Mosaiconline/aprile 2024, Se posso dire la mia
Rientrato dall’Amazzonia brasiliana, alla fine di dicembre, dopo un semestre passato nell’archidiocesi di Santarem, situata nello stato del Parà sulla riva sinistra dell’affluente del rio delle Amazzoni, il fiume Tapajos, non potevo non raccontare quello che in questo momento accade nella frontiera della missione nel crocevia di popoli, etnie e culture indigene, in quello che viene definito uno dei biomi della terra.
Anche quest’anno ho lavorato nella formazione e nella pastorale risiedendo con il vescovo nel seminario arcidiocesano di Santarem. L’umanità tutta è entrata in un tempo di trasformazioni rapide e radicali ed è difficile stare dietro al brulicare di tutti gli eventi che coinvolgono in prima persona quanti vogliono stare dentro la Storia senza lasciarsene travolgere. Noi missionari questo lo sappiamo bene perché abbiamo un piede nel Nord del mondo, dove assistiamo molto spesso allo spettacolo di società divenute ormai anziane, ciniche e senza speranza, e un altro nel Sud del mondo, dove la maggior parte della popolazione è prevalentemente giovane, entusiasta ma senza prospettive lavorative per l’atavica ingiustizia strutturale che affligge i tre quarti dell’umanità. Le molteplici crisi che stiamo vivendo – quella della pace, della Casa comune e dei migranti – sono tutte connesse tra loro, in quanto il nostro sguardo non è frammentato e prevenuto, ma guarda la complessità dei fenomeni e si lascia provocare dalla realtà, discernendola alla luce della Parola e nella forza dello Spirito. Monsignor Romero – san Romero – diceva che era stato convertito dal popolo semplice e credente, dai contadini schiacciati sotto il peso dell’oppressione di una dittatura crudele e sosteneva che, come cristiani, siamo chiamati “a difendere il minimo che è, nello stesso tempo, il massimo, cioè la vita in tutte le sue fasi, quella dei piccoli e dei poveri in particolare”. Lo diceva con una frase di san Ireneo di Lione: “La gloria di Dio è l’uomo che ha vita” e che lui trasformava in “La gloria di Dio è il povero che vive”, in un contesto, allora come oggi, dove la vita dei meno favoriti è minacciata da un sistema sociopolitico che non si riconosce la dignità della persona e che produce scarti, per per usare le parole di papa Francesco. La stessa riflessione sulla fede in America Latina viene definita un “intelletto dell’amore, atto della misericordia” perché il piede del teologo deve partire sempre dalla sofferenza dell’innocente, deve toccare le ferite di milioni di esseri umani considerati “scarti dell’umanità” ed esclusi da una globalizzazione che non ha realizzato il sogno di un’umanità interdipendente, ma, al contrario, a continuato a presentare un modello socioeconomico tecnocratico estrattivista/ predatore che, come afferma papa Francesco nella Laudato si, “uccide letteralmente!”.
Grido della terra, grido dei poveri, non è uno slogan sentimentale che possiamo urlare standocene nelle nostre “confort zones” o farne un tema di studio sociologico in una prestigiosa università dell’Europa o degli Stati Uniti, ma la cruda realtà di ciò che sta accadendo adesso in America Latina, nell’Africa subsahariana e nei Paesi del Sudest asiatico e noi italiani lo sappiamo bene, con il fenomeno delle migrazioni climatiche nel Mediterraneo che non è più “mare nostrum, ma mare mortuum”.
Come missionari sappiamo bene – perché ne facciamo esperienza – che non c’è annuncio credibile se non ci sporchiamo le mani nel contribuire a smascherare questo sistema di morte inesorabile dei più poveri e meno protetti in stati di diritto solo formalmente democratici e a cercare le cause strutturali dell’ingiustizia. Questo l’ho imparato dal vescovo Helder Camara che spesso diceva: “Quando assisto i poveri tutti mi chiamano santo, quando cerco le cause di questa povertà tutti mi chiamano comunista!”. Per fortuna e provvidenza di Dio ho avuto tra i miei maestri don Tonino Bello, il vescovo Luigi Bettazzi, il teologo napoletano monsignor Bruno Forte che hanno saputo educarmi a un sentire con la Chiesa dalla parte dei più svantaggiati!
