Mosaiconline/Mosaico di pace, ottobre-novembre dicembre 2022
Don Tonino Bello e l’immaginazione educativa
“Ogni volta che lo lasciavo, sentivo di avergli rubato spezzoni di mistero. Quegli spezzoni che a scuola ci sottraeva volutamente, senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché lui aveva l'incredibile qualità di non spiegarci mai tutto e per ogni cosa ci lasciava un ampio margine d'arcano, non so se per stimolare la nostra ricerca o per alimentare il nostro stupore.”
3 marzo 1991: don Tonino scrive ai catechisti, racconta loro del suo maestro.
Lo conosciamo così, attraverso la sua analisi, quest’uomo di cui probabilmente altrimenti non avremmo mai potuto sapere. E tramite lui, che per esser stato maestro di don Tonino possiamo dedurre che non avesse seguito i più moderni corsi di didattica e di tecnologie, mettiamo a fuoco come un Vescovo ed un maestro di un paese piccolo del Sud avessero trenta anni fa compreso quello che tanta letteratura scientifica cerca ancora di insegnare adesso, proprio adesso che Google ci dà tutte le risposte: la conoscenza non è un prodotto da offrire già pronto.
Avrebbe potuto, scrivendo ai catechisti, e proprio ai catechisti, dilungarsi sulla importanza della dottrina, enfatizzare questioni legate alla purezza dei dogmi, del rigore soltanto a bando dell’immaginazione: e invece parla loro della “ricerca”. Centra il cuore antropologico dell’umano che si interroga, che è il medesimo per la fede e per la scienza, perché non v’è opposizione quando l’apertura è al mistero e non alla presunzione di certezza.
In poche righe tratteggia un manifesto, fa sintesi di letteratura copiosa, di temi su cui oggi le neuroscienze ci portano l’evidenza delle risonanze magnetiche funzionali: l’apprendimento si muove connesso alla dopamina, e la dopamina si genera quando nella relazione educativa non c’è un presuntuoso che presume ed uno che registra, come tabula rasa, come noi spesso sogniamo allievi – o figlio o mariti o mogli, o parrocchiani, chissà - , ma quando l’apprendimento è mutuo, quando nessuno presume, e nessuno è presunto.
Non è per tutti la ricerca come postura interiore: alcuni diventano maestri per non dover più farsi domande. Farle agli altri è una buona seduzione, per il cervello e per l’anima, per lo scienziato come per il catechista.
Non è per tutti l’esposizione al coraggio di questo arcano, che nulla ha a che fare con l’esoterico ma che riguarda la capacità di trasformare un’aula in una narrazione condivisa, una lezione in una relazione. Ovvero?
“Non spiegare tutto”: sembrerebbe esattamente il contrario del nostro bisogno di mettere tutto a posto nelle scatole/teste altrui, misurandoci come insegnanti, educatori, catechisti attraverso quanto sappiamo togliere di dubbio, di vuoto, quanto sappiamo riempire, riempire e dire (e poi naturalmente verificare con le crocette sulle griglie senza scampo).
Eppure: eccola la forma dell’educazione intesa non come addestramento/istruzione/trasferimento di un protocollo che serve per funzionare, più che per vivere (e che poi crolla, crolla sempre, lo sappiamo tutti che crasha perché la vita eccede. Lo ha scritto Licata che è filosofo e scienziato che l’“incertezza è radicale” e se studiate i quanti e la fusione nucleare lo sapete bene, ma anche se avete solo la terza media, lo sapete benissimo, lo sappiamo tutti benissimo che crolla, crolla tutto il sapere che è arrivato solo di testa, che ha scansato la carne, la vita, la domanda antica e profondissima che riguarda la ricerca, per ogni contenuto, della sua dimensione di senso).
Eccola la forma dell’educazione che educa al mistero e ad abitare, non fuggire, la domanda: perché tutta la vita altro non è se non domandare.
Ma le domande hanno sempre dato fastidio: a certi regnanti come a certi maestri, a certi genitori come a certi professori, a certi altri come a noi stessi.
Ma non a tutti, per grazia di Dio.
