Sono ottanta gli anni passati dalla liberazione dell’Italia dalle forze di occupazione tedesche. Il lavoro di memoria svolto è stato rigoroso, però ora l’inarrestabile potenza del tempo ci ha rubato quasi per intero i testimoni che vedevano sprofondare il nostro paese nell’oscurità più tenebrosa.
Dunque in seguito il nostro tentativo di captare una briciola di passato nel dialogo con Luciana Romoli, staffetta partigiana di Roma (classe 1930). La sua Resistenza comincia a 8 anni, quando la compagna di banco ebrea viene cacciata da scuola. Di famiglia operaia antifascista, dopo l’8 settembre ’43 Luciana, tredicenne, con la sorella e altre ragazze diventa partigiana della Brigata Garibaldi.
Abbiamo avuto la possibilità di intervistarla.
Buongiorno signora Romoli, da dove partiamo… “Chiamatemi Luce. Mi dovete chiamare Luce, il mio nome da partigiana, il nome di battaglia che mi ha dato il mio comandante partigiano. Anche qua siamo un po' di battaglia, del resto, anche noi, in questi mesi, in questi anni, un po’ complessi.”
Potrebbe raccontarci qualcosa della sua esperienza durante la Resistenza?
Bella domanda: da dove comincio? È una storia molto lunga. Appartenevo a una famiglia di antifascisti e per me entrare nella Resistenza è stato facile. Quando sono andata a presentarmi dal mio comandante partigiano, lui non mi voleva per la mia età. Quanti anni hai? Mi ha detto. E io: “Sono nata il 14 dicembre 1930” - e lui mi ha detto: “Lo sai che siamo nel ‘43?”. Mi mancavano due mesi per compiere tredici anni. Il comandante specificò che fare la staffetta è un lavoro pericoloso e “quindi assolutamente non ti posso prendere”. C'era un altro comandante partigiano che gli ha detto: “Senti, lei appartiene alla tua zona, se non la prendi tu, me la prendo io. Perché questa la partigiana l'ha cominciata a fare a otto anni, quando è stata espulsa da tutte le scuole di Regno per avere difes la sua compagna di banca ebrea”.
Allora l'altro partigiano gli ha detto: “Allora me la prendo io.” Si è convinto, mi ha preso e mi ha detto: “Ti dò il nome di battagliaLuce, da questo momento in poi dimenticati che ti chiami Luciana Romoli, perché era pericoloso avere il nome proprio. Tutti i partigiani avevano il nome di battaglia.
Perché?
Perché se venivano presi, venivano arrestati con il nome di battaglia e nessuno poteva essere arrestato. Non c'era il nome e cognome.
Che cosa faceva una staffetta partigiana?
La staffetta partigiana era la ragazza che manteneva i collegamenti tra il Comitato di Liberazione nazionale e le brigate partigiane che erano in città, in campagna, nei villaggi, nei paesi, perfino in montagna. La staffetta a ogni viaggio rischiava di essere presa.
Le staffette non hanno automobili, apparecchi radio. Non hanno niente, solo la loro bicicletta. Devono pedalare, camminare e arrivare al punto loro destinato il più presto possibile. Se si incontrava unabattaglianon doveva entrare in combattimento e quindi doveva ritornare al punto di partenza.
La staffetta aveva dei pacchi chiusi che portava in bicicletta. A destra e a sinistra del manubrio c’erano due buste, due sacchi. Io avevo una “sporta” rettangolare molto profonda.
Voglio dirvi che l'organizzazione della Resistenza è stata una cosa grandiosa. Pensate che i partigiani dei mercati generali ogni tre giorni facevano il giro di tutte le staffette e portavano loro la verdura che noi dovevamo mettere sopra i pacchi per coprire il materiale compromettente e pericoloso. La staffetta non sapeva che cosa portava. Poteva portare armi, medicinali, chiodi a quattro punte, ogni cosa, apparecchi radio, tutto quello che poteva servire che combattevano, ma i pacchi erano ben confezionati, erano chiusi. Bisognava stare ben attenti perché noi staffette, ad esempio, alle otto dovevamo stare in un posto, alle undici in un altro, alle tre del pomeriggio in un altro ancora. Un orefice partigiano ha prestato un orologio a tutte le staffette. E alla fine della guerra glielo abbiamo restituito anche se speravamo che ce lo regalasse, ma eravamo troppe, non era possibile.
