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Qualifica Autore: Professore emerito di Diritto internazionale nell’Università di Bari “Aldo Moro”, docente nei Master “Tutela internazionale dei diritti umani” dell’Università di Roma “La Sapienza” ed “Esperti in politica e in relazioni internazionali” della LUMSA di Roma. Autore di numerosi libri, È stato insignito di numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali il Sapienza Human Rights Award 2024.

Mosaico di pace, settembre 2025

La “guerra dei dodici giorni” e il diritto internazionale.

Il conflitto iniziato alle prime ore del 13 giugno 2025, con i pesanti bombardamenti di Israele sull’Iran, e proseguito con l’intervento degli Stati Uniti d’America contro l’Iran nella notte tra il 22 e il 23 giugno e la risposta militare iraniana contro il territorio israeliano e le basi statunitensi in Qatar, si è concluso nello spazio di pochi giorni, mediante un cessate il fuoco tra le parti entrato in vigore il 24 giugno. La sua breve durata, che ha indotto il presidente Donald Trump a denominarlo “guerra dei dodici giorni” (come poi hanno fatto i media), ha fugato il diffuso timore che esso, specie dopo il coinvolgimento degli Stati Uniti, potesse costituire quel tassello mancante al mosaico della terza guerra mondiale a pezzi, sovente evocata da papa Francesco. Malgrado lo scampato pericolo non vi è dubbio che tale conflitto abbia messo ancora una volta in discussione la capacità di tenuta del diritto internazionale e, sul piano geopolitico, abbia innescato un ulteriore fattore di attrito nella già drammatica crisi mediorientale.

