Mosaico di pace giugno 2025
Palestinesi fuori dalla Palestina. Diaspora, campi profughi, destini lacerati
Nel pomeriggio, giunti a Sidone, eravamo diventati profughi. La strada ci raccolse, assieme ad altri. Nostro padre era invecchiato e sembrava che non dormisse da secoli. Se ne stava in piedi per strada, davanti ai bagagli gettati per terra (…). In quel momento anche io, il bambino educato in una zelante scuola religiosa, cominciai a dubitare che davvero Dio volesse far felice l’umanità. Dubitai che Dio potesse ascoltare e vedere ogni cosa (…).
Non dubitai invece che il Dio che avevamo conosciuto in Palestina aveva dovuto lasciarla anche lui e che anche lui era diventato profugo, chissà dove, incapace di risolvere i suoi stessi problemi, mentre noi, i profughi umani, ce ne stavamo seduti sul marciapiede, in attesa di un nuovo destino che portasse con sé una soluzione qualunque (…). La notte era terribile... l’oscurità che calava piano piano sulle nostre teste mi riempiva di terrore. La sola idea di passare la notte sul marciapiede mi faceva venire in mente ogni tipo di paura. Era una paura dura e inesorabile. (G. Kanafani, La terra degli aranci tristi, Cagliari, Associazione Culturale Amicizia Sardegna-Palestina, 2012, p. 75).
Questo è il sentimento prevalente di ogni profugo: la paura. Superare il trauma dello sradicamento non sarà possibile, nemmeno alle generazioni successive. Eppure, Kanafani appartiene a quella cerchia della media borghesia che, prima della fondazione dello Stato d’Israele, aveva cominciato ad abbandonare il Paese a partire dal 1947.
Troppo forte fu il trauma della nakba nelle masse di palestinesi che a centinaia di migliaia furono espulsi dalla loro terra, soprattutto nei contadini che, per il loro legame con la terra, perdettero non solo l’ambiente sociale e spesso i legami affettivi, ma mezzi di sostentamento insostituibili, non avendo altro mestiere in mano.
Il trauma che si abbatté sui ceti urbani non fu di minore portata, abituati com’erano a una vita di benessere. La perdita di città grandi e dinamiche, già in alcuni casi industrializzate, come Acri (la San Giovanni d’Acri dei crociati), Haifa o Giaffa causò anche un trauma culturale del quale ancora soffrono, o perlomeno avvertono, milioni di palestinesi.
Infatti, i profughi palestinesi sono dei sopravvissuti. Centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono dai massacri perpetrati dalle milizie sioniste, qualche volta sotto gli occhi dei soldati britannici ancora presenti sul territorio. È il caso, ad esempio, della città di Haifa caduta il 22 aprile 1948, mentre le truppe britanniche lasciano la città il 24 aprile dopo aver assistito, perché presenti al porto, a come i 70.000 palestinesi di Haifa venivano letteralmente gettati in mare.
L’avanzare delle milizie sioniste lascia una scia di sangue e provoca ondate di profughi. Sono 250.000 i palestinesi che abbandonano le aree conquistate dalle milizie sioniste prima del 15 maggio, data di proclamazione dello Stato d’Israele. Sono 530 le città, i villaggi, le frazioni che le milizie sioniste, poi esercito israeliano, occupano costringendo gli abitanti ad andarsene. Sono 100 i massacri documentati e 35 quelli studiati anche dagli storici israeliani (La documentazione al riguardo è immensa: basti ricordare lo storico israeliano Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008). Nella memoria dei profughi ogni località ha conosciuto almeno un attacco violento.
Spesso si pensa che la pulizia etnica della Palestina sia avvenuta durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Solo in parte ciò è vero. È iniziata molto prima ed è continuata fino ai nostri giorni. Questo vuol dire che il trauma collettivo e i traumi personali sono continui.
Volendo attenersi alla definizione data dall UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’impiego dei profughi della Palestina, - United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), profughi palestinesi sono gli abitanti delle città occupate dai coloni europei, ma anche dei piccoli centri urbani, frazioni e località sparsi in quella parte di territorio occupato dalle formazioni militari sioniste tra il 1948 e il 1949.
