Mosaico di pace luglio 2024

Premessa e definizione
C’è mai stato qualcuno al mondo che in una qualche sua frase o pensiero, non ha mai invocato la pace?
Sicuramente molti dittatori e strateghi militari (in una famosa frase Adolf Hitler sosteneva: “La razza umana è diventata forte nella lotta perpetua e non potrà che perire in una perpetua pace”. Lo echeggiava Benito Mussolini: “La nostra pace più sicura sarà all'ombra delle nostre spade”), ma per il resto il pronunciamento della parola “pace” è di tutti (mi vengono in mente le miss appena elette che, all’immancabile domanda di quale fosse il loro sogno, rispondevano: “la pace nel mondo!”).

Tutti la invocano, molti la cercano, in tanti la pregano, pochi la perseguono efficacemente: ma, sinceramente, di quale pace si parla?
Per capire il complesso quadro della pace, definiamola, riprendendo i concetti espressi in un bel saggio dal Card. Carlo Maria Martini (cfr. Si veda: Card. Carlo Maria Martini, Pace. In Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, 2004. Pag 107)
«La parola pace è parola primordiale che, di là da ogni cultura e ideologia, fa vibrare il cuore di tutti e ciascuno la vorrebbe dentro di sé, in casa, in famiglia, nella società, nella città, nella nazione, nel mondo intero; tutti, intuendone il significato e il valore, la desiderano, godono per la sua presenza e soffrono per la sua assenza». (...) Essa «esprime una realtà, ricca di significati e molteplici sfaccettature: varie e diversificate sono le interpretazioni e le accezioni che se ne danno. C’è (...) una "concezione negativa” che la riduce ad assenza di guerra o di lotta violenta: in questo caso essa può significare una convivenza serena tra i singoli e i popoli, ma può anche consistere nella tranquillità di un ordine sociale, politico ed economico messo a servizio delle categorie e dei gruppi dominanti; può presupporre o richiedere l’annientamento del nemico e fondarsi sulla forza delle armi o può consistere nell’attivazione di un’azione diplomatica e politica che mira al raggiungimento di compromessi e di intese di vertice. C’è poi una “concezione più positiva” che la intende come realizzazione di un ordine sociale fondato sulla giustizia, rispettoso dei diritti delle persone e dei popoli, progressivamente teso alla instaurazione di un’autentica solidarietà operante tra tutti».
Il problema è che però al di là delle parole, pronunciate e/o scritte, spesso belle e che provengono – in molti casi – dal profondo del cuore, le guerre e i conflitti ci sono sempre stati, e continuano ad esserci, e i periodi bellici sono quasi sempre maggiori di quelli di pace in tutto il mondo.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa ha avuto un lungo periodo di pace “interna” messo in crisi solo dai conflitti nell’ex Jugoslavia e, di questi tempi, dalla guerra in Ucraina. Tuttavia, da quando sono nato, nel 1950, so benissimo che non c’è mai stato un solo giorno senza guerra nel mondo a iniziare, per me, da quella di Corea, dai tanti conflitti e vere guerre in America latina, Africa, Asia.
No, le guerre e i conflitti in genere non si sono mai fermati nella Storia. E tutti continuano, incredibilmente e logicamente, a invocare la pace.
Ma essa non si fa e non si riscontra o non la si raggiunge, se non come breve periodo tra le solite guerre, come scritto sopra.
Possiamo, come umanità, accontentarci di ciò? E come e perché? E poi, cosa bisogna fare concretamente per realizzarla e non solo con saggi, libri, articoli, teologie, filosofie, omelie, prediche, lezioni, addirittura canzoni, eccetera?
Detto in altri termini, come perseguire una pace vera e perenne? E sarà mai possibile?
Ecco, più ci penso e più continuo veramente a credere che non solo l’umanità abbia optato, inconsciamente e/o coscientemente sempre per la guerra, ma che abbia veramente paura, o quantomeno ansia, della pace. Non la si vuole perché, inconsciamente, si pensa che stare in pace (ed è un paradosso) è molto più difficile che stare in guerra.
