Chiese

Mosaico di pace maggio 2024

L’accoglienza è elemento costitutivo dell’essere umano. In dialogo con Guido Dotti.

Guido Dotti è un monaco di Bose, delegato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo della diocesi di Biella e segretario della relativa Commissione regionale Piemonte-Valle d’Aosta. Lo abbiamo incontrato per parlare di relazioni, di accoglienza. E di strade percorribili in un mondo sempre più chiuso nella difesa di confini e di interessi.

Fr. Guido, perché parlare di accoglienza in questo tempo? Non basterebbero forse le tante parole, i pro e i contro, i se e i ma che le diverse istituzioni, realtà religiose, semplici cittadini esprimono circa l’accoglienza? Perché però occorre parlarne?
Credo sia necessario perché l’accoglienza è una dimensione fondamentale dell’essere umano. Mutano le motivazioni contingenti che spingono le persone a desiderare di essere accolti ma non muta il dato che la nostra stessa avventura umana è iniziata grazie all’accoglienza della vita che ci è stata donata, trasmessa attraverso il sì dei nostri genitori ma anche grazie all’accoglienza di coloro che ci hanno accolti per primi e prima ancora che noi avessimo la capacità di accogliere gli altri.
Oggi tale dimensione presenta degli elementi che sono per certi versi nuovi solo per il fatto che siamo in contatto con un mondo molto più vasto di un tempo. L’accoglienza è comunque sempre stata una caratteristica degli esseri umani soprattutto laddove le condizioni rendono pericoloso e difficile il non essere accolti. In quei casi si è addirittura fatto dell’accoglienza un obbligo morale. Tale dinamica è espressa in tutte le tradizioni religiose e anche in tutte le tradizioni monastiche, compreso il monachesimo cristiano.

L’accoglienza dell’altro e dell’altra in una società in cui tutto sembra modernizzarsi e avanzare, più velocemente del prossimo che bussa, pone delle sfide non indifferenti. È sotto gli occhi di tutti il fatto che, da un lato, l’accoglienza, dei migranti ma non solo di essi, sia sempre più imperante – semplicemente da un punto di vista numerico il quale porta con sé altre conseguenze – e che, dall’altro, la persona che bussa alla nostra vita sia più un ingombro che un fratello o sorella, un altro che è simile a noi ed ha diritto di cittadinanza. Quali sfide pone l’accoglienza del prossimo in questa società?
Il primo approccio che abbiamo verso l’altro che ci viene incontro chiedendo aiuto è considerarlo come nemico. L’ospitalità è quella che trasforma l’hostis in hospes, cioè il nemico in ospite.
La stessa etimologia della parola hospes indica sia chi accoglie sia chi è accolto proprio perché, quando si accoglie ci si pone nelle condizioni di chi dona ospitalità e al contempo però si riceve un dono da chi si accoglie. Le sfide che oggi le persone migranti ci suscitano sono certamente impegnative e con un alto costo umano. Tuttavia, ritengo che queste stesse sfide possano divenire per noi delle opportunità, se le sappiamo cogliere, alla nostra identità che riteniamo essere sempre minacciata. In realtà, la nostra identità è costituita proprio dall’incontro con tutti e tutte coloro che incontriamo nella nostra vita. Noi siamo gli incontri che facciamo: non siamo gli stessi di quando siamo venuti al mondo, di quando non eravamo ancora usciti dal nostro paese o quartiere, o di quando non avevamo ancora incontrato amici, amiche e compagni di una vita. Tutto è da ricondurre e da vivere nella logica del dono. Noi invece non percepiamo l’altro che giunge da noi come un dono ma come una minaccia. Questo fa la differenza.

Se è vero per noi che siamo gli incontri che facciamo, è ancora più evidente soprattutto in Gesù di Nazareth vero uomo e vero Dio. L’inno per il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze 2015 era intitolato: “Cristo, maestro di umanità”. Questa è un’espressione che sintetizza in qualche modo la sapienza evangelica. Come e cosa possiamo imparare dall’Uomo Dio Gesù del suo stile di accoglienza dell’altro?
Credo che possiamo imparare faticosamente a guardare gli altri come li guardava Lui. La sua natura divino umana ha dato a Lui uno sguardo divino che si poggiava su coloro che incontrava. Lo sforzo di noi cristiani è vedere gli altri, oltre che noi stessi, proprio come Dio ci vede. È un mutamento di sguardo quello che ci è chiesto per ottenere anche un mutamento di comportamento nei confronti degli ospiti, degli stranieri, di coloro che si avvicinano a noi.
A questo proposito sorge spontaneo il ricordo di S. Martino di Tours che era un militare che, mentre svolgeva il suo turno di ronda di notte, incontra una persona. È chiaro che, soprattutto all’epoca, chi si incontrava di notte, non previamente identificato, era semplicemente il nemico, qualcuno di cui sospettare. S. Martino, invece, nel momento in cui gli veniva chiesto di essere vigilante e combattere il nemico, scopre in chi incontra un essere umano nel bisogno e non un nemico.
Successivamente Martino scoprirà che quel bisognoso era Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Soltanto un cambiamento di sguardo, dunque, può provocare un cambiamento di comprensione della situazione, dell’altro e un mutamento di comportamento verso il prossimo.