A Santarem del Parà questo lo so bene perché, per un semestre all’anno, il vescovo locale, monsignor Irineo Roman, religioso dei padri catechisti di san Giuseppe, mi ha chiamato a svolgere un servizio di formazione teologico pastorale ed “ ecoteologica” per i sacerdoti, i laici e i seminaristi e un’evangelizzazione della grande periferia urbana di questa città situata sulla riva del fiume Tapajos, affluente del grande Rio delle Amazzoni. Sono anche inserito nella Repam diocesana che è un’istituzione creata da papa Francesco e la CEAMA (Conferenza dei vescovi dell’Amazzonia) per l’attuazione del programma del Sinodo sull’Amazzonia, 2019) e l’esortazione apostolica Querida Amazonia di papa Francesco, sull’ ecologia integrale e dei popoli indigeni appartenenti a nove Paesi.
Se volete trovare uno spaccato di tutte le contraddizioni e opacità che ha creato l’ideologia neoliberista dovete venire qui! Ma anche se volete trovare una Chiesa sinodale, profetica, solidale, samaritana, giovane e martiriale potete farne esperienza qui. Nell’accompagnare la formazione dei laici delle “comunità di base evangelizzatrici”, formate per la maggior parte da persone semplici, senza lauree in teologia, ma animate dalla passione del Vangelo che viene letto, annunciato e vissuto nella realtà sociale del quartiere, imparo dai poveri l’arte della pazienza del seminatore, la difficile attesa di un seme dentro una terra dove si muore prematuramente giovani e dove le multinazionali e i latifondisti fanno affari a 4 zero rubando, rapinando, uccidendo e distruggendo il bioma amazzonico e i suoi popoli originari, con la deforestazione e la piantagione di soja commerciale per i mercati esteri, soprattutto la Cina. In un’intervista esclusiva, concessa per e-mail all’Università Unisinos, Antonio dos Santos, professore dell’Università statale dell’Amazzonia (UEA), ha demistificato alcuni miti che girano sull’Amazzonia, rilevati anche dal teologo Leonardo Boff in quel libro che tanto ha influenzato l’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco, “Grido della terra, grido dei poveri”.
Secondo il suo parere i quattro miti sono:
1) L’Amazzonia è il polmone del mondo;
2) La foresta è a tal punto ricca che può produrre risorse economiche continue e per molti anni;
3) La foresta possiede ricchezze in prodotti di legname;
4) La foresta tropicale viene distrutta al ritmo di un campo di calcio al secondo.
Il ricercatore chiarisce anche la storia che circola in internet che l’Amazzonia non faccia parte della mappa geografica del Brasile e mette in discussione il compito delle ONGs presenti nella regione, dicendo che il principale avversario dell’Amazzonia è la mancanza di conoscenze cui è sottoposta questa regione. In realtà, dalle ricerche ultime delle università più accreditate in America Latina e dall’equivoco sulle parole del professor Harald Sioli che disse, in una Cconferenza, che l’Amazzonia potrebbe essere vista come il polmone in senso inverso, cioè capace di assorbire anidride carbonica più che produrre ossigeno.
Le sue parole furono decodificate in una forma sbagliata, producendo questo mito che si sente in giro soprattutto fuori dal Brasile. L’esuberanza della foresta porta molte persone a pensare nella ricchezza del suolo e quindi nella capacità di produrre risorse economiche a ciclo continuo e per molti anni.
Secondo il ricercatore la percezione imprecisa che la foresta sarebbe ricca di prodotti in legname sarebbe sfatata dal fatto che, per la verità, quello che si può estrarre del legno per interesse economico è di sei metri cubici per ettaro. D’altro canto, esistono molte verità sulla foresta che non mostrano la capacità di suscitare la coscienza critica nazionale, per esempio:
1) La foresta amazzonica possiede la maggiore biodiversità del pianeta.
2) Possiede più di cinquemila specie di uso medicinale che da quasi trent’anni cadono sotto i tentacoli delle industrie farmaceutiche del Nord del mondo attraverso quel fenomeno che si chiama biopirateria.
3) L’Amazzonia possiede una banca genetica con più di due milioni di microorganismi.
4) Un potenziale minerario ancora indeterminato nella sua totalita’ ma ben sfruttato dai garimpeiros con l’estrazione dell’oro a celo aperto.
