Mosaico di pace/febbraio 2024, Dossier: L'identità nel mondo liquido

Processi evolutivi, cambiamenti culturali e generazionali, identità e genere e ricerca di sé: quali domande si aprono oggi? Intervista a Daniela Notarfonso.
Intervista a Daniela Notarfonso a cura di Andrea Lariccia

Si parla sempre più oggi di soggettività e di identità fluide. Per chiarire cosa c’è alla base di questa cultura emergente e quali risvolti pedagogici sono ad essa connessi abbiamo deciso di rivolgerci a Daniela Notarfonso, medico e bioeticista, direttrice del Centro Famiglia e Vita – Consultorio familiare della Diocesi di Albano.

Daniela, innanzitutto cosa significano queste espressioni - soggettività e identità fluide – e quali sono gli elementi culturali e/o sociali che hanno contribuito alla nascita di questo tipo di identità?
Abbiamo assistito negli ultimi 15/20 anni a un grosso dibattito, accompagnato da un sostanziale cambiamento del significato che si dà al sesso e all’identità sessuale nel mondo giovanile. A partire dagli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso si è verificata una vera e propria destrutturazione di questi concetti. L’introduzione dei contraccettivi chimici, che ha consentito alla donna di scindere la procreazione dall’attività sessuale, ha portato alcune grandi conseguenze. Il sesso si è completamente svincolato dall’aspetto generativo. Di pari passo con una conoscenza sempre più sviluppata dei meccanismi di tipo biologico, genetico ed endocrinologico, si è avuta una sorta di oggettivazione della vita sessuale: dal considerarla un tabù, non solo è diventata un argomento narrabile, ma ha cominciato ad esser vissuta come un’esperienza priva di limiti attraverso la quale soddisfare i propri istinti. Gli studi, che nel frattempo sono stati condotti sulle convinzioni e le abitudini sessuali della gente, hanno “normalizzato” i diversi orientamenti sessuali aprendo la strada ad una graduale accettazione delle diversità di cui è costellato il panorama umano. La nascita dei cosiddetti gender studies negli Stati Uniti, sorti da un gruppo di femministe radicali, mise in evidenza la relazione fra sessi come luogo di potere e, nel tentativo di ridurre la prevaricazione di un sesso sull’altro, cominciò un processo di annullamento degli stereotipi che caratterizzavano quegli anni. In questa destrutturazione e accogliendo le istanze di alcune minoranze da cui si sarebbe sviluppato il “cosiddetto mondo LGBTQ+” si introdusse la separazione tra sesso biologico (assegnato automaticamente alla nascita) e genere (come dimensione psicologica ed esistenziale percepita dal soggetto), che permise di dare voce a chi fino a quel momento non l’aveva mai avuta nella società. Queste considerazioni, inizialmente appartenenti a un ristretto gruppo, si sono diffuse sempre di più e oggi sono diventate patrimonio comune. Se fino a ieri si parlava soltanto di orientamento sessuale, ora invece si sottolinea sempre più l’esigenza di una percezione armonica della propria identità di genere, la quale, qualora non fosse raggiunta, sarebbe da ricercare con ogni sforzo. Il percorso di autodeterminazione, sempre più centrale nella vita del soggetto, è arrivato così a toccare quegli aspetti più intimi della persona, come quelli che riguardano l’identità sessuale. La scienza ha preso gradualmente consapevolezza del processo evolutivo che, attraverso diversi fattori – cromosomico, genetico, neuro endocrinologico, psicologico e relazionale – conducono un soggetto, alla nascita biologicamente maschio o femmina, a intraprendere un percorso di trasformazione di sé, giustificato da una ricerca armonica della propria identità di genere. L’impulso scientifico ha generato una produzione di tipo culturale sicuramente importante anche se, in alcuni casi, si possono intravedere dei rischi ideologici. Oggi le persone affrontano con maggior coraggio la questione e cominciano a parlare della propria esperienza senza remore.