Il mio comandante partigiano mi aveva detto che ogni mattina, alle otto e mezza, dovevo andare da un partigiano che si chiamava Giorgio, che fabbricava i chiodi a quattro punte. Lo sapete come sono questi chiodi? È come un treppiede, tu lo tiri ma un chiodo rimane alzato. Si univano due chiodi, uno all'altro – per questo serviva un fabbro –, per unirli si piegavano e in questo modo si formava una specie di piccolo treppiede lanciato sulle strade dove passavano i camion e le autocolonne tedesche; la punta che rimaneva in piedi bucava le ruote e così si fermava tutta l'autocolonna. Il trasporto di questi chiodi a quattro punte era importantissimo e io l’ho fatto diverse volte. Tutte le mattine, tutti i giorni, attraversavo praticamente quasi tutta Roma. Abitavo in quartiere allora periferico e dovevo arrivare a Trastevere, prendere questo materiale e poi tornare indietro e portarlo in tanti altri posti della città. C'erano le biciclette e ci volevano i muscoli, per arrivare in tempo.
Allora, io andavo da Giorgio a prendere i chiodi. Lui me li sistemava nelle sporte e mi indincava il partigiano a cui portarli. Quest’ultimo non parlava: diceva solo “Ciao Luce, sono Marco”. Se lui non mi diceva esattamente così io non gli davo niente. Altrimenti gli davo i chiodi e lui mi consegnava un pacco da portare a un altro partigiano di nome, ad esempio, Nello. Io prendevo questo materiale, andavo lì e lui mi diceva: “Ciao Luce, sono Nello”. A me, per tutto il periodo della Resistenza, non è mai accaduto che un partigiano abbia sbagliato il nome. Quando mi dicevano vai da Mario, vai da Stefano, vai da Luca, vai da Roberto, era sempre così: non è mai accaduto che un partigiano mi abbia dato poi un nome diverso perché l'organizzazione della resistenza era una cosa grandiosa.
Ogni giorno cambiavo itinerario. Era pericoloso fare sempre lo stesso itinerario.
Un giorno, una signora mi si è parata davanti e mi ha detto “bambina dove vai? Non andare da Giorgio, ci sono i tedeschi che lo stanno portando via. Se vai là ti portano via anche a te”. Questo per dimostrare che Roma, una parte di Roma, combatteva e l'altra metà di Roma aiutava i combattenti. È stata una cosa grandiosa, una lotta di popolo. C'erano delle persone che aiutavano i partigiani. Io ogni sera tornavo a casa e c'erano uno che mi guardava la bicicletta, che mi controllava le gomme, mi controllava tutto. Perché noi dovevamo essere sicuri. Non potevamo bucare le gomme della bicicletta. Non è mai accaduto proprio perché ogni sera ce la controllavano.
Noi eravamo sicuri, tranquilli, perché non dovevamo correre il rischio che si fermava la bicicletta.
La puntualità era essenziale. Quando arrivavo a destinazione, io gli davo i chiodi e lui il pacco. Senza parlare, senza dire niente.
L'ultimo partigiano che incontravo mi doveva dare la possibilità tornare a casa puntuale perché il coprifuoco era pericoloso. Se io stavo in giro fuori da quell'orario consentito, rischiavo di essere arrestata.
Quali erano le principali difficoltà che affrontava sia a livello fisico che psicologico durante la resistenza?
Avevamo molto coraggio e non avevamo paura di niente. Avevamo una grande forza di volontà perché credevamo nei valori della libertà, giustizia, solidarietà. Sapevamo che andavamo incontro anche a delle difficoltà. Quante volte le abbiamo incontrate! Abbiamo incontrato i gruppi di tedeschi, di fascisti!
