Mosaico di pace novembre
A colloquio con Jacopo Melio, autore di È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo).
Intervista a cura di Ilaria Dell’Olio

Si è recentemente conclusa la XVII edizione dei Giochi paralimpici, quale, a suo avviso, l’insegnamento consegnato alla società?
Non sono solito guardare le Paralimpiadi in TV perché mal sopporto la narrazione dei media mainstream riguardo la disabilità, tutt’ora quasi sempre pessima, anche se quest’anno ho visto un leggero miglioramento: merito soprattutto delle atlete e degli atleti che, con una campagna ad hoc, hanno provato a ribaltare molti stereotipi, tra cui il concetto che loro “gareggino” alle Paralimpiadi e non “partecipino”. Questo credo sia il fresco promemoria di questa edizione.

Nel suo ultimo libro “È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo)”, Erickson 2022, ha dipanato i dubbi sui modi per parlare di disabilità, ma esiste davvero un modo “corretto”?
È difficile definire qualcosa “corretto” dal momento che il linguaggio cambia con il cambiare della società, cambiando i tempi. Di certo esiste un linguaggio discriminatorio e offensivo, che allontana enfatizzando le differenze anziché includere ponendo l’accento sulla “persona” nella sua totalità e non per le sue difficoltà: perciò sì, possiamo dire che esistono parole corrette ed altre sbagliate, dal momento che gli effetti sociali e culturali che queste creano (spesso involontariamente) possono essere positivi o negativi.

L’atleta Rigivan Ganeshamoorthy, medaglia d’oro nel lancio del disco alle ultime Paralimpiadi, in una recente video intervista ha affermato: “Non scherzare sulla disabilità è primitivo, una fissazione dei normodotati”, è d’accordo con questa affermazione?
Assolutamente sì, la regola è sempre la stessa: “Ridere CON e mai ridere DI qualcuna o qualcuno”. Se escludiamo la disabilità dai temi sui quali si può scherzare e sdrammatizzare stiamo già facendo della discriminazione al contrario, ponendo una grossa fretta della società sotto una campana di vetro che, di fatto, è un recinto ghettizzante. Rigi è stato favoloso nel parlare con quella leggerezza quasi “volgare”, nel senso buono del termine, cioè, popolare e dunque umana, di un tema che viene troppo spesso trattato con i guanti del politicamente corretto: mitica la sua battuta “Le Paralimpiadi son belle, però ci sono un po’ troppi disabili”.

Un focus a parte merita il rapporto tra disabilità e istruzione, a suo avviso, quale la sua fotografia oggi?
Per contribuire all’inclusione occorre avere tutti gli strumenti per “fare cultura” nel modo giusto, trasmettendo i migliori messaggi affinché la disabilità venga “normalizzata”: occorre una formazione sempre più specifica delle e degli insegnanti di sostegno (ancora non sempre qualificati e, talvolta, addirittura portati a una scelta di ripiego per avere punteggio e salire in graduatoria verso la materia di indirizzo desiderata); così come occorre un pieno accesso allo studio per persone con disabilità o neurodivergenti (ma anche ai tirocini post diploma o laurea)… Insomma, la formazione non può avere barriere in nessun senso e su questo non dobbiamo smettere di batterci.

Nell’ultimo concorso scuola, si è generato un forte malcontento tra i/le candidati/e in merito alla questione “riservisti” (beneficiari/-e delle leggi 68/99 e 104/92). I cosiddetti “precari/-e storici/-e”, infatti, si sono visti/-e scavalcati/-e in graduatoria dai/dalle destinatari/-e di detta legge. “L’Italia è uno Stato fondato sull’assistenzialismo”, si legge tra i commenti dei/delle internauti/-e. Quale il suo parere in merito?
Credo che si debba trovare posto per chiunque se lo meriti: chi non può permettersi un’ampia scelta di lavori perché appartiene alle così dette “categorie protette” è giusto che abbia una strada preferenziale e un accesso garantito a quel mondo del lavoro che può accoglierlo, fondamentale per l’indipendenza e l’autonomia personale; al tempo stesso questo diritto (e non privilegio!) non può ostacolare chi si merita di entrare perché dimostra di essere competente. Insomma, è una questione complessa e la coperta, purtroppo, è ancora troppo corta per soddisfare tutte e tutti. Questo è un grosso problema e io non smetterò di sottolineare, in generale, il diritto al lavoro per chiunque.

Quali i desideri per una società, in cui la disabilità non sia un limite, bensì un’opportunità di crescita?
Vorrei semplicemente che la disabilità sparisse: attenzione, non le malattie (sarebbe troppo bello…) ma gli impedimenti che nascono quando il contesto in cui ci troviamo non è in grado di supportare le difficoltà individuali, tirandole fuori anziché annullarle. Basterebbe che le persone indossassero gli “occhiali” giusti, imparando a guardando le persone e le loro risorse anziché i loro problemi: chiunque ha delle disabilità se non ha gli strumenti giusti per affrontare la vita, ma soprattutto chiunque è una risorsa umana sulla quale investire, e non una spesa. Ed è proprio la società che ha la responsabilità di fornire quegli strumenti per non disabilitare le persone.


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