E poi, vuoi mettere!, parole e pensieri come onore, eroismo, vittoria, conquista, “dulce et decorum est pro patria mori”, e tante altre e altri, sono affascinanti! E vuoi mettere, ancora, il fascino della divisa militare, con la quale – tra l’altro – ci si sposa anche in chiesa, ossia davanti a Dio, un Dio che da sempre vuole la pace?
Il problema, a mio modo di vedere, è la paura: non c’è altra spiegazione.
Lo scopo di questo mio breve ma spero accorato lavoro, è di dimostrare che la paura della guerra – che naturalmente c’è in quanto non ci si abitua mai al male! – è in ogni caso e inconsciamente in subordine a quella della pace che, paradossalmente, comporta più problemi di quanto si pensi.
Non ci saranno molte citazioni in quanto sono, molto spesso, solo parole. Belle, toccanti, commoventi, formulate con vero amore ma… sono sempre e solo parole. Oggi più che mai in questo secondo millennio occorrono i fatti e occorre che – visto che abitiamo in un pianeta sempre più piccolo ed anche devastato ambientalmente – facciamo di più.
In ogni caso la difficoltà è, per un cittadino comune come posso esserlo io, il motivarlo sufficientemente. Credo che qualsiasi psicologo, sociologo e/o economista (a parte gli storici che lo fanno di mestiere ricercando cause e motivazioni, ma che non possono soffermarsi su altre indagini se non con i fatti) possano dare delle risposte migliori e/o più adeguate e risolutive, basta pensarci solo un po’.
Ma non lo fanno e forse non ci hanno mai pensato e neanche lontanamente a fondo. Ebbene, io provo a farlo: non so se ci riuscirò ma ci provo.

Lo stato di guerra
Penso che, semplificando, stare in uno stato guerra (o di conflitto) significa vivere come si è sempre vissuti (e quindi c’è un’esperienza profonda, oserei dire nel DNA) in guerra e in quei momenti di tregua tra una guerra e l’altra (anche da parte di popoli e nazioni dove essa non si combatte): dichiarazioni di guerra (anche a seguito di euforie popolari), arruolamenti, nemici, battaglie, distruzioni, morti e feriti, povertà crescente, voglia di vendetta, violenze e stupri, invocazione della fine del conflitto, ripresa post bellica, naturale periodo di pace che – prima o dopo – finisce per un qualche motivo, di solito stupido ex post ma non nel durante, assenza di una vera e valida diplomazia (tanto la preminenza è in ogni caso data alle armi!) e si riprende il giro.
Le uniche variabili sono di quanto dureranno le guerre e i periodi di pace.
E, nel bene e nel male, l’umanità sembra essersi abituata a ciò, addirittura – e sempre per fare la guerra e rinunciando così alla voce del dialogo e a quella pace tanto invocata! – scomodando la parola “santa” coniugata con “guerra”. Una guerra santa, ossia una guerra giusta, moralmente e giuridicamente lecita e accettata dai più, appunto.
Meno pacifismo e voglia di pace di così!
Sembra cinico, e infatti lo è. Ma è questa la nostra storia e, purtroppo la nostra cultura. Neanche la cultura religiosa cristiana ha mai saputo influire a fondo a favore della pace, a parte la visione profetica dei pontificati dello scorso ed attuale inizio secolo e millennio (L’idea di una guerra santa è stata abbandonata ufficialmente dall’attuale pontefice Francesco. In un libro-intervista: Politique et société: Pape François, rencontres avec Dominique Wolton. Un dialogue inédit. Editions de L'Observatoire, 2017, si legge: «… “Vuole dire che non si può usare l’espressione ‘guerra giusta’?”. “Non mi piace usarla. Si dice: ‘Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi’. Ma nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace”.» Anche il Catechismo della Chiesa cattolica è cambiato al riguardo e, ad abundantiam, l’enciclica Fratelli tutti conferma ed allarga questa impostazione). Valga la stessa considerazione per le altre fedi e religioni (ma alcune di esse ancora sostengono le guerre e i conflitti) (A tal proposito si legga l’intenso e intrigante saggio di Edoardo Benvenuto Pace e teologia, in Il Regno-attualità, n. 10, 1990, pp. 312-323).
