Non gli abitanti della fertile e rigogliosa vallata di Bettir che, unendosi in anni di lotta, sono riusciti, per via di certi acquedotti e strutture di canalizzazione d’epoca romana, a far riconosce dall’Unesco il loro territorio come patrimonio dell’umanità, fermando così il Muro, che lo avrebbe violato e isolato per sacrificarlo alla colonizzazione israeliana. Non certo Issa Amro, nostro ospite e guida a Hebron, la città dei Patriarchi, dove tremila soldati israeliani, stanziati a protezione di ottocento coloni aggressivi e sprezzanti, hanno trasformato una città palestinese di centoventimila abitanti (come la mia Bergamo), in una immensa riserva con ventidue posti di blocco fra le sue strade. Non gli eroici agricoltori della Tenda delle Nazioni, Daud Nassar e della comunità di At-twani, Sami, che preservano ostinatamente le coltivazioni delle loro colline e la loro stessa vita sociale, dall’invadenza turrita e ostile delle colonie israeliane, legalmente illegali, che le circondano e che sottraggono loro acqua, territorio e persino vie di comunicazione con l’esterno. Non i beduini delle baracche di Abu Raed e di Khan Al Ahmar, nello scarnificato deserto di Giuda, che ci hanno accolto festosi e gentili nei loro villaggi e che, tuttavia, ci hanno raccontato con dolore e dignità la storia della loro gente, costretta dal nomadismo secolare alla stanzialità, privata dall’accesso ai pascoli e obbligata a vivere di povertà estrema in zone riarse e desolate, mentre le colonie ebraiche, che incombono su di loro dalle alture e che, monopolizzando sorgenti e tubature idrauliche, si godono viali alberati, giardini, fontane e persino piscine. Non le anziane, ma vivaci e forti, sorelle Rezi, Lina e Helene della comunità melchita di Ramallah che hanno, per anni, assistito le donne palestinesi private del sostegno dei mariti, incarcerati o uccisi nelle Intifade, riunendole in una associazione di ricamatrici che, con la vendita dei manufatti, ha creato sostegno economico e solidarietà sociale. Non Violette Khoury, tenacissima e tenera sopravvissuta della Nakba del ’48, che a Nazareth ci ha raccontato le vicende vissute da lei e della sua gente, attraverso decenni di lacerazioni, sopraffazioni e violenze, ospitandoci nella sede dell’associazione culturale Antichi Ulivi di Palestina, volta a raccogliere e tramandare la cultura, la lingua, la storia e le tradizioni palestinesi che oggi rischiano una riscrittura mistificante o addirittura la cancellazione; con lei abbiamo incontrato il parroco Abuna Raed, sacerdote provato, ma entusiasta e sapiente, capace di passare dalla commozione all’euforia e di trasmetterle a chi lo ascolta, il quale, riferendosi esplicitamente all’apostolato di papa Francesco, ci ha spiegato quanto bisogno abbia la Palestina oggi della prassi cristiana di una nuova Teologia della Liberazione. Non infine, ma anzi soprattutto, le sorelle comboniane di suor Alicia Vacas e di suor Azazet Kidane, che ci hanno accolto, con grazia e dedizione, nella loro Casa di Betania (Gerusalemme est), violentata dal Muro che addirittura la attraversa e che con disponibilità garbata e rispettosa, con saggezza amorevole e con tenacia per niente scalfibile tessono da anni una capillare rete di solidarietà, di assistenza, di aiuto e di mediazione fra le moltissime realtà di resistenza e di promozione della pace che in tutta la Palestina operano: quelle donne conoscono e sanno dosare la forza della fragilità, l’intelligenza dell’amore, la determinazione della giustizia e la dolcezza dell’ironia, tutte doti che fanno davvero della politica una funzione della Carità, come tutti dovremmo già sapere o di nuovo imparare.
Di fronte a tutto ciò il nostro (il mio) sapere diventa vuoto. Si deve rifondare. Se è vero infatti che, da vari millenni a questa parte, quella terra è attraversata, come nessun’altra al mondo, dalla follia devastante e omicida per via di un monte di sabbia chiamato Sion, è anche vero che da quella stessa terra ci continuano ad arrivare sommessi, ma inestinguibili, atti d’amore e gesti di pace incarnati nella materia viva della storia: sono segni piccoli forse, ma di valore immenso. Essi ci parlano di un Soffio che agisce imprevisto nella vicenda umana e ci dicono della presenza fra noi del mistero di un Regno, al quale forse molte delle persone incontrate non credono, ma che tutte sicuramente già abitano.
E grande è la mia gratitudine, per tutto quello che ho visto e per tutto quello che mi è parso di capire.