“Perché l'arcobaleno dura così poco in cielo? E cosa fa Dio tutto il giorno? Perché le farfalle lasciano l'argento sulle dita? Perché Gesù ha fatto nascere così il povero Nico, che veniva a scuola sulla carrozzella spinta dalla nonna? Perché si muore anche a dieci anni, come la sua bambina, e noi scolari quel giorno andammo tutti in chiesa a pregare per lei?
Non aveva l'ansia di rivelarci tutto. Non era malato di onnipotenza culturale. E neppure ci imponeva le sue spiegazioni. Qualche volta sembrava fosse lui a chiederle a noi. Ma quando dopo gli acquazzoni di primavera spuntava l'arcobaleno, ci conduceva fuori per contemplarne la tenerezza dei colori. E, mostrandoci le rondini che garrivano in cielo, ci diceva che non dovevamo abbatterle con le nostre frecce di gomma perché Dio, la sera, le conta una ad una. E ci raccontava che le farfalle, l'argento, andavano a prenderlo tra le erbe profumate dei crepacci. E a Nico gli restituiva la gioia di esserci, perché gli scompigliava tutti i capelli, a lui solo, e, durante le passeggiate scolastiche, gli faceva tenere la sua borsa, con la merenda del maestro. E quando morì la sua bambina, lo vedemmo piangere di nascosto.”
Tutta la pedagogia di don Tonino – che non ha sistematizzato il suo pensiero in volumi in forma di manuali ma che ci arriva nitida nelle sue omelie e lettere e scritture – sta in questo coraggio, che era il suo: non si sottraeva. Non si sottraeva alle domande, degli uomini e della vita, alle sue. Non le metteva sotto il gigantesco tappeto dove a volte alcune omelie o catechesi cacciano quelle potenti (“perché si muore così piccoli?” “perché proprio a me?” “che senso ha questo dolore”?), lui non si sottraeva a niente e non edulcorava niente, teneva tutto e tutto celebrava: il senso del sacro apparteneva non alla fine della domanda ma al suo mantenerla viva, in tensione con l’uomo ricercatore e con la donna ricercatrice di Dio.
Non si misurava buon Vescovo e buon predicatore perché le sue parole toglievano il dubbio: non c’era pace nelle sue scritture, pur cosi intrise di tenerezza e linguaggio assai insolito per i Vescovi di allora ( naturalmente anche per taluni di adesso), lui non si toglieva e non ti toglieva la domanda, e la pace a cui sempre aspirava non era quella di chi smette di cercare questo arcano che scuote.
Certo, offriva anche lui risposte, ma risposte prive della brama di chi si sente maestro, e uomo, nella misura in cui ha il potere della parola definitiva.
Le risposte di don Tonino erano relazioni: chiamata alla compromissione, al lavoro su di sé e con gli altri, risposte fatte di verbi di carne, senza retorica, nonostante così tanto ricorso a figure ed immagini di chiara ispirazione poetica.
Solitamente chi, come lui, ha il dono dell’eloquio è la che si perde: finisce con l’innamorarsi delle sue parole, si aggroviglia e attorciglia intorno al proprio discorso perfetto, con cui crede di sedurre e da cui invece è sedotto.
E’ la tentazione di ogni scrittore, ma anche di ogni educatore e di ogni genitore: la tentazione di chi, parlando, si stacca dalle sue parole, che allora finiscono col procedere autonome, senza il vaglio dell’anima che le interroga, che ci interroga.
Dove sono le mie parole? Di chi sono? Passano come crogiolo per me, prima di puntare in direttissima verso l’altro che intendono colpire?
Si, colpire: perché ho sentito decine e decine di insegnanti e catechisti usare un verbo utile alla fionda, ne ho sentiti davvero tanti dire che il loro compito è “inculcare”. Oh, sia chiaro: il complemento oggetto era sempre magnifico, era sempre roba mastodontica, tipo “inculcare la conoscenza”, “la verità” e, persino, ho sentito spesso dire con fierezza e talvolta occhi lucidi, “inculcare il Vangelo”, roba che così si diventa santi, sicuramente.
Ma quale che sia il complemento, resta l’evidenza di un verbo violento.
Un verbo presuntuoso, dove all’altro non riconosco altro compito salvo quello di farsi incidere.