L’UNRWA creata con la risoluzione 302 (IV) dell’8 dicembre 1949, stabilisce dei criteri precisi per dare la qualifica di Palestine Refugee: il profugo è 1) una persona che aveva la sua dimora abituale in Palestina tra il giugno 1946 e il maggio 1948; 2) che ha perso la propria casa e i mezzi di sostentamento per effetto del “conflitto arabo-israeliano del 1948”; 3) che risiede nell’area di competenza dell’UNRWA; 4) che è registrato come profugo dalla stessa UNRWA.
In base a questi criteri tra dicembre 1949 e maggio 1950 l’UNRWA ne contava 914.211, ma quando comincia ad operare ne assiste 960.002, cioè, li riconosce tutti come meritori di assistenza. I discendenti dei maschi registrati verranno considerati profughi e registrati, non delle femmine che procreano figli con “non registrati”.
Come considerare le diverse migliaia di palestinesi rifugiati in aree diverse da quella “di competenza” dell’UNRWA? Quest’area è definita in modo ambiguo: Near East, “Vicino Oriente”, spesso confusa nei documenti ONU riguardanti i profughi palestinesi con Middle East, “Medio Oriente”, ma nei fatti l’UNRWA opererà in Libano, Siria, Transgiordania, Cisgiordania e Striscia di Gaza. Non vengono presi in considerazione quei profughi che trovano una qualche sistemazione in Paesi come l’Iraq, l’Egitto o la Libia, per non parlare di quelli che tra 1947 e il 1949 emigrano nelle Americhe (soprattutto Argentina, Brasile e Cile) o in Europa (principalmente Inghilterra e in misura minore Italia).
Altre decine di migliaia di palestinesi vengono espulsi dalle loro case e terre, ma restano rinchiusi all’interno del territorio diventato Stato d’Israele nell’area di competenza dell’UNRWA. Sono circa 150.000, ma ne vengono registrati 49.500 considerati “Profughi interni”. L’UNRWA cerca tra il 1950 e il 1952, di dare assistenza a queste persone, ma non ha gli strumenti per farlo e i tentativi cessano dopo che il governo Ben Gurion proibisce all’UNRWA di operare nei territori che controlla. I palestinesi rimasti in Palestina verranno utilizzati per coltivare i campi rimasti vuoti e per costruire nuovi insediamenti per gli immigrati ebrei europei, dal momento che nessuno di questi sapeva coltivare la terra o fare il muratore. Infatti, tutti provenivano da grandi città dell’Europa e in misura minore dall’America dove erano intellettuali o commerciali.
Dalle liste dei profughi l’UNRWA esclude coloro che non riescono a dimostrare di avere diritto all’assistenza: gli abitanti dei villaggi, soprattutto in Cisgiordania, che hanno le case ma hanno perduto le terre, le comunità pastorali della regione meridionale del Naqab (israelizzato in Neghev) che hanno perduto le terre senza aver avuto case nel senso stanziale, e così via.
L’UNRWA organizza gli accampamenti sorti spontaneamente, a volte su terreni pubblici, altre su terreni di proprietà privata, come è il campo di Sabra, alla periferia di Beirut, sorto su un terreno donato dalla famiglia Sabra, o quello di Chatila, donato all’UNRWA dalla famiglia Chatila di Beirut; altri campi, invece, non verranno riconosciuti e i profughi saranno abbandonati a se stessi. Alcuni sono creati dall’UNRWA su terreni presi in affitto in Giordania e in Libano. I campi dell’UNRWA sono 59 (successivamente 58): 19 in Cisgiordania, 8 nella Striscia di Gaza, 10 in Giordania, 10 (poi 9) in Siria e 12 in Libano (cfr. www.unrwa.org).
In questi vengono accolti 576.000 palestinesi, vale a dire il 60% dei profughi registrati. La percentuale dei residenti nei campi diminuisce progressivamente in seguito a eventi bellici; ad esempio, secondo i dati dell’Unrwa nel 2005 i profughi registrati erano 4.255.120 di cui solo il 29,6% viveva nei campi.