Mio padre era stato ufficiale degli alpini nella guerra del ’15-‘18, la Prima guerra mondiale. Sapeva che se noi io e mia sorella fossimo arrestate, ci avrebbero violentato, torturato e ucciso. Mio padre aveva un amico farmacista e si era fatto fare due pasticche di cianuro che io e mia sorella avevano nascosto in una garza nel calzino, perché se ci avessero preso i tedeschi, piuttosto che farci violentare, torturare e uccidere, ci saremmo suicidate. Nel quartiere in cui vivevamo c'erano molte le fabbriche, alcune con più do mille operaie e tante altre piccole industrie. Era un quartiere antifascista. Gli operai lavoravano dieci, dodici ore al giorno e gliene pagavano otto.
Voglio dirvi che cos'è la solidarietà degli operai. Quando scioperavano i metallurgici, i tessili aiutavano le famiglie dei metallurgici. Quando stavano in sciopero gli edili, le altre categorie li aiutavano e così via.
In cosa consisteva quest'aiuto?
Prendevano i bambini e li portavano a mangiare a casa loro, perché quando c'era lo sciopero non avevano niente e quindi i bambini non dovevano soffrire la fame. Questa non è elemosina ma si chiama solidarietà.
Mia sorella era operaia, era una tipografa, più grande di me, molto bella.
Eravamo d'accordo che, se avessimo incontrato i un posto di blocco, lei sarebbe andata avanti e io avrei rallentato. Adesso c'è un ponte grandissimo, prima c'era un ponticello e lì vicino c'era un posto di blocco. Mia sorella ha cominciato a scampanellare molto forte, facendo cenno ai tedeschi di spostarsi per farla passare. Un soldato tedesco, che parlava molto bene l'italiano, l’ha fermata chiedendogli cosa avesse nella borsa e lei, sorridente, allegra, risposte: “Bombe a mano”. Io non avevo più la forza di pedalare, avevo paura. Lei mi ha aspettato e quando sono arrivata mi ha preso a schiaffi dicendomi: “Ma credi che andiamo a Villa Borghese a giocare a palla? Al parco? Perché non sei arrivata subito?”. Fu quel giorno che ho scoperto che mia sorella portava armi.
E ho scoperto che gli operai, le operaie, durante la resistenza facevano la lotta armata.
Dopo la fine della guerra come si è sentita? Pensa che il contributo della Resistenza sia stato riconosciuto adeguatamente?
Quando è finita la guerra è stata una delle cose più belle che possiate immaginare! Non c'erano più i bombardamenti. A Roma hanno bombardato 33 volte. Ci sono stati nove mesi durissimi di resistenza a Roma, iniziata subito dopo la divulgazione dell'armistizio, una battaglia ferocissima tra il 9 e il 10 settembre del 1943 e Roma è stata libera dagli occupanti tedeschi aiutati dai fascisti dal 4 giugno del 1944. Nove mesi sono fatti di un giorno dietro l'altro, con truppe nemiche, con un esercito che imponeva le proprie regole, che diceva cosa si doveva e si poteva fare, c'era il coprifuoco, non c'era il cibo e si veniva controllati in continuazione. Con il buio potevano andare in giro solo alcune persone: i preti, i giornalisti e i medici. La fame si tagliava col coltello.
Sono stati mesi durissimi ma i partigiani a Roma sono stati in grado di colpire quasi quotidianamente gli occupanti tedeschi aiutati dai fascisti, con attentati, con distribuzione di volantini, con azioni più che coraggiose. E Roma è stata bombardata dalle truppe alleate degli angloamericani perché era un obiettivo importante, sia per gli angloamericani che dal gennaio del 1944 stavano a 60 chilometri da Roma, sia per i tedeschi. Gli italiani erano considerati traditori perché i nostri alleati di prima sono diventati esercito d'occupazione.
Requisivano tutti i generi alimentari. Tutto il cibo che era disponibile, anche il pane che facevano i fornai lo prendevano i tedeschi o i fascisti. C'erano anche gli assalti ai forni e spesso erano le donne a farli perché non ne potevano più di sentire i figli piangere per la fame. Durante gli assalti i fornai erano costretti a dare loro pane bianco mentre il pane distribuito con la tessera del regime era di segale, di una farina nera cattiva, quasi immangiabile, anche se si mangiava di tutto in quei mesi. L'assalto ai forni significava rischiare la vita. Alcuni proprietari di forni facevano entrare le donne per aiutarle, ma una volta qualcuno ha fatto la spia. Sono arrivati i tedeschi e le donne hanno dovuto buttare tutto il pane che avevano preso e dieci di loro sono state prese dai tedeschi. Le hanno messe in fila vicino a una ringhiera su un ponte e le hanno ammazzate. E i tedeschi non hanno dato la possibilità alla popolazione di prendere le donne uccise, perché sono stati lì, facendo la guardia. Solo a notte fonda queste donne sono state portate all'obitorio e la gente è andata per il riconoscimento. Del resto se una donna non era tornata a casa, sicuramente era stata uccisa e si andava a cercarla all’obitorio.