Non significa rinunciare al ruolo ed alla funzione educativa, alla necessaria asimmetria istituzionale, lasciare quel verbo non significa azzerare la regola e scambiare l’educazione per assenza di rigore: significa, semplicemente, aggiungere al rigore l’immaginazione, come nella espressione a me assai cara di uno scienziato del secolo scorso, Gregory Bateson, che mai aveva sentito parlare di don Tonino, ma che come lui si faceva domande, con timore e tremore, senza spocchia.
Rigore e immaginazione: così Bateson declinava la conoscenza, così don Tonino Bello la incarnava, e così rivelava il percorso di ognuno alla educazione di sé, alla apertura alla ricerca continua, mai arrivata.
Immaginazione?
Se può apparire a taluni pericolosa, è allora necessario precisare che non è di immaginazione come contrario della realtà, quella di cui si occupava il Vescovo, così come quella di cui si occupava lo scienziato di cui sopra: immaginazione come presa in carico dell’ad-veniente.
Immaginazione: nel senso evangelico, e scientifico, di ciò che risulta per l’umano più difficile in assoluto immaginare. Cosa è per tutti più duro da immaginare?
Esprimendoci col linguaggio proprio delle neuroscienze: qual è la sinapsi più ardua da sciogliere?
Col linguaggio biblico: qual è l’idolo che è più complicato prima riconoscere e poi lasciar andare?
La cosa più difficile per un essere umano da immaginare è: avere torto.
Da alcuni anni è invece assai più facile patologizzare i bambini, piuttosto che lasciare andare la sicurezza dell' "ho capito tutto. il problema sei tu".
E... ops, eccole le schede e schedine, la brama di risposte a scelta multipla oppure con una-sola-crocetta-mi-raccomando, pure al catechismo-così-facciamo-bene-il-Bene, illusioni di tecnica come risoluzione.
E se la patologia più radicale fosse nella sclerotizzazione, nella semplificazione di chi si fa funzionario e dimentica che educare è convocazione continua al ri-apprendimento?
Ogni bambino è sempre l'irruzione dell'assoluto sempre nuovo – l’arcano – e per questo insegnare chiede l’essere disposti ad entrare nel mistero del non-so: ogni giorno rinunciare a quella presunzione che interroga senza interrogarsi.
Un sì durissimo da pronunciare, una vocazione senza merletti, una continua chiamata al farsi scorticare.
Così, qui immaginazione è competenza di chi sa guardare, non soltanto inquadrare: è la posizione del pellegrino, del viandante, del cercatore, di colui che si sente mosso, non soltanto spaventato e terrificato, da quello che ancora non sa.
Immaginazione è, insieme a rigore, vettore che attraversa vita e visione educativa di don Tonino: e non solo perché senza sosta si sbracciava, in tanti sensi, per contagiare – non inculcare – a tutti la passione per il vivente.
Ma anche perché se ancora oggi leggi un suo testo o ascolti una sua omelia, non puoi restare fermo, immobile, composto: ti muove, ti spinge, ti “rompe”: ti contagia la sua spinta immaginativa ad una sequela fatta di verbi senza presunzioni, presupposizioni, violenze.
Un esercizio costante alla messa in gioco: una pratica sacra, questa postura dell’educatore che tutto celebra perché, affascinato anche dall’avere torto, non soltanto ragione e ragioni, incontra l’arcano, abita la domanda, si apre al mistero.
“Forse la grandezza del mio maestro era tutta qui. In questa sua capacità di comunicare messaggi profondi più con il silenzio che con le parole, di lavorare su domande legittime, di non tirare mai conclusioni per tutti, di costruire occasioni di crescita reciproca, di accettare le differenze come un dono, di ritenere i suoi ragazzi titolari di una forte capacità progettuale, di dare più peso alla sfera relazionale che a quella dell'istruzione da trasmetterci, di interpretare la scuola come un gioco, anzi come una festa in cui il primo a divertirsi era lui.”
Sta scritto nei libri di neuroscienze, sta scritto nei discorsi, nelle lettere e nelle omelie di don Tonino, ma soprattutto, proprio così sta scritto nel Vangelo e nell’Antico Testamento: che educa solo chi sa morire (lasciando andare la terra del suo conosciuto) e morendo resuscitare. Cioè?
Dis-apprendendo, senza sosta, per ogni arcano ad-veniente, fuori e dentro, re-imparare.