Qualifica Autore: giornalista, vicedirettrice de Il manifesto, scrittrice

Mosaiconline/Dossier marzo 2024

L’attacco di Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre e la successiva reazione di Tel Aviv contro i Territori occupati palestinesi hanno provocato una frattura: rappresentano un momento di passaggio, un punto di non ritorno. Solo fra molto tempo vedremo che effetti ha prodotto quella frattura all'interno della società israeliana e della sua politica. L’attacco di Hamas è stato uno choc individuale e collettivo che supera di molto quello della guerra dello Yom Kippur, nel 1973.

Il 7 ottobre è giunto all'interno di una lunga fase di rimozione collettiva della questione palestinese. Gli israeliani avevano completamente dimenticato, rimosso o negato l'esistenza di un altro popolo, la persistenza dell’occupazione militare e il proprio ruolo, diretto o indiretto, di “carcerieri” di un'altra popolazione. Lo si percepiva, lo si vedeva sia all'interno della società israeliana, della sua opinione pubblica, sia all'interno degli stessi vertici politici. Quella che è stata definita la “dottrina Netanyahu” da svariati giornalisti e analisti israeliani, è stata sempre quella di “gestione dell’occupazione”, una strategia che non presupponeva quindi una soluzione in un senso o nell’altro dell’occupazione, ma un semplice prosieguo con gli stessi mezzi, più o meno feroci, più o meno falsamente palliativi, di una realtà strutturale. Un esempio è stata la cosiddetta strategia della pax economica, che ha visto tra l’altro un’apertura maggiore del mercato del lavoro israeliano, rispetto al passato, ai lavoratori palestinesi sia di Gaza che della Cisgiordania.
Ha prevalso l'idea che palliativi economici, una falsa percezione di benessere economico, potessero affievolire le spinte e le ambizioni palestinesi all’autodeterminazione. Una strategia a cui si è affiancato l’altro elemento della dottrina Netanyahu: il rafforzamento della leadership di Hamas a scapito del più laico e progressista fronte palestinese. Sono pubbliche le varie dichiarazioni del premier israeliano che negli anni ha rivendicato la necessità di un puntellamento di Hamas all’interno dello spettro politico palestinese come strumento di annichilimento della leadership laica e progressista, una necessità che il suo partito, il Likud, porta avanti quasi ininterrottamente dalla firma degli accordi di Oslo nel 1993.
Il 7 ottobre è dunque arrivato in un momento di palese negazione e strumentale rimozione della questione palestinese da parte della politica e della società israeliana. Ed è arrivato in un periodo di crisi politica interna e di scontro aperto tra il sionismo più liberale e quello oggi maggioritario, ovvero un sionismo di matrice nazionalistica, religiosa e, come l’ha definita lo storico israeliano Ilan Pappe, “messianica”. Una forma di sionismo che va al di là di quella che è stata l’ideologia delle origini, che rappresenta una sua evoluzione radicale e religiosa, forse inevitabile.
Le proteste che sono scoppiate a gennaio 2023 contro la riforma della giustizia voluta dal governo di ultradestra sono terminate solo con il 7 ottobre. Hanno visto scendere in piazza ogni settimana centinaia di migliaia, in alcuni casi milioni di persone. La partecipazione è stata molto composita, in quelle piazze c'era veramente di tutto: la sinistra liberale, la sinistra sionista, elettori del Likud più moderati, la destra più liberale; esponenti di classi sociali diverse, studenti, soldati, dipendenti delle startup, professori universitari. Era una piazza molto composita dal punto di vista sia politico che sociale ma che era caratterizzata da una spinta conservativa e conservatrice. Quelle piazze non hanno mai messo in discussione il sistema su cui Israele è stato fondato, un colonialismo d’insediamento che si è fatto apartheid, ma semplicemente hanno tentato di conservare il sistema pre-ultradestra, cioè il sistema nel quale basterebbe garantire l'esistenza di una Corte Suprema indipendente per salvaguardare l'idea che una democrazia israeliana esista davvero. Basterebbe cioè garantire la separazione di poteri e l’autorità della magistratura nel limitare o bilanciare quella dell’esecutivo per non mettere in discussione l’equazione tra la natura ebraica dello Stato d'Israele e la sua presunta natura democratica. Quelle piazze non hanno mai messo in discussione lo status quo, anzi, lo hanno difeso.
Eppure, fin dalla sua nascita, il sistema giudiziario israeliano e la stessa la Corte Suprema sono stati colonna portante del progetto di colonialismo d’insediamento. Hanno difeso tutte le decisioni che la politica ha preso. Con la sua fondazione nel 1948, Israele ha avuto l’immediato bisogno di creare una struttura legislativa e istituzionale, di normare se stesso. Tutte le leggi che ha promosso sono state volte alla creazione di uno Stato solo ebraico, dalla negazione del diritto al ritorno per i profughi palestinesi alle norme che hanno permesso la confisca “legale” di tutti i beni e le proprietà pubbliche e private palestinesi. Quell’impianto normativo non è mai stato messo in discussione dalla Corte Suprema né dalle corti di livello inferiore, che anzi lo hanno avallato e tutelato permettendo il radicamento di un sistema di segregazione e diseguaglianza strutturali.
Il movimento di protesta non ha mai incarnato un'effettiva spinta verso un cambiamento, al contrario è stato caratterizzato dalla necessità di mantenere la situazione così com'è, apparentemente minacciata da una destra che ha superato qualsiasi tipo di limite e di decenza. Ed è lì che sta l’aspetto più interessante che definirà gli anni a venire. Ciò che è palese ai palestinesi sin dal ’48 ed è stato palese per i tanti che si sono avvicinati alla questione palestinese negli anni, sta diventando oggi palese al mondo dopo il 7 ottobre: non è possibile non vedere la contraddizione insita nelle due nature, uno stato democratico e uno stato solo ebraico; è necessaria cioè una soluzione politica che riconosca il diritto del popolo palestinese all’esistenza sulle proprie terre.


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