Ci si prepara per la guerra, da sempre: dalla creazione di Ministeri della Guerra (ora, per la verità si usano altri termini: Ministero, o Dipartimento, della Difesa), di Codici militari, alle leve obbligatorie o bandi di assunzione di militari volontari, di scuole di guerra, di una generale mentalità di guerra e/o di violenza sia tra stati/nazioni e sia tra esseri umani (basta pensare alle violenze quotidiane che si vedono nei film, al linguaggio di “guerra” che si usa quotidianamente e ove, di fatto, il “forte” vince sempre, il cattivo viene quasi sempre “combattuto” e messo “fuori combattimento” e il “buono” è sempre chi poi raggiunge lo scopo di risolvere la questione, naturalmente con la forza e senza che il dialogo, la capacità di sentire e/o capire l’altro venga mai presa in discussione). Insomma, quel che da bambini gridavamo: “arrivano i nostri!” e il problema guerra era finito con la vittoria e con generale soddisfazione, mai pensando alle conseguenze anche pesanti del futuro.
E la guerra è sempre l’unica possibilità, in questo pensiero, per le conquiste, per la risoluzione di controversie, per mantenere gli status quo, per maggiori guadagni (che vanno nelle tasche di pochi), di nuovi utili economici.
Insomma, sempre il bambinesco: io sono più forte di te e mi prendo ciò che voglio.
In pratica, nella logica umana Golia sconfigge sempre Davide (a parte le eclatanti eccezioni storiche), anche se – alla luce di Dio, per i credenti - la logica di Dio è l’inverso e ciò ci è stato detto da tanti profeti e dallo stesso Gesù il Cristo, figlio di Dio: ma nessuno mai li ha ascoltati e ancora oggi li ascolta.
Ciò è tanto vero che l’opera più bella ed importante scritta per ribaltare questo modo di pensare, e che logicamente è stata apprezzatissima per un certo periodo a parole ma subito abbandonata dai fatti, è stata scritta nel 1795 da Emmanuel Kant con la sua Per la pace perpetua. Progetto filosofico. E mi chiedo quanti la conoscono, compreso politici, gente di cultura e di fede in genere. Un’opera che andrebbe anche oggi applicata, perché risolutiva, in quanto ricca di idee giuste adatte e veramente perpetue (si pensi solo all’eliminazione delle frontiere).
Ma, tant’è!, e non c’è (attualmente, ancora) scampo: si preferisce stare sempre in uno stato di guerra e di conflitto, con una diplomazia sempre più impotente, fragile e solo di facciata.
Un esempio che non vorrei fare, ma che a mio avviso è così, riguarda la Costituzione italiana, che, all’Art. 11 dichiara: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Articolo bellissimo.
Ma poi all’art. 52 recita: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici. L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”.
E qui, nascono i problemi, No alla guerra (l’art. 11 è straordinariamente bello!), ma sì ad una preparazione, logicamente difensiva, nel caso che si venisse attaccati.
Ma da chi bisogna difendere i “sacri confini” e da quali nemici? Il perché i confini siano “sacri”, poi, non l’ho mai capito.
Certo, i regimi totalitari post la Seconda guerra mondiale avevano descritto il nemico per noi europei. Ma non per tutti. E ciò vale, in ogni caso e mutatis mutandis, per tutte le nazioni del mondo. Insomma, c’è bisogno di uno stato di forza come una fortezza che dovrà presidiare i territorio nel caso di arrivo del nemico, come ne Il deserto dei tartari.
Senza parlare poi di difendere la “libertà” dei popoli, da sempre invocata; ma basterebbe rileggere il testo di Kant per capire che essa sarebbe sempre e comunque tutelata, anzi! Addirittura, ampliata. Nessun alibi, dunque.
Una lettura ermeneutica del post-guerra è chiaramente capibile sul piano storico, ma è logicamente in contrasto con lo spirito di una certa pace (la pace “positiva”). E, da qui, tutte le cose dette.