Ai profughi si distribuiscono razioni alimentari che dovrebbero assicurare 1500 calorie al giorno. Una razione mensile consiste in 10 kg di farina, 600 g. di legumi secchi, 600 di zucchero, 500 di riso, 375 di grassi (Sami Hadawi, Raccolto amaro, Roma, Edizioni EAST, 1969, p. 191). La spesa media giornaliera per profugo è pari a 5 centesimi di dollaro, meno di 18 dollari di viveri all’anno. In molti casi i profughi che vivono al di fuori dei campi e i contadini rimasti senza terra invidiano coloro che ricevono l’assistenza dell’UNRWA che comprende anche sanità e istruzione. Va detto che la distribuzione delle razioni alimentari non si limita ai residenti nei campi profughi, ma copre tutti i profughi registrati. Quelli che vivono fuori dai campi profughi, devono recarsi ai punti di distribuzione situati all’interno dei campi.
Nei primi accampamenti prevale uno spirito di solidarietà e un clima carico di speranza. Nel 1949, tutto era cambiato. Lunghe file di tende bianche, montate una accanto all’altra in modo tortuoso, su e giù per le dune, coprivano la zona un tempo deserta. Le file miserabili di tende affollate erano considerate comunque un passo avanti: in precedenza la gente si era rifugiata sotto gli alberi, nelle moschee e nelle scuole. Per chi aveva nostalgia di casa, le tende potevano rappresentare il paese da cui era scappato (…). Erano persone sradicate, derubate della loro terra, ma non della loro identità e men che meno della loro coesione familiare. I gruppi mantenevano la propria struttura sociale, completa di mukhtar del villaggio (capi di hamula, ‘famiglie allargate’). I mukhtar conservavano la loro influenza, i documenti; ricomponevano le controversie e rappresentavano la comunità davanti alle autorità.
Certo, per l’affollamento c’era un prezzo da pagare. Le tende erano così vicine che i pioli e le corde si intrecciavano. Non c’era riservatezza: da una tenda all’altra ci si ascoltava involontariamente. Era inevitabile che esplodesse qualche scandalo. Ricordo che una volta un ragazzo e una ragazza furono scoperti durante l’atto amoroso. Il mukhtar li sgridò per il loro comportamento imperdonabile.
«Non ti vergogni? In questi tempi difficili fai avance improprie alla tua vicina di tenda?», chiese il mukhtar al giovane.
«Signore, la nostra tenda è affollata. Non c’è spazio per dormire. La gamba di notte mi usciva dalla tenda. A quel che sembra anche lei aveva lo stesso problema. Le nostre gambe si sono intrecciate. Cosa potevo fare? Non è colpa mia!», si scusò il ragazzo ammettendo il fatto (Salman Abu Sitta, La mappa del mio ritorno, Roma, Edizioni Q, 2019, pp. 125-126).
Nei campi profughi nasce una società nuova, data dalla commistione di comunità diverse. Non è più la comunità della singola località a connotare gli individui, ma la nuova comunità “dei campi”. E questa non si rassegna a vivere di carità. Lo smarrimento causato dal trauma personale e collettivo lascia il posto a una volontà di rinascita che dal “naufragio della società palestinese”, come lo chiama Elias Sanbar, fa emergere energie inaspettate. Dovunque fosse possibile e in situazioni ai limiti della sopravvivenza i palestinesi lavorano, si spostano, emigrano. Chi si inventa un mestiere, chi lavora, aiuta i familiari, i fratelli più piccoli. La solidarietà familiare ricostruisce il tessuto sociale, in altri termini e in altri luoghi. Spesso, troppo spesso, coloro che si aiutano, che sono legati da vincoli di sangue, non si conoscono neppure.
La vita nei campi profughi è dura. Molti aspetti e particolari saranno oggetto di una nuova letteratura “dei campi” che racconta una nuova società, talvolta in termini persino nostalgici. Ibrahim Nasrallah, nato nel 1954 nel campo profughi di Wahdat ad Amman in Giordania, fa dire a uno dei personaggi del romanzo, Dentro la notte (Nuoro, Ilisso, 2004, pp. 92-93): “Mi ero alzato. Camminavo nel buio. Mi era capitata la cosa peggiore che potesse capitarmi: dover far pipì di notte. Non mi piaceva, non mi piace, dovermi alzare a fare pipì. Non mi chiedere perché. Ci ho pensato molto. Non era la paura degli spiriti. Quelli su cui puoi fare pipì mentre cammini di notte e non li vedi.