5) Un potenziale idrico capace di generare 100 gigawatt di energia elettrica. Questo dato ho potuto comprovarlo ufficialmente anche dalla testimonianza e dal lavoro di padre Dario Bossi, superiore dei comboniani in Brasile, che può essere considerato un esperto di questo settore secondo gli studi delle Università dell’Amazzonia più accreditate in America Latina.
Sono passati 5 anni dal Sinodo dell’Amazzonia e quattro dalla redazione dell’esortazione “Querida Amazonia” e la Casa comune, considerando come sia la vita umana che la natura siano profondamente minacciate dall’azione devastatrice dell’attuale modello di sviluppo.
La concentrazione di ricchezze e di risorse naturali ad opera di megaprogetti, espellendo popoli, comunità ed etnie dai loro territori, così come l’introduzione di innovazioni tecnologiche, stanno generando disoccupazione strutturale e creano migliaia di esclusi dal processo produttivo e dalla partecipazione al reddito pro capite. L’attuale modello di sviluppo produce uno sfruttamento incontrollato della natura con deforestazione senza controllo, utilizzazione di agrotossici e senza limiti etici per il bene comune e sta causando anche l’estinzione di molte specie, la riduzione drastica delle foreste, l’aumento della temperatura del pianeta, la desertificazione di ampi territori di foresta che si trasformano in “cerrados” e l’inurbamento incontrollato delle periferie che si trasformano in favelas fluviali ed enclave periferiche dell’esclusione e della povertà.
Le persone, le comunità, le etnie vogliono vivere, veder rispettati i loro diritti e cercano di essere incluse e riconosciute come soggetti di diritti. Questo movimento di esclusi porta con sé una tensione permanente con le forze che controllano il sistema di produzione e con lo Stato. La lotta per l’emancipazione e per il riconoscimento è fatta da comunità, popoli indigeni, caboclos e i loro leaders che prendono coscienza di questa situazione di esclusione, della necessità di garantire il diritto alla vita delle persone e della Casa comune, dedicano la loro vita al servizio della resistenza a questo progetto di morte e seminano i semi di un nuovo futuro.
La necessità di proteggere le comunità indigene, i popoli e i loro leaders è riconosciuta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite a partire dal nome “difensori e difensore dei diritti umani” ed è stata adottata dal sistema costituzionale del Brasile con il principio della garanzia della dignità umana al fine di pensare un patto di civilizzazione per il mondo, dove le persone e la natura possano continuare a vivere con il necessario. Mettersi in questo cammino, significa anche andare incontro a persecuzioni, minacce, torture, tentativi di omicidi e martirio dei difensori dei diritti umani. La loro azione, specialmente quando si tratta di questioni di terra e territorio in Brasile, comporta rischi e minacce in qualsiasi momento perché l’obiettivo della lotta si fonda nel “ Bem vivere” (anak kawsay in lingua andina), cioè la visione armonica e mite che hanno i popoli indigeni nel rapporto con la madre terra. Si sa che i popoli indigeni, i popoli tradizionali, i caboclos e quelli della foresta, abitano i loro territori, costruiscono spazi ancestrali e comprendono la vita nella comunità con gli altri esseri umani e la madre terra in una forma integrale. Come si può comprovare, le finalità di questi due modelli, da un lato lo sviluppo basato sul lucro ad ogni costo, e nell’altro, il modello fondato nel Bem Vivere, che si differenzia totalmente dal nostro “benessere”, nelle garanzie del diritto alla vita delle persone e della natura, sono contradditorie e, con l’assenza dello Stato per mediare i conflitti, il risultato sono conflitti, minacce, omicidi e deturpamenti della natura. Vorrei ricordare, a tal riguardo, Chico Mendes, suor Dorothy Stang (di cui in questi giorni ricorre il 19 anniversario del martirio), Dezinho, Frei Henri des Rosiers, padre Josimo, suor Cleusa, padre Ezechiele Ramin, Dema, Dilma de Baiao, dona Maria Joel, padre Fausto Tentorio (del Pime nelle Filippine) e molti attivisti in tutta l’America Latina che hanno subito minacce per la lotta intrapresa in difesa dell’Amazzonia e dei suoi popoli. Secondo i dati della CPT (Commissione Pastorale della Terra), dal 1985 al 2023 sono stati assassinati 2020 persone nella difesa della terra e solo 113 aggressori furono giudicati con un numero insignificante di condannati, 31 mandanti e 94 esecutori. La violenza sul campo è selettiva, come mostrano i dati del report CPT e colpisce direttamente i leaders e le guide dei movimenti popolari che difendono i diritti alla terra, al territorio, all’acqua, ecc.