Quanto influisce questa cultura nel processo di significazione di sé che avviene nell’età evolutiva? Come è cambiata rispetto al passato la percezione di sé tipica di questa età?
L’espressione “significazione di sé” è molto bella perché introduce l’aspetto esistenziale e di conoscenza di sé e delle proprie peculiarità nel percorso di ricerca che il soggetto deve compiere per giungere ad una realizzazione personale che lo aiuti a essere in armonia con sé e con gli altri. È innegabile riconoscere alla cultura di cui finora ho parlato, figlia anche della rivoluzione dei costumi del ‘68, il merito di aver combattuto gli stereotipi legati al genere. Anche se a quell’epoca ero una bambina, ho vissuto di riflesso le battaglie tipiche di quel periodo, dalla percezione negativa che avevo dell’imposizione della gonna fino alla possibilità (abbastanza nuova per una donna) che mi è stata offerta di poter studiare. Laureandomi in medicina, ho sperimentato un’emancipazione rispetto ai miei familiari, che non avevano mai raggiunto un grado così alto di istruzione. La mia famiglia era contraddistinta da una chiara suddivisione dei ruoli, tipica di quegli anni, ma ha favorito e accompagnato la crescita culturale e professionale di noi figlie con il conseguente abbattimento di molti stereotipi, allora considerati intoccabili. A distanza di anni sicuramente le cose sono cambiate, ma nel tentativo di modificare le relazioni tra i generi, riducendo certe dinamiche di potere, si sono destrutturate sempre più le differenze legate al sesso tanto che oggi le categorie maschio/femmina si sono svuotate e, come afferma la filosofa Susy Zanardo, private di significato. La conseguenza drammatica è che oggi assistiamo ad una preoccupante scomparsa di idee serie su quale sia la specificità irrinunciabile del maschile e del femminile. Questo pone seri interrogativi circa il processo di identificazione che un giovane dovrebbe vivere nella sua maturazione affettivo sessuale. In mancanza di quel che considero un orizzonte di riferimento, sulla base di che cosa posso orientare la mia percezione di essere uomo o donna? Sembra quasi che tutto si risolva all’interno dell’esperienza momentanea, vissuta cioè sulla base di ciò che il soggetto percepisce nell’istante, a meno che non abbia la fortuna di avere figure adulte di riferimento, che vivono, cioè, la propria sessualità in modo sereno ed armonico. Il che purtroppo non sempre si verifica. Sembra che sia all’opera una vera destrutturazione di tutto quel che riguarda la vita affettiva, soprattutto nella sua dimensione progettuale, con la conseguenza di lasciare il soggetto alla ricerca solitaria della propria identità, affidandosi quasi esclusivamente ad una molteplicità di esperienze di esercizio sessuale. Tale mancanza di progettualità, che rende molte volte il futuro quasi impossibile da immaginare, si riflette ovviamente anche sul modo in cui si attua nel soggetto il processo di significazione di sé. Oltre al semplice sentire il proprio corpo come qualcosa che appartiene al soggetto, sappiamo bene che questo rimanda necessariamente alla relazione che si ha con gli altri, inclusa l’esperienza dell’amare e del sentirsi amati. In assenza di questo vissuto è difficile poter dare un significato alla propria sessualità.