Mia madre me l’aveva detto. Anche la nonna. Anche la vicina di casa. Ma non era questo.
Non era la paura degli spiriti che di notte potresti bagnare perché di giorno non li vedi.
Mia madre diceva che gli spiriti non uscivano di giorno. D’accordo. Ma se qualche spirito si trova costretto a fare pipì di giorno, come mi trovo a doverla fare io di notte, che cosa fa?
Non era la paura degli spiriti. Era il freddo che mi faceva paura. Nulla mi faceva paura come il freddo. Non dire che ora le cose sono cambiate, che in ogni casa c’è un bagno.
Tu lo sai bene. Dovevamo accovacciarci sotto la pioggia, scoprire il sedere, mentre le gocce cadenti ci colpivano come ceci abbrustoliti. Il rumore che la pioggia fa quando colpisce il sedere è davvero strano. È un rumore freddo che non mi è mai piaciuto. Anche il rumore che faceva quando colpiva i tetti di zinco era freddo, ma era ancora più spaventoso. Poteva in qualsiasi momento strappare quel nostro riparo e gettarlo lontano.
Le lastre di zinco volavano, saltavano da un tetto all’altro con passi lunghi, folli, selvaggi. Colpivano il nostro tetto e lo oltrepassavano. Gli uomini correvano agitati come quelle lastre.
Tu sai quanto era importante il tetto durante l’inverno. Pioveva sempre, prima che arrivasse la siccità. Tu sai bene come le lastre di zinco ti portavano a zompare nel fango, a piedi nudi, brancolando nel buio pesto, mentre le lastre saltellavano su ogni tetto seminando terrore. Tu l’avevi conosciuto quell’uomo che, insieme ai suoi figli, inseguiva il proprio tetto e, quando stava per raggiungerlo, il tetto aveva cambiato percorso, era saltato per terra, e gli aveva reciso il collo, prima di continuare a volare.
La cosa peggiore che mi poteva capitare era avere bisogno di far pipì di notte. Ci ho pensato. Per una pipì notturna soffrivamo più di quanto i ragazzi oggi soffrano per l’esame di maturità. Era davvero un problema tornare, bagnato, a ficcarti sotto le coperte, tra i tuoi fratelli. Era terribile che ti odiassero perché avevi bevuto un tè prima di dormire. Più di una volta gli avevo spiegato che era meglio urinare fuori piuttosto che urinare su di loro. Ma, incredibile, preferivano il contrario. Qualcuno di loro aveva proposto che facessimo, a turno, la pipì nel nostro giaciglio.
– Così moriamo di freddo!
– No. Prima che la prima pipì si raffreddi, arriva la successiva a riscaldare il giaciglio!
Ma chi di noi poteva restare sveglio per organizzare un’operazione così complicata?”
I campi sono molto diversi tra loro. I ripari di fortuna sono pian piano sostituiti da tende, queste si tramutano in baracche e, con il passare degli anni, diventano case costruite con blocchi di cemento; i tetti di paglia, di zinco o plastica si tramutano in tetti a terrazzo costruiti col cemento.
Le case nei campi nati sulle colline e in zone fredde, come quelli intorno ad Amman, sembrano troppo basse. Ciò è dovuto al fatto che i primi profughi che non avevano nulla per ripararsi dal freddo scavarono delle buche nel terreno dove dormivano insieme. Le buche cominciarono ad avere tende e successivamente tetti veri. In altri campi, soprattutto in Libano, le case crescono in altezza. Non mancano casi di campi, come quello di Baq’a in Giordania nato dopo 1967, in cui si ammassano 120.000 persone in 2 km quadrati. Altri ancora sono diventati vere città con zone artigianali e industriali, centri commerciali, scuole, moschee, cinema e teatri. Ne è esempio il campo al-Yarmuk vicino Damasco, divenuto presto parte della città, abitato da 240.000 persone di cui 180.000 palestinesi. Oggi il campo è del tutto distrutto e abbandonato dopo essere stato attaccato e occupato dalle formazioni militari dell’Isis e dal Fronte al-Nusra, oggi al governo in Siria.