In quell’art. 52 ci sono secoli e millenni di cultura della guerra e di una certa visione (“ Concezione negativa”) del mondo, ma manca la visione non solo profetica ma di possibile realizzazione della vera pace, di vita vissuta di pace e del dirimere i rapporti interni e internazionali senza ricorre alle armi, come vedremo tra poco.
Cosa fare, allora?

Stato di pace
Stare in uno stato di pace, invece, significa vivere con le relazionalità umane quali il rispetto, l’amore, la convivenza, il dono dell’altro, l’accoglienza, il “porre l’altra guancia”, l’essere miti, i rapporti di “philia” (amicizia, fraternità), la ricerca di ben argomentare quando si parla e si discute (nota 4, si veda in basso), il prospettare e condurre un’economia rispettosa della persona umana e dell’ambiente, il governare con una cittadinanza che pensa in maniera piena al “bene comune”, ad una distribuzione della ricchezza equa e giusta, un welfare adatto e giusto per tutti (nota 5, in basso), una gestione della cosa pubblica e privata impostata a solidarietà/fraternità, e fiducia pubblica, un’educazione basata sulla verità senza ideologia e sulla vera conoscenza sì da tendere alla felicità.
In tale stato non ci sarebbe posto per l’utilitarismo, l’egoismo metodologico (di persone e di nazioni), la concorrenza e la competizione spietata, la meritocrazia e tante altre realtà che si incontrano vivendo e che fanno sempre riferimento a guerre e violenze.
Ci sarebbero i Ministeri della pace, le scuole sarebbero tutte di pace (si veda Nota 6 in basso) – con relativo insegnamento delle tecniche di pace e di riflessioni adeguate –, il mondo del volontariato e della cooperazione sarebbero atte a svolgere benissimo tutti i problemi e le disgrazie, anche ambientali, inevitabili (mai ci sognerebbe di pensare che ci vorrebbero i militari, come invece oggi succede), la “vita buona” sarebbe la norma (si vada nota 7 in basso), ci sarebbe una “fede pubblica” e i Codici civili sarebbero impostati per dare il meglio di sé in una convivenza pacifica e quelli penali impostati non solo per la repressione, ma anche per la rieducazione di chi commette delitti, sì da fare in modo che l’ordine pubblico sia la norma e creare quell’ambiente sociale (la famosa Weltanschauung)in cui tutti si possono veramente ritrovare per manifestare le proprie idee. E così via.
Sarebbe, però, possibile? E Non sembrerebbe, questo, il mondo dei sogni? A tal proposito mi vengono in mente due poesie.
La prima è quella I bambini giocano, di Bertolt Brecht (Bertolt Brecht, Poesie politiche, Einaudi 2015):
“I bambini giocano alla guerra. / È raro che giochino alla pace / perché gli adulti / da sempre fanno la guerra, / tu fai “pum” e ridi; / il soldato spara / e un altro uomo / non ride più. / È la guerra. / C’è un altro gioco / da inventare: / far sorridere il mondo, / non farlo piangere. / Pace vuol dire / che non a tutti piace / lo stesso gioco, / che i tuoi giocattoli / piacciono anche agli altri bimbi / che spesso non ne hanno, / perché ne hai troppi tu; / che i disegni degli altri bambini / non sono dei pasticci; / che la tua mamma / non è solo tutta tua; / che tutti i bambini / sono tuoi amici. / E pace è ancora / non avere fame / non avere freddo / non avere paura”.
Ma a questa poesia se ne aggiunge un’altra, Promemoria, del nostro Gianni Rodari (Gianni Rodari Il secondo libro delle filastrocche, Einaudi, 1985): “Ci sono cose da fare ogni giorno: / lavarsi, studiare, giocare / preparare la tavola, / a mezzogiorno. / Ci sono cose da fare di notte: / chiudere gli occhi, dormire, / avere sogni da sognare, / orecchie per non sentire. / Ci sono cose da non fare mai, / né di giorno né di notte / né per mare né per terra: / per esempio, la guerra.”.
Che aggiungere? La poesia, come al solito, sa vedere lontano, ci fa capire il senso della vita ma anche comprendere lo iato che c’è tra il dover essere e la realtà.
