Mosaico di pace dicembre 2024
La nonviolenza politica e i cristiani
Le persone possono essere definite cristiane se credono a Gesù il Cristo, morto in croce e vivente nel seno del Padre, che ha effuso lo Spirito per la salvezza del mondo e se si sforzano di essere a Sua Immagine, imparando a pensare ed amare il prossimo, cioè vivendo grazie allo Spirito secondo i suoi insegnamenti. Egli stesso ha detto: “imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt. 11,29) e ancora: “Vi dono un comandamento nuovo: di amarvi gli uni gli altri, come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri” (Gv.13,24).
Come tradurre questo insegnamento oggi e viverlo nella prassi quotidiana? La nuova cultura della nonviolenza –in realtà antica come le montagne- può agevolare la ricerca di quanti intendono seguire le orme di Gesù Cristo? In primo luogo occorre sapere se si può definire Gesù un nonviolento politico. Si possono attribuire a Gesù questi due aggettivi qualificativi? Potrebbero apparire se non errati, certo inappropriati, anche perché tali appellativi non si trovano nel Nuovo Testamento. Quindi andrebbero evitati. Tuttavia si può controbattere che la problematica di attribuire nomi nuovi a realtà antiche è stata già posta nella storia, e risolta positivamente. Il pensiero corre subito al caso del termine ‘persona’, che non ricorre nel N. T., e ora invece viene tranquillamente attribuito alle tre persone della Trinità. Usato fin dal IV secolo rimase però oggetto di dibattito ancora nel sec. XIII. Lo testimonia da par suo Tommaso D’Aquino, che non solo risponde all’interrogativo sul suo legittimo uso, ma aggiunge un’importante avvertenza: “Si è costretti a trovare nuovi nomi, per significare l’antica fede circa Dio, dalla necessità di discutere con gli eretici. Né tale novità va evitata, perché non è profana, dal momento che non è discorde dal senso delle Scritture” (S. Th. I, q.29, a.3, ad 1). Come dire –ed è stato autorevolmente detto- non cambia il Vangelo, ma cambiamo noi, che riusciamo oggi a comprenderlo meglio.
Risolta la questione della legittimità dell’uso di nuovi nomi, occorre chiedersi se gli aggettivi ‘nonviolento’ e ‘politico’ possono definire meglio la personalità di Gesù, rispetto a quanto dice di se stesso, che è “mite e umile di cuore” (Mt. 11, 29). Chi infatti, cercando di essere una persona nonviolenta e desiderosa del bene comune della pace -fine della politica- vuole seguirlo per diventare cristiano, e si richiama a Lui, e tenta anche di parlare in suo nome, vorrà sapere se in Lui può rintracciare la dimensione politica della personalità nonviolenta. Ebbene è possibile attribuirgliela se si tiene presente la storia del termine ‘nonviolenza’, che si contrappone già nel lessico a ‘violenza’. La lettura storico-critica della Bibbia può aiutare a chiarire il problema.
Nell’A.T. la violenza è ampiamente documentata non solo con la descrizione di tante guerre e crudeli misfatti, ma è addirittura attribuita all’azione di Dio. Un esegeta, Giuseppe Barbaglio, riprendendo la ricerca di altri autori ( come p.es. N. Lohfink, Il Dio della Bibbia e la violenza, tr. it. Brescia 1985), scrive un saggio dal titolo urticante: Dio violento? (Assisi 1991). In esso infatti non solo riporta il gran numero di vicende belliche, oltre seicento, ma aggiunge che vi sono un centinaio di passi in cui appare Jahvé che ordina espressamente di sterminare tutti i vinti: il c.d. cherem è l’espressione più crudele della guerra santa. Impressionante questo agire di Dio adirato vendicatore sanguinario. Ovviamente oggi diciamo che questa è l’immagine errata che avevano gli antichi scrittori biblici. Infatti venne Gesù che ricordando la bontà universale di Dio, invero già cantata da alcuni Salmi e da alcune profezie, riuscì a capovolgerla, rivelando all’umanità la nuova immagine di Dio, quale Padre misericordioso “che fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni e fa piovere su giusti e ingiusti” (Mt, 5, 45). E poi con la sua vita, piena di misericordia, fino alla morte quale mite agnello, ha donato la vera immagine del Signore che respinge la violenza assumendola, come chiarito anche da René Girard, autore de La violenza e il sacro. Ebbene la più recente ricerca biblica ha riletto le parole evangeliche e le azioni di Gesù ricollocando la sua vita di umile falegname e di profeta emarginato entro il contesto culturale, religioso,politico ed economico della Galilea e della Giudea del suo tempo dominato dall’Impero di Roma (si ricordino solo: E. Noffke, Cristo contro Cesare, E. Scheffler, The historical Jesussas Peacemaker, R. Horsley, Jesus and spiral of violence on Galilee, J. Douglass, The nonviolent coming of God). Da tali studi è emerso con chiarezza che la nonviolenza costituisce