Lo stile di accoglienza proprio di Gesù di Nazareth deve essere assunto personalmente dai discepoli e dalle discepole delle differenti Chiese cristiane. In particolare, però, è impossibile pensare all’accoglienza cristiana non facendo riferimento allo stile d’accoglienza che afferisce tipicamente all’esperienza monastica. Nella memoria collettiva si sa infatti che i monasteri sono da sempre stati dei luoghi votati all’accoglienza. Perché parliamo di accoglienza proprio con un monaco? Cosa ha da dire l’esperienza monastica riguardo a questa dimensione? Cos’è allora l’accoglienza in tal senso? Quali chiavi di lettura possiamo trarre da questa plurisecolare esperienza che ancora oggi continua quale particolare forma di sequela del Signore?
La dimensione dell’accoglienza nelle situazioni di difficoltà è da sempre un proprium dell’essere umano: il monachesimo l’ha ereditato da una questa sapienza profondamente umana. I monasteri, sia quelli nel deserto ma anche altri, si sono sempre stati situati in posizioni in cui per il viandante e il pellegrino era pericoloso non essere accolto. I monasteri diventeranno anche dei porti franchi per coloro sui quali pendevano sentenze di morte o erano minacciati dal nemico.
Il monaco che si esercita a una vita contemplativa non può non accogliere in quanto essenza della vita contemplativa è a mio avviso assumere lo stesso sguardo di Dio sugli altri, sulla storia, sul mondo.
Tutte le regole monastiche ripetono quasi come un incessante ritornello che nell’ospite si incontra Cristo, che occorre onorare e accogliere Cristo nell’ospite che giunge al monastero, nel povero e nel malato. Il povero, il forestiero, il malato, la persona scartata ma anche il fratello e la sorella della comunità monastica è il primo luogo dove il Signore si manifesta, senza scartare chi non rientra in queste categorie. Lo stesso Papa Francesco, parlando dell’opzione preferenziale per i poveri, non ha chiesto di scartare chi non è povero ma di iniziare proprio da chi si trova in situazioni di bisogno. Si tratta chiaramente di priorità e non di esclusività.

La vostra è una vita ritmata dalla preghiera, dallo studio e dal lavoro. Una “vita sprecata”, una vita il cui senso non è possibile cogliere immediatamente e forse nemmeno serve saperlo in modo così evidente – e forse non serve nemmeno saperlo – eppure voi monaci siete raggiunti anche da coloro che non avendo casa perché costretti a lasciarla si rivolgono anche a voi. A Bose, poi, vivete l’accoglienza della differenza avendola posta al cuore della vostra vocazione ecumenica. Avete avuto esperienze di accoglienza di persone migranti, fragili? Cosa vi ha spinto a praticare questa forma di ospitalità? Questo cosa ha comportato per il vostro personale e comunitario sentire?
Sì, la nostra vita è un dono gratuito che ci è stato fatto dal Signore e noi con altrettanta gratuità tentiamo di rendere questo dono anche agli altri. Non vi è nessuna logica di profitto, tutt’al più siamo una presenza marginale anche nella Chiesa.
Al di là degli ospiti che giungono qui a Bose per partecipare alle diverse attività e agli incontri organizzati in comunità, come avviene da sempre, abbiamo avuto alcuni anni fa l’opportunità di accogliere delle persone anziane che hanno espresso il desiderio di vivere gli ultimi tempi della loro esistenza da noi.
Sono state persone che abbiamo accompagnato negli ultimi mesi o anni della loro vita fino alla morte.
Più recentemente, circa sette anni fa, abbiamo dato la disponibilità ad accogliere sei persone immigrate dall’Africa subsahariana che sono rimaste con noi per due anni.
Di questi, alcuni ora hanno trovato collocazione in altri luoghi in Italia o in Europa, riprendendo in mano la loro vita.
Altri due, provenienti dal Senegal e dal Mali, invece, sono rimasti con noi e collaborano nel lavoro agricolo. Abbiamo stipulato con loro un contratto di assunzione dando loro un alloggio in paese. Oltre a lavorare con noi, essi condividono il pranzo in monastero. In virtù di quest’opportunità stanno ora ipotizzando il ricongiungimento famigliare.
Per noi è stato normale accoglierli, in un tempo in cui le normative lo permettevano. Attualmente, purtroppo, leggi e normative attuali non soltanto impediscono l’accoglienza ma addirittura forse impediscono di posare lo sguardo su queste persone. Sappiamo, invece, che il primo contatto che abbiamo con l’altro è proprio lo sguardo e non a caso sappiamo pure che nei campi di sterminio nazisti era addirittura proibito ai deportati di guardare le guardie negli occhi.
Se invece guardassimo negli occhi l’altro si attiverebbero energie, creatività che non penseremmo di avere. Sì, guardare l’altro con gli occhi del Signore risveglia in noi una capacità di accoglienza mai sperimentata prima.