Ma noi, spesso pacifisti sicuramente ma non a sufficienza con le nostre omissioni, potremmo fare di più e convincere politicamente gli altri ad adoperarsi per un mondo diverso. Difficile e controcorrente? Certamente… Ma in ogni caso bisogna provarci. È quasi un imperativo categorico, sempre riprendendo il nostro Kant.

La paura della pace
A guardarla oggi la pace è così: un sogno e il parlarne è giusto e doveroso ma è, in fondo, solo e una speranza e, quando va bene, profezia.
Ma è un sogno che fa paura, poiché la società non si è mai preparata per un nuovo modello di vita di pace totale, non ha mai riflettuto su come vivere in pace e senza mai prepararsi alla guerra. Come uomini e donne sembra che non ne siamo capaci, che il seme della violenza – personale e/o aggregata – è irrinunciabile nel nostro profondo, ammettiamolo!
È difficile, capisco, cambiare prospettiva: da una pace sempre sotto l’immanenza della guerra ad una che ha come riferimento solo pace che colloquia con se stessa. È complicato iniziare un cammino dove prima o dopo ti si viene a dire che il non fabbricare armi & c. comporterebbe una perdita del PIL con gli inevitabili migliaia di posti di lavoro persi, che l’animo umano è portato alla violenza e alle guerre, eccetera, eccetera.
Ma, se pure si superasse ciò, resta il fatto che bisogna riorganizzare buona parte della società e i rapporti umani. Non basterebbe, infatti, dire stop solo alla guerra, ma anche alle violenze in genere o alle loro limitazioni. Bisognerebbe impostare una società di pace, una nuova modalità di vivere la comunità, eccetera, eccetera.
Problema veramente immenso ma che era già stato intuito molto bene da Luigino Bruni (Luigino Bruni, La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, Il Margine 2007. Introduzione a pag 9): “Immaginate… una città senza condomìni rumorosi e litigiosi, dove ogni famiglia ha la sua propria villetta isolata acusticamente e visivamente dalle altre in modo che nessun vicino possa dar fastidio all’altro; dove i pochi grattacieli rimasti sono costruiti in modo da evitare ogni incontro lungo le scale o nei pianerottoli; dove negli uffici e nei posti di lavoro si comunica solo via e-mail o, per le decisioni più delicate, via skype; dove tutti gli spazi una volta comuni, dalle piazze ai quartieri, sono stati lottizzati e privatizzati, e ciascuno difende e controlla il suo pezzettino di città; dove con una semplice e-mail possiamo ordinare la spesa che ci viene recapitata a casa senza bisogno di uscire e perdere del tempo prezioso; dove i media sono diventati così sofisticati e interattivi da farci sentire tutto il giorno in compagnia di tanti, sebbene trascorriamo sempre più ore da soli davanti a computer e televisione; anche le lezioni universitarie ci vengono recapitate a casa via internet, con docenti virtuali preparatissimi che ci seguono personalmente da qualunque parte del mondo, senza alcun bisogno di incontri faccia a faccia.
Una città “ideale”: i conflitti sono stati infatti eliminati perché è venuta meno la precondizione stessa del conflitto, insistere cioè su una terra comune, su di una communitas.
Vi piacerebbe vivere in una tale città? Vi auguro di sì, poiché questa scena stilizzata è molto vicina a quella reale che si sta profilando nelle città che oggi stiamo immaginando e progettando nelle nostre società di mercato. Mercato, sì: perché il mercato e la sua logica è proprio ciò che più sta determinando questo scenario”.
Scenario questo sempre più concreto e attuale e che comporta un annacquamento dei rapporti umani e non solo. E non è solo un’immagine di mercato, ma anche quella di una società dove concetti come amicizia, il volto dell’altro (Ho in mente il volto dell’altro nella filosofia di E. Lévinas) non esistono/esisterebbero più.
In tale libro, poi, ben fa l’autore nel riprendere la tesi del filosofo Roberto Esposito nella nota 24: “La contraddizione più radicale non è quella che si pone tra comunità e società (come nel pensiero sociale classico) ma tra communitas e immunitas” (R. Esposito, 1998, Communitas, Einaudi, Torino).