È da notare ancora il processo di criminalizzazione dei movimenti sociali nati dal popolo dove il potere giudiziario molto spesso punisce i poveri che lottano per i diritti, ma è lento nel punire e giudicare gli omicidi e i mandanti di coloro che opprimono i poveri senza difese. La realtà brasiliana non è sconnessa dal contesto più ampio che è quello dell’America Latina. La necessità di proteggere le persone minacciate per la loro attività di difesa dell’Amazzonia ha spinto l’Onu, nel 1998, a diramare la “Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, gruppi o organi della società di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti”: una dichiarazione specifica che protegge chi “difende i diritti umani”.
Parlare di “ difensori e di difensore” esige di dare piena visibilità ai “sem terras”(senza terra) colpiti dalle dighe, indigeni, quilombolas (discendenti degli africani in Brasile, ribeirinhos - abitanti delle rive dei fiumi, estrattivisti, “geraseiros” - popoli tradizionali che vivono nel cerrado), rompitori di cocco, piccoli agricoltori, seringueiros - cercatori di seringa che è la gomma degli alberi, pescatori, coltivatori di fiori, e tutti gli attivisti sociali della terra.
Alcuni anni fa l'omicidio in Brasile, in piena foresta amazzonica, di una suora americana settantatreenne della congregazione delle Suore di Notre Dame di Namur, Dorothy Stang, ha attirato per qualche giorno l'attenzione del mondo. Non si è trattato di un altro esempio di intolleranza religiosa, così frequente nel mondo missionario, ma di qualcosa di ben più profondo che scosso la coscienza di tutti.
Chi era suor Dorothy? In Brasile, soprattutto in quelle regioni remote e inaccessibili all'estremo nord del Paese, era una presenza umile e solidale a fianco di contadini in cerca di terra. Era, per loro, presenza di Chiesa, quando nessuno era ancora arrivato; punto di riferimento per tante famiglie costantemente in balia dei grandi interessi economici che con arroganza si contendevano ogni metro di foresta. Era diventata una voce per richiamare che la persona va difesa sempre, che la terra e la foresta non vanno aggredite e devastate ma rispettate, protette e amate perché patrimonio di tutti. Contrastò interessi importanti; venne messa a tacere in una triste, piovigginosa mattina del febbraio 2005. L’avevo conosciuta qualche mese prima in un incontro di pastorale sociale tenutosi a Santarem per discutere sul tipo di coscientizzazione da portare avanti in presenza di una grande multinazionale della soja, la Cargil, presente sul territorio.
Perché è stata uccisa suor Dorothy? Poteva essere considerata una minaccia?
Una spiegazione per quest’assassinio l’ha fornita il procuratore Felicio Pontes, in occasione del World Forum for Theology and Liberation tenutosi nel 2009 a Belem, il capoluogo dello Stato di Parà. Suor Dorothy è stata uccisa per via dello scontro in atto tra la vita degli abitanti dell’Amazzonia e l’economia dell’industria agricola. Nello Stato del Parà, che insieme a quello di Amazonas contiene la più vasta area di foresta amazzonica, è in corso una lotta violenta. Il Parà, secondo le affermazioni di Marina da Silva, ex ministro dell’Ambiente del Brasile, è la prima linea dalla “frontiera dei predatori” più di ogni altra parte dell’Amazzonia. I nemici di questi “predatori” altri non sono che le popolazioni della foresta, che vivono perfettamente integrate nella natura, sulle rive degli innumerevoli fiumi, accanto a torrenti e laghetti. Gli abitanti piantano le loro colture e costruiscono i villaggi nelle radure. Non si tratta, in questo caso, d’indigeni che mantengono il proprio linguaggio e le proprie tradizioni, ma nella maggior parte dei casi di persone di diverse etnie o più semplicemente di abitanti dell’Amazzonia. Non hanno diritti sulla terra dei loro antenati: eppure sono figli della terra. I predatori sono il business dell’agricoltura con progetti che riguardano l’esportazione di legname da costruzione, minerali, carne e soja. I proprietari terrieri hanno il potere di segare gli alberi e avviare monocolture e allevamenti su vaste zone. Nell’economia globalizzata esportare significa guadagnare di più e accumulare ricchezze. L’industria agricola (agrobusiness della soja) è, per il Brasile, la più grande fonte di esportazioni. Questo però sta accadendo a spese dell’ambiente e delle popolazioni che vivono nelle vaste regioni all’interno del Paese.