I campi profughi sono continuamente presi di mira da parte israeliana. Gli strumenti di intervento sono diversi. Nei primi anni è l’esercito israeliano che interviene direttamente per compiere massacri, successivamente a questo si alternano le milizie create a questo scopo, come nel caso di Sabra e Chatila nel 1982, oppure di Yarmuk nel 2015. Ma lo strumento principale è il bombardamento aereo. Infatti, con la fine del 1948, la pulizia etnica della Palestina aveva raggiunto il suo obiettivo: nel territorio occupato da Israele restavano solo poche decine di migliaia di indigeni, mentre centinaia di migliaia di profughi erano ammassati lungo i confini del territorio conquistato. Per scoraggiare i profughi desiderosi di tornare a casa e nel tentativo di allontanarli il più possibile, Israele comincia a bombardare i loro assembramenti nelle zone vicine al confine. I bombardamenti aerei diventano presto una costante della politica israeliana. I centri agricoli della Cisgiordania vicini alla linea di demarcazione sono particolarmente presi di mira. Dopo la vittoria d’Israele nella guerra “dei sei giorni” del 1967, i bombardamenti sui campi profughi palestinesi in Giordania si intensificano fino al 1971, mentre proseguono contro i campi profughi in Libano fino all’anno 2000, continuando a intermittenza fino a oggi.
Cito, a mo’ di esempio, il territorio di Gaza. A Deir al-Balah nel gennaio del 1949, mentre centinaia di profughi aspettavano, nella piazza principale, il loro turno per ricevere la razione alimentare distribuita dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, gli aerei israeliani sganciarono bombe sulla folla causando centinaia di morti e feriti.
Salman Abu Sitta, uno dei pochi studiosi che esaminarono gli archivi della Croce Rossa Internazionale, scrive, basandosi su quelle informazioni, oltre che sui ricordi di testimoni oculari:
Sangue, membra e cadaveri erano sparpagliati ovunque, mescolati con la farina e l’olio versato. Fu troppo anche per la squadra della Croce Rossa, fresca degli orrori della Seconda guerra mondiale. Il team lo descrisse come un “orrore incredibile”. Quel giorno testimoni oculari contarono 225 cadaveri. Il rapporto del Comitato Internazionale della Croce Rossa descrisse l’attacco come “una scena dell’orrore”. Le missioni della Croce Rossa sono famose per la loro riluttanza a descrivere l’effettivo impatto delle guerre di cui sono testimoni per paura che le autorità locali impediscano loro di operare nel territorio. Il fatto che la Croce Rossa abbia usato un linguaggio simile per descrivere la carneficina di Deir al-Balah, avvenuta solo tre anni dopo la Seconda guerra mondiale, è significativo (Salman Abu Sitta, Mapping my Return, New York, The American University of Cairo Press (trd. it. La mappa del mio ritorno, cit.), nota 40 dove cita dagli archivi del CICR a Ginevra, il Rapporto ICRC G59 / I / GC, G 3/82, Rapporto del gennaio 1949, datato Gaza, 4 febbraio 1949).
I profughi palestinesi continuano ad aumentare: al 1° gennaio 2024 ne risultano registrati 5.900.000 di cui la maggior parte è in Giordania, 2.400.000; 1.495.000 nella Striscia di Gaza; 930.000 in Cisgiordania; 584.000 in Siria; 491.000 in Libano. L’essere registrati in una determinata regione non significa necessariamente risiedervi. Ad esempio, di quelli registrati in Libano ne risiedono, secondo le statistiche delle autorità libanesi, che praticano un controllo estremamente rigido sui movimenti dei loro rifugiati, 270.000. Ciò vuol dire che gli altri 221.000 vivono altrove. Si può dire la stessa cosa della Siria dove, dopo l’occupazione dei campi da parte delle milizie dell’Isis (Daesh), i campi profughi palestinesi sono stati quasi completamente distrutti e abbandonati. Molti dei palestinesi siriani sono fuggiti in Libano e molti altri in Turchia e da lì in Germania o altri Paesi.