Viene in mente l’esempio di Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, che in una delle sue tante notti insonni scriveva a un parlamentare dicendo che non trovava pace perché delle famiglie erano sotto i ponti, senza un lavoro. Il monaco è come una sentinella nella notte, non a caso la civetta che vigila nella notte è stata assurta a simbolo della vostra esperienza. Abbiamo forse perso la capacità di inquietarci per il disumano rifiuto dell’accoglienza di persone che come noi desiderano semplicemente essere umane? Cosa vede il monaco in questo senso?
Credo che occorra vedere l’essere umano nell’altro, scorgere la normalità di una vita che ha faticato ad essere tale e che cerca soltanto amore, un tetto, un lavoro. Giustamente è stata citata la civetta: in questi tempi bui occorre come lei affinare lo sguardo per scorgere la presenza dell’altro.
La Pira ci ha ricordato che se è vero che siamo di fronte ad un compito che è più grosso di noi, è anche vero che se porremo come limite all’accoglienza il fatto che sia difficile farlo, non riusciremo nemmeno a praticare l’accoglienza nei modi in cui è possibile praticarla.
Se è vero, come si sente sempre ripetere, che è impossibile accogliere tutti i migranti, è anche vero che non accogliamo nemmeno quelli che potremmo accogliere. Siamo così nel bel mezzo di un paradosso kafkiano.
Il monito di La Pira è lo stesso dell’Abbé Pierre che negli anni Cinquanta, nel freddo della notte a Rouen in Francia, lanciò un appello perché i senzatetto potessero coprirsi in inverno. Grazie a quell’appello partì una delle più grandi iniziative di solidarietà della Francia laica. Queste figure non dicono soltanto la dimensione profetica dell’Evangelo ma sono l’espressione di una semplice constatazione: finché non ci si rimbocca le maniche per praticare ciò che sembra impossibile, non cambierà mai nulla.

Perché accogliere, fr. Guido? Perché dobbiamo farlo proprio noi nella vita di tutti i giorni? In fondo potrebbe sempre pensarci qualcun altro visto che non siamo soli al mondo… Dobbiamo ripartire da questo per andare incontro e costruire nel presente un futuro di speranza?
È chiaro che le istituzioni pubbliche potrebbero e dovrebbero farlo. Per ricordare loro però la motivazione per la quale dovrebbero accogliere – e cioè che l’accoglienza è dimensione costitutiva dell’essere umano – allora ognuno di noi dovrebbe iniziare a vivere la vocazione all’accoglienza quale interiore cambiamento di sguardo verso l’altro. Ciò avrà delle ricadute nel medio, lungo termine. Ciò che importa è salvare concretamente la dignità dell’essere umano senza temporeggiamenti. Il buon Samaritano, narratoci nel Vangelo di Luca, non ha atteso che venisse l’albergatore a prendersi cura del malcapitato incontrato per la strada ma è stato lui prima di tutto a curarlo e a portarlo nella locanda.
Il nostro stesso cambiamento di atteggiamento può cambiare quello della società e delle istituzioni. Le leggi morali le definiamo perché le sentiamo interiormente, hanno una prima eco nella nostra coscienza. I diritti umani esistevano già prima del 1948, anno in cui fu redatta la Carta dei diritti umani. In quel documento, infatti, è scritto che si riconoscono i diritti umani, non si costruiscono a tavolino, essi esistono dacché esiste l’uomo.
Un riconoscimento dei diritti umani che deve partire innanzitutto, come già detto, da noi stessi. Parafrasando s. Serafino di Sarov che diceva: “Acquisisci lo Spirito Santo e migliaia attorno a te scopriranno la pace” potremmo dire: “Acquisisci lo sguardo di Gesù sull’altro e migliaia attorno a te sentiranno questo sguardo diventare azione”.


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