Suor Dorothy non è stata l’unica vittima dello scontro tra questi due opposti gruppi. In un’altra area della foresta è stato ucciso il sindacalista Chico Mendes. La stessa sorte è stata riservata al giovane sacerdote Josimo Tavares, responsabile della Commissione pastorale, e a suor Adelaide Molinari. Ma sono centinaia i rappresentanti di queste popolazioni uccisi. Una lotta continua pervade la popolazione. Nelle aree dove lo Stato non è ancora riuscito a imporre la propria presenza e dove non esiste una politica in questioni di sicurezza, ma un alto tasso di corruzione istituzionale, le persone sono minacciate e costrette a lasciare le proprie case. Latifondisti violenti s’impossessano di terreni senza averne nessun diritto e ampliano con la forza i confini delle proprietà attraverso il dispositivo della “grilagem” (contraffazione di documenti di proprietà), così che può accadere che lo stesso appezzamento di terreno abbia tre o più proprietari. Da un’altra parte, sono gli stessi proprietari terrieri ad attrarre lavoratori dalle diverse regioni del Brasile. In questo modo, si stanno incrementando anche nuove forme di schiavismo. La morte di Dorothy, e prima ancora la sua vita missionaria e le sue brillanti iniziative, vanno analizzate e comprese all’interno di questo scenario difficile e violento.
Dorothy veniva dal Nordest del Brasile, dove aveva lavorato insieme alle consorelle della congregazione di Notre Dame de Namur in mezzo ai poveri del Paese. Lei per i brasiliani era un po’ come una Madre Teresa di Calcutta. È diventata cittadina brasiliana per dedicarsi in modo più intenso alle persone. Vedendo però che le popolazioni dell’area del Nordest dello stato del Maranhão stavano migrando verso le regioni amazzoniche del Parà, in accordo e insieme alle consorelle decise di trasferirsi lì per seguire gli emigranti. Venne uccisa in modo crudele ma con la Bibbia sulla testa che portava sempre con sé come arma non violenta.
Non esiste solo il martirio dell’“odium fidei”, ma anche quello per la giustizia, come san Romero di America Latina! La missione in Amazzonia, dunque, ha il sapore di un Vangelo annunciato, testimoniato e vissuto non con la “testa sotto la sabbia” come fanno gli struzzi.
Nella formazione integrale che diamo ai leaders laici, preti e seminaristi locali, cerchiamo di tenere un piede nella Parola e un altro nella situazione storica e geografica marcata dall’ingiustizia e dalla mancanza di prospettive per i più giovani. Come si legge nell’esortazione Evangelii gaudium (2013), il documento di Aparecida (2007), il Sinodo mondiale e il documento di Santarem (1972-2022) che proprio a Santarem è stato promulgato, “si tratta di rilanciare un modello di ‘Chiesa in uscita’ verso le periferie geografiche ed esistenziali”, portare avanti un’evangelizzazione liberatrice, inculturata e, adesso, sinodale, dove tutto il Popolo di Dio è soggetto attivo e corresponsabile dell’evangelizzazione e dove si forma a una ministerialità diffusa, con le donne e i giovani protagoniste in un modello di Chiesa della “piramide rovesciata e poliedrica” (papa Francesco) che è antitesi della patologia ancora presente nella Chiesa che si chiama clericalismo. I postumi del bolsonarismo si sentono ancora nell’aria, purtroppo, perché dopo gli eventi tragici del gennaio 2023 (assalto alle istituzioni democratiche del Brasile) alcuni gruppi sociali e evangelici neo-pentecostali si sono coalizzati contro il governo dell’attuale presidente Lula, per arginare ogni processo democratico attraverso un tipo di predicazione fondamentalista basata nell’ idolatrica teologia della prosperità che è l’esatto contrario del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa, ispirandosi nelle dittature militari iperliberiste e porofobiche (paura ed esclusione dei poveri e uccisione dei leaders sociali per i diritti umani e sociali). In altre parole, il “bolsonarismo” non è mai sparito e naviga sotto la cenere.