Ma non è questo un caso di pre-guerra dove a nessuno interessa l’altro ed in cui il bene proprio è superiore a quello degli altri?
Si, la comunità è bella, ci dà inizialmente soddisfazione ma poi, non si sa perché, non si riesce più a mantenerla e il dono insito nella parola (munus di communitas) non si vede più e cominciano le disaffezioni, le difficoltà, i caratteri diversi, i litigi, i conflitti e ... le guerre (non solo quelle tra nazioni). Le dinamiche, come le affinità tra macrocosmo e microcosmo, sono le stesse!
No, è meglio – in questo modo di vedere le cose – l’immunitas, ossia il”vaccinarsi” contro le difficoltà che il rapporto, sia esso di coniugi, famiglie, comunità piccole grandi come paesi, città, regioni, e poi nazioni e poi ancora continenti. No, è meglio non immischiarsi, non parlare, non cercare di capire perché la verità che potrebbe emergere potrebbe essere svantaggiosa per me. È meglio starne fuori, non prendere parte ai doni delle relazioni, a non dipendere, nei doni e nelle attenzioni, da nessuno… L’asetticità dei rapporti è, veramente, la base dell’egoismo ed è la vera nemica della convivialità, della vita in comune, del bene comune: peccato che questa verità scappi ai più.
Ed è qui che nasce prima o dopo e per dirimere le controversie, il ricorso alla forza: essa è cieca, è solo muscolare e poco attenta alle ragioni del cuore e dell’intelletto, ma si spaccia per risolutrice.
E in tutto ciò c’è quindi la paura di quella convivenza e di quella pace. Una paura atavica che appunto viene da lontano, da quel “ma il mondo è andato avanti sempre così”, dallo “speriamo che io me la cavo”, dall’inevitabilità prima o poi della guerra perché, se vinco, io imporrò la mia pace! E allora via con le guerre!
Ma poi, quando una guerra finisce cosa si fa? Si fa una pace in cui chi ha “vinto” reclama tutto e non si permette minimamente di capire cosa succede ai perdenti e come affrontare i post guerra. Valga per tutti l’esperienza della cosiddetta “Conferenza di pace di Versailles” della Prima guerra mondiale ed in cui si sono posti i prodromi della Seconda di lì a poco. A nulla sono valse le riserve e il buon senso, anche economico, di J. M. Keynes che era era il delegato del Cancelliere dello Scacchiere britannico alla Conferenza, dimessosi perché contrario a una pace “punitiva” che sarebbe stata, secondo lui, foriera di nuovi conflitti (Si legga sia il suo libro e Le conseguenze economiche della pace del 1919 e, ad abundantiam, il libro di J. Lukacs The Coming of the Second World War, Foreign Affairs, 1989. 165-174). Ma tale esperienza non è servita a niente e si sono ancora ripetuti gli stessi errori come nelle guerre del Golfo e in tanti, tantissimi altri conflitti, come quelli attuali affatto non ben gestiti ex ante per motivi economici e di potere, cosa di cui non si riesce proprio a fare a meno.
Sembrerebbe quindi inutile discutere su ciò e chi tenta di farlo viene subito bollato con un “pacifista sterile” e addirittura “di parte” o “a senso unico” che ha in sé tanta ironia, quando invece c’è solo saggezza. Il che è anche naturale: è difficile, come visto, cambiare impostazione logica con lo schierarsi convintamente verso una vera pace che coinvolga tutti.
No, non credo sia facile far decadere la paura della pace e che sia più facile mantenere quella della guerra che è – poiché ci si è abituati, come sostenuto – in ogni caso, minore della prima.
La pace fa paura perché fa venire a galla non solo le nostre ansie di comunità, ma perché pone allo scoperto la vita delle persone che vogliono vivere e vivere bene e che, se non ben governati, ricercheranno sempre la ricchezza piuttosto che una cultura che porta a una “vita buona”. Purtroppo, dagli anni Sessanta in poi dello scorso secolo è quanto successo con le masse lavoratrici.
Ma per chi crede nella pace, essa potrebbe far venire a galla tante altre possibilità con un’attività scientifica che potrebbe aiutare l’essere umano, la natura e in definitiva la vita.