La situazione di oggi rispetta ancora quei valori per i quali hai combattuto?
Sono molto triste perché ci sono tante guerre in corso, in tanti posti nel mondo c'è la guerra. Quando è finita la guerra, lo sapete che cosa è successo? Che una parte di Roma è andata a salutare a salutare gli americani e una parte di Roma, quelli che avevano subito i bombardamenti, che avevano perduto la casa, che avevano perduto tutto, sono andati a dirgli “assassini, assassini, assassini”.
Quanti morti in guerra! Mi ricordo un neonato sotto le macerie: c'era un piedino fuori dalle macerie, e una copertina celeste che lo copriva Io questo piedino lo sogno di notte. I bombardamenti, i palazzi crollati. Ma ricordo ancora, come ho detto, anche la grande solidarietà.
Chi aveva perduto la casa è stato ospitato da quelli che la cui casa era rimasta in piedi. Quando succede una cosa del genere, la gente diventa affettuosa, si rende conto che non ha più niente e vogliono condividere ciò che hanno.
In questi 80 anni è stato dato il giusto riconoscimento alla resistenza?
No, non è stato dato. Per fortuna abbiamo l'ANPI, l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, con i loro incontri, i convegni, le videoconferenze nelle scuole, per spiegare alle nuove generazioni cosa è stata la lotta per la conquista della libertà. Ma la libertà non è una conquistata per sempre. Voi dovete lottare per la pace, dovete lottare per la libertà, perché se viene meno, la libertà è una cosa veramente communente. Si perde tutto se la si perde.
Bisogna stare allerta. Dobbiamo combattere, lottare, parlare alle nuove generazioni.
In che modo l'esperienza della Resistenza ha influenzato la sua vita e le sue scelte future? C'è un aspetto che porta ancora con lei oggi?
Io, quando è finita la guerra, sono diventata una donna che ha lottato per la ricostruzione. Dovevamo ricostruire un paese distrutto. Dopo la guerra anche le scuole erano distrutte e per ricostruirle abbiamo dovuto fare tante riunioni e manifestazioni per avere la possibilità di avere di avere una casa, una scuola, un quartiere.
Allora Luciana vuole leggervi una cosa che è nel suo libro e che si chiama "La Libertà" e che racconta anche la sua biografia.
La libertà è come l'aria.
La libertà è come l'aria. La libertà, se non c'è la libertà, se la libertà ci viene a mancare, noi sprofondiamo nel mare dell'ingiustizia, della schiavitù. e della sovraffazione.
Allora bisogna risalire in superficie, respirare, lottare, nuotare e lottare ancora verso l'avvenire. Quindi per questo noi dobbiamo insegnare ai ragazzi, ai bambini che cos'è la libertà. La libertà è fondamentale.
Se non c'è la libertà non puoi studiare. Se non c'è la libertà non puoi lavorare. Senza la libertà non puoi nemmeno amare.
Perché come fai ad amare se non hai un posto di lavoro? Abbiamo combattuto per questo. La Costituzione Repubblicana al primo articolo recita che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. I ragazzi dovrebbero impararla a memoria, la devono sviluppare, devono studiare, commentare. La Costituzione non è un romanzo che si legge, non è una macchina che cammina da sola. La dobbiamo portare nelle nostre case, nelle famiglie, nelle scuole, tra gli studenti, tra gli operai e fra i contadini, perché prima i doveri e poi i diritti, perché non è possibile che tu possa avere il diritto senza avere il dovere. Diritti e doveri sono due termini che devono camminare insieme.
Che cosa abbiamo realizzato alla fine della guerra?
La Costituzione ed è questa che dobbiamo difendere oggi!