Come è ovvio, l’aspirazione massima dei profughi palestinesi è far ritorno alle proprie case. E trovano nella risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU n.194 dell’11 dicembre 1949 la legittimazione politica delle loro aspirazioni. Prima dell’adozione di questa risoluzione, quando l’espulsione in massa non è ancora terminata, i profughi cercano di ritornare infiltrandosi attraverso i nuovi confini. Alcuni tornano di notte a recuperare qualche oggetto, altri a mietere il grano che avevano seminato. Per mangiare, soprattutto nelle zone di confine, i contadini palestinesi vanno a cercare il cibo nelle loro terre. C’è anche chi si arrischia ad attraversare le linee per cercare qualche familiare disperso o abbandonato. Chi viene sorpreso alle frontiere è subito ucciso. Chi viene sorpreso all’interno viene deportato. Il fenomeno acquista consistenza e alcuni infiltrati riescono a trovare rifugio presso comunità palestinesi non espulse. Di solito gli infiltrati arrivano da soli, e in alcuni casi si ricostituisce un po’ alla volta l’unità familiare. Si è dato anche il caso, nel 1950, di un gruppo di 150 palestinesi tutti infiltrati nel villaggio di Abu Ghosh, che, una volta scoperti, sono stati deportati. Il fenomeno non cessa, malgrado le ingenti forze militari impiegate ai confini per arginarlo e nonostante vengano inflitte sanzioni collettive ai villaggi che danno rifugio agli infiltrati (Nathan Weinstock, Storia del sionismo, Roma, Samonà, 1970, vol. II, pp. 22-23).
Le infiltrazioni dei profughi palestinesi cominciano a trasformarsi in incursioni di piccoli gruppi armati che, andando a riprendersi qualche oggetto nelle loro fattorie, si scontrano con i coloni israeliani divenuti nuovi padroni delle stesse terre.
Ogni incursione è seguita da una rappresaglia israeliana con bombardamenti e massacri di centinaia di palestinesi, giordani, egiziani, siriani e libanesi.
Particolare è la pressione a cui sono sottoposti i villaggi a ridosso della Linea Verde in Cisgiordania.
È in queste condizioni che nasce ed evolve il movimento della guerriglia palestinese, nascono i gruppi armati organizzati quali Fatah, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e altre formazioni minori. Tutti i gruppi fanno della “liberazione della Palestina” e del “diritto al ritorno” la loro bandiera. Ciò spiega la rapida crescita della guerriglia nei campi profughi palestinesi in Giordania, Siria e Libano dopo il 1967 e la rovinosa sconfitta degli eserciti arabi nella “Guerra dei sei giorni”. I gruppi guerriglieri uniti dentro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) hanno goduto di un largo seguito popolare anche dopo essere stati sconfitti in Giordania nel 1970 e in Libano nel 1982. La popolarità dell’OLP tra i profughi palestinesi subisce un calo drastico dopo gli accordi di Oslo coi quali la fazione maggioritaria dell’OLP, Fatah, riconosce la sovranità d’Israele sul territorio della Palestina rinunciando al “diritto al ritorno” dei profughi. In compenso acquisisce maggiore consenso popolare nei territori occupati nel 1967 dove prevale l’illusione di una prossima liberazione di quei territori e la creazione di uno “Stato palestinese”, ma svanisce anche questa e l’OLP-Fatah divenuta “autorità nazionale palestinese” (ANP) si ritrova trasformata in un apparato collaborazionista delle forze d’occupazione.
Oggi, i profughi palestinesi subiscono un altro attacco israeliano nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania dove negli ultimi giorni le forze coloniali hanno distrutto il campo profughi di Genin disperdendo 48.000 persone.
L’autore
Wasim Dahmash (Damasco 1948) è ricercatore di Lingua e Letteratura araba presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Cagliari. Tra il 1985 e il 2006 ha insegnato Dialettologia araba all’Università di Roma La Sapienza. Ha scritto numerosi saggi, tra i quali ricordiamo: Palestina: un paese sparito (1992), Voci palestinesi dell’Intifada (1989) e Palestina: versi della resistenza (1971).