Le Chiesa dell’Amazzonia, fedeli al Vangelo della Vita, in comunione con papa Francesco e tutta la Chiesa universale, vogliono formare comunità autenticamente sinodali, partecipative, missionarie e con “volto amazzonico”, sperando un giorno di arrivare ad avere anche un rito amazzonico, come auspicato dal papa Francesco in Querida Amazonia e dai vescovi nel documento finale del Sinodo dell’Amazzonia.
In questa Chiesa imparo a stare al passo dei poveri che, differentemente dal cinismo e apatia che regna in Europa e nel Nord del mondo, sono pieni di speranza in un altro mondo possibile come Dio lo ha sognato. Per questo imparo da loro, mi lascio evangelizzare, cerco di ascoltare più che insegnare e, allo stesso tempo, mi sforzo di offrire quegli strumenti intellettuali che consentono di smascherare la realtà ambivalente di esclusione per ridare loro la parola negata per tanto tempo (si tratta di applicare l’insegnamento di don Milani in Amazzonia) con una teologia dialogale, interculturale, transculturale aperta alla molteplicità dei saperi in rete e profondamente kerigmatica, come bene ha indicato papa Francesco in Veritatis gaudium.
Imparare dai popoli originari significa proporre uno stile profondamente ecologico, rispettoso dell’agire comunitario e simbolico attraverso i riti, i simboli e i miti che, come bene ha detto il cardinale Felipe Arizmendi, responsabile della pastorale indigena in America latina, possono entrare a pieno titolo nella teologia della Chiesa smussandone quegli aspetti marcatamente logocentrici e rilanciando un tipo di teologia contestuale e più fedele ai popoli indigeni.
Il futuro della Chiesa e del mondo verrà dal Sud e dal modello ecologico dei popoli originari che con “o bem viver” rimpiazzano il modello capitalista estrattivista antropocenico che sta creando tanti problemi in tutto il mondo. Ce l’ha detto anche papa Francesco, sia nella Laudato sì che nella Laudate Deo, mettendoci in guardia e avvertendoci che non abbiamo più tempo. Dobbiamo agire fattivamente, cambiare i nostri stili di vita e costruire un’economia circolare e dei “beni comuni”. È bello vedere il vescovo e i preti decentrarsi nell’interno della foresta o nelle periferie o villas miserias; è confortante assistere all’ordinazione di più di 70 diaconi permanenti e all’istituzione del lettorato e accolitato delle animatrici di comunità. Scalda il cuore veder i giovani protagonisti di processi pastorali.
La notizia della non ratificazione del marco temporal del novembre scorso al Parlamento brasiliano (non sottrazione dei territori indigeni che rimangono demarcati!) fa ben sperare che qualcosa di nuovo sta avvenendo, che i popoli indigeni sono difesi dal biocidio e dall’etnocidio, che la politica in Brasile s’impegna ad arrestare l’inesorabile deforestazione.
Un neo rimane nel cuore della questione dei combustibili fossili la cui estinzione Lula non ha voluto ratificare nell’ultima COP 28 di Dubai insieme ad altri produttori di petrolio. Con la Repam locale e nazionale ci siamo impegnati a portare avanti una formazione capillare che coscientizzi la cittadinanza sull’urgenza dell’ecologia integrale che è autentica se parte da una coscienza purificata dal peccato dell’individualismo e contagiata da quelle che san Giovanni Paolo II chiamava, “strutture di peccato”.
Solo una Chiesa fedele al Vangelo e alla profezia del Vaticano II, solo una Chiesa povera e per i poveri, una Chiesa della pace disposta a pagare per le sue scelte, come ben ha detto monsignor Bettazzi, vescovo del Concilio, che ho avuto l’onore di conoscere in Pax Christi, potrà rappresentare quella “sentinella del mattino” (don Tonino Bello, venerabile) che annuncia albe nuove di un altro mondo possibile come Dio lo sogna. Il cammino è lungo e arduo, ma sono convinto che con la Grazia di Dio e la passione per il Regno il Vangelo va facendosi strada e la notte si trasforma in albe di nuovi mattini.