Dobbiamo quindi rassegnarci? Per molti sì, visto che ci si sta riarmando alla grande e gli stanziamenti per le armi sono stratosferici e sono buona parte del PIL con riflessi negativi su investimenti di pace quali welfare, scuole, ospedali, ambiente, eccetera.
Ma per molti no e, anche se sono pochi rispetto agli altri e alla massa silenziosa che segue senza volerci capire nulla, è su questi che bisogna puntare iniziando col denunciare le cattive politiche, le cattive economie, i cattivi rapporti tra gli Stati, le pessime norme del diritto internazionale e l’inefficacia delle Istituzioni internazionali.
Ma questo è solo una piccola parte della paura della pace. Chi vuole aggiungere altri argomenti?

Homo homini lupus: o no?
Cosa occorre fare, allora, per una vita di pace senza guerra ma piena di speranza?
Credo che si debba cominciare a prepararsi anche se di questi tempi non è facile: i conflitti e le guerre in corso sono ormai sclerotizzati, per tante ragioni, da anni e ognuno dei contendenti ha una sua verità e non si riesce a convincere nessuno ad una vera pace. Nel migliore dei casi si tornerà e ci sarà ad una “pace armata” che non soddisfa nessuno. Persino l’Europa, per bocca di qualcuno dei suoi governanti, rivuole riarmarsi.
Insomma, si continuerà a vivere una spirale senza fine e si continuerà a parlare con tutti quei modi detti sopra di pace, ma senza che essa si compia davvero.
Ma d’altra parte, se non si comincerà a ragionare seriamente mettendo al centro una giurisprudenza della pace, una filosofia della pace, una teologia della pace, un’educazione di pace, una vita di pace mettendo al bando le armi, il linguaggio e le azioni di violenza e di guerra, il futuro ripeterà pedissequamente il passato e sarà difficile sempre più allontanarsi da quel Homo homini lupus, coniato dal commediografo latino Plauto ma reso celebre dal filoso Thomas Hobbes, e sostituirlo con il suo opposto Homo homini natura amicus coniato dal napoletano economista e filosofo Antonio Genovesi.
Spero che questo mio grido di dolore e questa mia visione, se accettata, possa stimolare i tanti migliori di me nell’elaborazione di “nuovi stili di pace”.
Se non sarà accettata, pazienza: rimarrò un sognatore pacifista ma comunque sempre un uomo di dialogo e di impegno sociale.

Note
(Le note dalla 1 alla 3 e successive alla 7 sono nel testo)
4. Si veda a proposito il pensiero di A. Genovesi su come devono/dovrebbero essere i confronti e i dibattiti tra persone. La logica per i giovinetti. In R. Milano La logica del bene comune. Coscienza, memoria, responsabilità, dialogo. Nuova edizione commentata de La logica per i giovinetti. Gabrielli Editori, 2020. In particolare il capitolo IV Dell’arte ragionatrice. Ciò perché oggi si fa fatica a vedere e/o partecipare senza urli e/o epiteti all’avversario di turno un dibattito o una trasmissione, specie televisiva. La cosa è oramai sconfortante e nessuno vuol porci riparo perché così si fa audience!
5. Non può non venirmi in mente, a questo punto, il concetto di capability espresso dall'economista/filosofo Amartya K. Sen e dalla filosofa Martha Nussbaum. A tal proposito si leggano i pensieri di A. K. Sen ad iniziare da: Equality of what? in McMurrin S Tanner Lectures on Human Values, Volume 1. Cambridge. Cambridge University Press,
1980; e quelli di Martha C. Nussbaum, Nature, Function, and Capability: Aristotle on Political Distribution, in
[Supplementary Volume] Oxford Studies in Ancient Philosophy 145 (Julia Annas & Robert H. Grimm eds., 1988) [hereinafter Nature, Function, and Capability].
6. Oggi in Italia esistono scuole ed università della pace, ma sono poche e locali.
7. Si pensi alla famosa frase di Giacinto. Dragonetti che recitava, nell’introduzione di Delle virtù e de’ premj: “Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù ” (1768, p. 3).


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