il cuore del Vangelo, come lucidamente segnalato dalla Catholic Nonviolence Initiative in Advancing Nonviolence and Just Peace in the Church and the World, coordinato da Pax Christ International. Tali interpretazioni sono state inoltre accompagnate autorevolmente da papa Francesco, il quale, in particolare nel messaggio per la giornata della pace del 2017, dal significativo titolo La nonviolenza stile di una politica di pace, ha affermato che: “Gesù quando la notte prima di morire disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (Mt. 26,52) tracciò la via della nonviolenza”. E poi con numerose dichiarazioni successive fin all’enciclica “Fratelli tutti”, ha avvalorato la ricerca sulla dimensione nonviolenta e politica della vita di Gesù, nel senso di vederlo intervenire nella vita sociale e comunitaria del suo tempo, contrapponendosi decisamente (‘fu scritto, ma Io vi dico’) alla cultura dominante, per esempio declinando universalmente l’amore del prossimo, già presente nell’A.T., come amore per i nemici, la grande novità portata dalla fede nel Dio Padre, che ama tutti i suoi figli e vuole la loro salvezza e felicità fin dalla vita terrena.
È indubbio che questa ottica rivoluzionaria di interpretare il nesso tra politica e religione sia dovuta, come riconosce lo stesso papa, alla cultura della nonviolenza assunta anche da testimoni di altre religioni, e così ben esposta da Gandhi in una famosa pagina autobiografia: “Per vedere faccia a faccia l’universale e onnipresente Spirito di Verità si deve essere in grado di amare il più infimo degli esseri umani come se stessi. E un uomo che aspira a ciò non può permettersi di estraniarsi da nessun campo di attività umana. E per questo la mia devozione alla Verità mi ha condotto alla politica, e posso dire senza alcuna esitazione, anche se con assoluta umiltà, che coloro che affermano che la religione non ha nulla a che fare con la politica, non sanno che cosa è la religione”. Ma ovviamente è la religione e la politica della nonviolenza. E’ importante ricordare che la decisione di Gandhi di intraprendere la via della nonviolenza, come lui stesso confessa, fu dovuta alla lettura del libro di un cristiano ortodosso russo, Lev Tolstoj Il Regno di Dio è in voi. Infatti non solo con questo libro, grazie alla fama letteraria del suo autore inizia nel mondo moderno il cammino della cultura della nonviolenza, ma soprattutto viene indicata la prassi della nonviolenza, che la precede e la fonda. Infatti Tolstoj dedica i primi due capitoli a ricordare i numerosi testimoni di nonviolenza, americani, russi e di altri stati europei, che negli ultimi due secoli per fede decisero di non abbracciare il fucile e di obiettare la servizio militare, andando per lo più incontro alla morte. Per lui è chiaro il riferimento al comandamento dell’amore cristiano di non uccidere e di non rispondere al male con la nonviolenza, così come prescrive anche San Paolo. Ma egli aggiunge qualcosa d’altro perché critica violentemente, oltre le Chiese, che non lo rendono obbligatario, soprattutto lo Stato, e non solo quello zarista, che prepara e fa la guerra con dispendio di investimenti. “ La pace –scrive nel libro del 1893- è su tutte le bocche, eppure i governi aumentano ogni anno i loro armamenti, introducono nuove imposte… L’esperienza delle ultime guerre ha reso il peso del militarismo più insopportabile e lo stato politico ed economico dell’Europa più triste e più torbido”. Sono temi che verranno ripresi in Italia mezzo secolo dopo da Aldo Capitini, un pensatore laico, ma con una evidente impronta religiosa, che comprende appieno la novità della proposta della nonviolenza , cioè nella sua assunzione in un’etica della responsabilità politica. Mentre fino ad allora la nonviolenza veniva fatta propria dall’etica religiosa delle buone intenzioni individuali, rendendo improponibile il confronto sullo stesso piano di due etiche disomogenee, con ispirazioni, strutture e finalità diverse. Da qui l’elaborazione della proposta filosofica, religiosa, pedagogica, e soprattutto politica della prassi nonviolenta, definita da Capitini come “attiva apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo, alla compresenza di tutti gli esseri”. Molti pensatori cattolici a cavallo della II guerra mondiale, quali don Mazzolari, don Milani, Igino Giordani, e poi Balducci, mons. Chiavacci e mons. Bello, sostengono in particolare i temi dell’obiezione di coscienza e di quella fiscale, mettendo in rilievo che il primo nonviolento della storia è stato Gesù Cristo. E oggi infine è stato riconosciuto non solo nell’Italia democratica il diritto a svolgere un servizio civile alternativo a quello militare, in quanto viene ammesso che si può difendere la Patria senza far uso delle armi.