Nella tua attività specialistica quante volte ti è capitato di accompagnare adolescenti in ricerca della propria identità di genere o all’interno di un percorso di transizione? Quali sono le difficoltà più grandi che i ragazzi incontrano in questo percorso?
Tutto è legato ad una semplice richiesta di essere “visti”, accettati e guidati in una ricerca di relazioni in cui sia possibile amare ed essere amati. E purtroppo, non sempre le famiglie oggi sono in grado di cogliere queste richieste. Nei vissuti di questi ragazzi esiste un livello legato alla cosiddetta attività sessuale, quello più istintivo, fortemente banalizzato. I ragazzi che si rivolgono a noi riportano a volte esperienze che vanno esattamente in questa direzione. Alcune ragazze ci raccontano perfino di veri e propri abusi subiti nei primi rapporti sessuali. Naturalmente tutto questo influisce nel processo di ricerca di sé. Il Centro Famiglia e Vita ha offerto spesso aiuto ad adolescenti che avevano molto più bisogno di lavorare sulla propria autostima o di gestire un rapporto problematico coi genitori piuttosto che di essere accompagnati nella ricerca della propria identità di genere, molto spesso data già per acquisita (la condivisione tra pari e l’accesso al web influisce molto su questo). Nella relazione di aiuto ovviamente è fondamentale che lo psicoterapeuta accolga la richiesta del paziente di essere riconosciuto anche nella sua identità legata al genere (per esempio chiamandolo col nome che lui/lei ha scelto per sé, indipendentemente dal suo sesso di appartenenza, vedi carriera alias), al fine di creare un rapporto di autentica accoglienza e riconoscimento. Ciò crea un contesto sereno in cui il soggetto può conoscersi meglio e crescere in modo armonico. Un’esperienza importante è stata quella in cui abbiamo seguito una ragazza trans nella fase finale della transizione sessuale: si trattava di un ragazzo che all’età di 17 anni cominciò a non sentirsi più in equilibrio col sesso biologico di appartenenza (disforia di genere) intraprendendo un percorso di transizione di genere. A seguito di una terapia ormonale, decise di affrontare l’intervento chirurgico in vista della modificazione dei propri connotati sessuali. L’ASL le offrì in tutto otto incontri di sostegno psicologico, per questo cercò da noi un percorso più lungo. Grazie a lei, prendemmo coscienza di quanto sia complesso e faticoso portare avanti un percorso di transizione, soprattutto a causa dei pregiudizi radicati nella società che, in quel caso, presero la forma di veri e propri episodi di aggressione verbale e fisica. In quell’occasione ci rendemmo altresì conto, grazie al metodo che abitualmente usiamo a partire dal genogramma familiare, di come questa ragazza, nata biologicamente maschio, fosse cresciuta in un contesto familiare nel quale la componente maschile era del tutto impresentabile, compromettendo di conseguenza quel necessario processo di rispecchiamento con le figure adulte, tipico dell’età evolutiva.

Molti adolescenti, nel loro processo di individuazione, chiedono di essere riconosciuti, sostenuti e possibilmente integrati nei contesti di vita in cui vivono. Secondo te, la società, soprattutto attraverso le sue istituzioni educative, risulta all’altezza delle loro domande?
È sicuramente una sfida e non si può generalizzare, di certo ogni persona ha diritto ad essere rispettata. La carriera alias può essere un’opportunità di aiuto in presenza di una richiesta da parte dell’adolescente che, all’età di 15-16 anni, intende mostrarsi per l’identità che avverte più vicina al suo sentire. Anche la Chiesa sta cominciando finalmente a interrogarsi su questi temi. Ci sono alcune esperienze che denotano questa maggiore sensibilità, anche se sono purtroppo ancora rare. Per esempio, gli scout stanno facendo un lavoro di discernimento sul valore della diversità e sui temi legati all’inclusione e si stanno sempre più interrogando sulla modalità di accoglienza di chi incarna questa diversità. Il movimento dei Focolari ha intrapreso percorsi con i genitori di ragazzi che vivono queste realtà e propone, ormai da alcuni anni, il percorso di educazione affettivo sessuale per bambini, adolescenti e giovani “Up to me” per contribuire a una maturazione integrale. Papa Francesco non smette di indicarci l’esigenza di un cambio di paradigma, basato sul presupposto che la realtà è sempre più grande dell’idea. Nella nostra diocesi ad esempio, precisamente a Torvaianica, durante il periodo del primo lockdown imposto a causa della pandemia, è avvenuto un episodio molto interessante: il parroco ha ospitato nella mensa Caritas parrocchiale un gruppo di donne trans (perlopiù immigrate) che abitualmente si prostituivano e che, proprio a causa delle restrizioni, all’improvviso si sono ritrovate prive di sostentamento. A partire da questo esempio concreto di solidarietà, in grado di riconoscere nell’altro i suoi bisogni più urgenti, al di là di qualsiasi valutazione morale, è nato un rapporto continuativo tra loro e il parroco, che ha favorito una certa apertura anche nella comunità, inizialmente un po’ restia. Bisogna ricordare che, prima di ogni teoria, ciò che conta è il rapporto personale. Durante la scorsa Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, mi è piaciuta molto la frase che il papa ha chiesto ai giovani di ripetere più volte: “La Chiesa è aperta a tutti, la Chiesa accoglie tutti”. Se soltanto osassimo percorrere strade di questo genere, avremmo il coraggio di restare nel guado della Storia in cui ci troviamo, cercando ognuno di fare la propria parte.

 

 

 


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