Ecco però l’urgenza di chiederci oggi che cosa significa in concreto la democrazia. Da alcuni anni in effetti è stata detto che viviamo in una “post-democrazia, dove tutte le forme di democrazia continuano a funzionare, ma sono diventate un rituale, perché le decisioni importanti sono prese altrove, da élite politiche ed economiche e finanziarie” (Colin Crouch, 2003). Tanto è vero che ci si chiede se dopo esser passati da sudditi a cittadini, ora si stia tornando indietro da cittadini a sudditi, in un processo di regressione politica, come si constata nelle c.d. democrazie del benessere, nell’Occidente. E ciò contrasta con il concetto di persona, quale elaborato dalle Rivoluzioni americana e francese, e già indicato dalla teologia cristiana fin da Tommaso d’Aquino che a metà del secolo XIII° definiva la persona, quale ‘essere individuale dotato di ragione e principio delle proprie azioni, in forza del libero arbitrio’, cioè autonomo, ossia che detta legge a se stesso. Anche il Manifesto di Ventotene, scritto nel 1944 da Spinelli, Rossi e Colorni, per un’Europa libera e unita, affermava: “La civiltà moderna ha posto come fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un centro di vita autonomo”. Infine l’art.1 della Dichiarazione dei Diritti dell’ONU del 1948 recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Va però detto che per definire compiutamente la democrazia occorre metterla in relazione con la pace, perché senza pace – lo ricordava Norberto Bobbio, il grande filosofo del diritto e della politica, non c’è libertà, diritto, benessere, non c’è democrazia. Ecco perché il diritto alla pace deve essere considerato come il primo fondamentale diritto universale. Diritto postulato da diversi teorici occidentali che hanno portato il dibattito a livello internazionale. Infatti l’Assemblea Generale dell’ONU il 19/12/2016 ha approvato (con 131 Sì, ma diversi No –tra cui gli Usa- o astensioni –vedi l’Italia-) una dichiarazione che afferma: “Ogni individuo ha diritto di godere della pace in modo che tutti i diritti umani siano promossi e protetti”. E non è forse quello che vogliono dirci da tempo immemorabile gli obiettori di coscienza, i quali sì obiettano contro il servizio militare individualmente, ma in fondo desiderano affermare con la loro personale nonviolenza il sogno di una politica universale nonviolenta? E con ciò intendono sostenere una compiuta democrazia, cioè “il potere dal popolo, del popolo, per il popolo” (come diceva Lincoln, per definire la democrazia degli USA).
Ma è proprio vero? Purtroppo persiste il potere sopra il popolo, in quanto vige ancora la sovranità degli Stati. La nostra costituzione purtroppo ne conserva ancora, pur limitandolo, il principio. Un giurista tedesco (Gierke) all’inizio del secolo scorso ammetteva che “la sovranità è un concetto polemico”, nel senso che è strettamente legato alla guerra, in quanto il sovrano assoluto è il “legislator, legibus solutus”. Finché esisteranno gli Stati sovrani si rischierà sempre la guerra, come d’altra parte è ammesso dall’art. 51 dell’ONU, che permette la legittima difesa, come per il singolo cittadino. Ricordo che la nostra costituzione parla di sovranità nel 1° articolo. Lo Stato sovrano è ancor oggi padrone della vita dei suoi cittadini, resi dunque sudditi. Tanto è vero che i giuristi riconoscono che la costituzione italiana che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione nelle controversie internazionali”, è priva di ogni contenuto giuridico. “Qualora le Camere e il Pres. della Repubblica dichiarano guerra, è del tutto impensabile che il cittadino, chiamato alle armi, possa rifiutare sostenendo che si tratta di una guerra contraria all’art. 11” (Balladore Pallieri). Non per nulla il Manifesto di Ventotene avvertiva: “La sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, che si sente minacciato dalla potenza degli altri. Per questa volontà di dominio lo Stato da tutelatore delle libertà dei cittadini si è trasformato in padrone di sudditi”. Né varrà trasferire la sovranità all’ONU. Come suggeriva giustamente Jaques Maritain occorre sostituire il termine sovranità con quello di ‘autonomia’: Ogni persona, ogni comunità, familiare, cittadina, statale e sovranazionale deve trovare la legge in se stessa.
Ecco allora perché occorre affermare il diritto universale alla pace, che permetterebbe di riformare dal basso l’ONU quale autorità mondiale, sovranazionale, con un Consiglio di sicurezza non più retto dall’anti-democratico diritto di veto, a difesa del cittadino e quindi della vera universale democrazia, cioè il potere di tutto il popolo mondiale.
Ma non basta proclamare la volontà di veder riconosciuto il diritto alla pace, così come non è non è sufficiente l’obiezione di coscienza al servizio militare o alla guerra in atto, così come ancor oggi eroicamente fatto da numerosi obiettori russi . ucraini, israeliti. Occorre invece esprimere un pensiero nuovo e attuare gesti di contrapposizione al militarismo per prevenire le guerre, cioè creare la cultura politica della nonviolenza che rinnova il rapporto tra lo Stato e la cittadinanza. Un episodio della vita di Gesù, narrato dagli evangelisti, può aiutarci a impostare il problema. Si tratta di quello famoso sulla richiesta rivoltagli da farisei ed erodiani sulla liceità di pagare il tributo a Cesare. Ben nota la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”. E si sa come questo passo è stato interpretato come il fondamento della separazione dell’ambito religioso da quello politico. In verità molti esegeti traducono la preposizione ‘e’ con un ‘ma’, che denota quindi una contrapposizione, come se Gesù dicesse che vi sono persone che accettano di pagare il tributo a Cesare, figlio del divino Augusto, la cui immagine è incisa nella moneta, sottostando al suo dominio imperiale, mentre le persone che amano Dio e le persone umane, fatte a Sua immagine, devono servire solo Dio e ogni fratello e sorella. Ecco dunque che tale interpretazione del pagamento delle tasse può aiutarci a comprendere e quindi ad agire coerentemente sulla via della nonviolenza. Se la cittadinanza viene riconosciuta quando si pagano le tasse per realizzare i beni comuni della comunità, ebbene ogni cittadino/a, recuperando la propria autonomia ossia di essere legge a se stesso/a, ha il diritto di decidere sulla finalità del proprio tributo. Ora qual è il bene comune primario e più importante se non il bene della pace? Ecco doveroso perciò incidere sugli investimenti da fare in favore della pace e non sugli armamenti che preparano le guerre e che –come accertato- sono i meno produttivi, oltre che esiziali. Attraverso il disinvestimento dagli armamenti si può iniziare ad affermare il diritto alla pace riconoscendolo come base per costruire una società e un’organizzazione politica mondiale che investa sull’istituzione di una difesa sovranazionale.
Non si può non concordare con quanto affermato da due grandi pacifisti quali Einstein e Freud. Il primo nel famoso carteggio che si erano scambiati nel 1932 affermava che “la guerra è solo un’occasione buona per realizzare profitti” e auspicava “l’avvento di una nuova legge che privi gli Stati della loro sovranità per arrivare a un’organizzazione sovranazionale”. Il secondo sosteneva che “dobbiamo ribellarci contro la guerra… e non si tratta solo di un rifiuto intellettuale o affettivo, si tratta di un’intolleranza costituzionale” e poi profetizzava; “non è utopia sperare che l’influsso dei due fattori, un atteggiamento più civile e il giustificato timore di una guerra futura, ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire”.
Sì oggi possiamo sperare che la nuova cultura della nonviolenza politica, fondata sul diritto alla pace riconosciuto grazie all’obiezione di coscienza al servizio militare e all’obiezione fiscale possa infine introdurre tutte le persone, e le chiese non solo cristiane, a godere un’era di pace, segno escatologico della “Città santa, nuova Gerusalemme, che scende dal cielo” (Apoc. 21,2).