L’operazione israeliana, denominata Rising Lion, appare una palese violazione dell’art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite (ritenuto corrispondente a una norma di diritto internazionale consuetudinario), il quale prescrive, in termini estremamente ampi, che gli Stati membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. L’unica eccezione espressa a tale divieto è rappresentata dal ricorso alla forza in legittima difesa, consentito dall’art. 51 della Carta qualora abbia luogo un attacco armato contro uno Stato, da parte sia di tale Stato (legittima difesa individuale) che di Stati terzi a sostegno dello Stato aggredito (legittima difesa collettiva). L’uso della forza in legittima difesa dovrebbe avere carattere temporaneo, sinché il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Va sottolineato che il diritto di legittima difesa presuppone che abbia luogo, cioè che sia effettivamente in atto, un attacco armato ed è permesso al solo scopo di respingere e di fare cessare tale attacco. Esso, pertanto, deve rispettare un criterio di proporzionalità, per cui non deve comportare un livello d’intensità della forza superiore a quello necessario a respingere l’attacco subito.
Nel caso dell’operazione Rising Lion non vi è dubbio che non vi fosse stato alcun attacco armato dell’Iran, tale da giustificare un uso della forza difensivo di Israele. Quest’ultimo, anche nelle parole del Primo Ministro Netanyahu, ha motivato il suo intervento, diretto particolarmente contro siti usati per il programma nucleare iraniano (ma anche contro scienziati, autorità militari, leader politici e obiettivi civili), come una forma di difesa preventiva contro tale programma nucleare, ritenuto in una fase di sviluppo ormai avanzato e idoneo a minacciare l’esistenza stessa dello Stato di Israele. In una lettera del 17 giugno 2025 al Consiglio di sicurezza il Ministro degli esteri israeliano ha dichiarato espressamente che l’operazione era volta a neutralizzare la minaccia esistenziale e imminente derivante dai programmi di armi nucleari e di missili balistici dell’Iran. In essa si sottolinea che il Consiglio dei governatori dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) ha accertato che l’Iran non adempie gli obblighi di garanzia previsti dal Trattato di non proliferazione nucleare del 1° luglio 1968 (del quale l’Iran è parte, mentre Israele non vi ha aderito); e che il programma iraniano è diretto all’obiettivo, più volte pubblicamente proclamato dalle autorità iraniane, dell’annientamento dello Stato di Israele, considerato dall’Ayatollah Khamenei “a cancerous tumor that must eradicated and it will be”. Sebbene nella lettera del Ministro israeliano si accusi l’Iran anche di coinvolgimento in attacchi terroristici contro obiettivi israeliani e dell’uso indiscriminato della forza negli attacchi a Israele seguiti all’inizio dell’operazione Rising Lion, l’argomento decisivo sostenuto da Israele consiste nella necessità di prevenire un attacco imminente da parte iraniana, con armi nucleari provenienti dall’accelerazione della ricerca e dall’acquisizione degli strumenti e delle risorse richieste, tale da determinare l’annientamento di Israele.
Così impostata, la posizione israeliana fa leva sulla teoria, frequentemente sostenuta, della c.d. difesa preventiva. Al di là di sfumature e di distinguo che ne accompagnano la formulazione, essa, nella sua espressione più appariscente, può rinvenirsi nella “dottrina Bush”, ufficializzata nel documento sulla National Security Strategy of the United States of America del 17 settembre 2002.
Secondo tale dottrina, di fronte alle nuove minacce provenienti dagli “Stati canaglia” e da gruppi terroristici e all’alta probabilità che essi usino armi di distruzione di massa contro gli Stati Uniti, questi potrebbero agire con la forza in via preventiva per eliminare tali minacce, pur in assenza di certezze riguardo al momento e al luogo dell’attacco nemico. Tale dottrina fu concretamente applicata nella guerra scatenata dagli Stati Uniti contro l’Iraq nel 2003, ufficialmente giustificata con la falsa affermazione del possesso, da parte del regime di Saddam Hussein, di armi di distruzione di massa, rivelatesi poi clamorosamente inesistenti, tali da minacciare gravemente gli Stati Uniti e l’intera comunità internazionale. Anche la Russia ha cercato di giustificare la propria “Operazione speciale militare” contro l’Ucraina del 24 febbraio 2022 (considerata una palese aggressione dall’ampia maggioranza della comunità internazionale) asserendo la necessità di difendersi dalla minaccia derivante dal continuo allargamento della NATO verso la stessa Russia.
Queste tendenze (alle quali potrebbero aggiungersi alcuni sviluppi normativi nell’ambito dell’Unione africana) non si sono tradotte in una modifica dell’art. 51 della Carta (né della norma consuetudinaria corrispondente). Esse, infatti, non hanno trovato accoglimento nella comunità internazionale e nelle Nazioni Unite, che pure hanno dedicato al tema vari studi e ampi dibattiti. La dottrina sulla difesa preventiva, anzi, fu esplicitamente respinta dal Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan nel suo intervento in apertura dell’Assemblea generale del 23 settembre 2003.
Con particolare riguardo alla minaccia nucleare, va ricordato, per smentire la validità di una siffatta giustificazione dell’uso della forza, un significativo precedente della prassi internazionale. In passato il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione 487 del 19 giugno 1981, condannò severamente il bombardamento effettuato da Israele di un impianto nucleare (Osirak) in costruzione in Iraq, al fine di eliminare una minaccia contro il proprio territorio; analoga condanna fu espressa dall’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica).
Peraltro, di fronte alla minaccia di armi che, come quelle nucleari, sono tali da non lasciare alcuno spazio per un’efficace risposta difensiva, sembra che non sia azzardato riconoscere una parziale modifica dell’art. 51 della Carta (e della conforme norma consuetudinaria), per consentire l’uso della forza nell’ipotesi estrema di una minaccia di imminente attacco armato, suscettibile di pregiudicare la stessa sopravvivenza di uno Stato, verificabile oggettivamente mediante prove manifesti ed evidenti e sempre che non vi sia alcuna alternativa all’uso della forza, né il Consiglio di sicurezza riesca a prendere misure capaci di scongiurare l’imminente attacco.
Anche ipotizzando la liceità del ricorso alla forza in via preventiva nel caso di minaccia nucleare (alle condizioni suddette) l’intervento di Israele contro l’Iran non appare giustificato. Va sottolineato, infatti, che non vi è alcuna prova che l’Iran stesse preparando un attacco nucleare “imminente” a Israele; al contrario, il Direttore dell’AIEA Rafael Grossi, anche per chiarire il senso delle preoccupazioni espresse dalla stessa AIEA per l’aumento delle scorte di uranio arricchito da parte dell’Iran, il 18 giugno ha negato che l’Agenzia ritenga che l’Iran stia costruendo un’arma nucleare. Persino i responsabili dell’intelligence statunitense hanno dichiarato che, a propria conoscenza, l’Iran non sta preparando un’arma nucleare e che comunque, ove intendesse farlo, ciò richiederebbe vari anni; in definitiva, non solo un attacco iraniano, ma neppure la disponibilità di un’arma nucleare, sarebbe imminente.
Alla luce di queste considerazioni è evidente che l’operazione israeliana non può giustificarsi come legittima difesa e che, al contrario, costituisce una violazione del divieto dell’uso della forza stabilito dall’art. 2, par. 4, della Carta.
Più precisamente, l’illecito commesso da Israele è qualificabile come atto di aggressione alla stregua della sua definizione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3314 (XXIX) del 14 dicembre 1974. L’attacco israeliano, infatti, rientra nella specifica ipotesi di atto di aggressione consistente nel bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato contro il territorio di un altro Stato o l’uso di qualunque arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato (art. 3, lett. b).
Israele ha commesso delle violazioni anche del diritto internazionale umanitario, cioè quel complesso di norme volto a limitare l’uso della violenza nei conflitti armati e applicabile a tutti i contendenti, a prescindere dalla liceità o meno del ricorso alla forza armata da parte di ognuno di loro. Se, infatti, sono obiettivi legittimi di bombardamento i siti militari, non lo sono gli edifici civili, gli ospedali, le sedi di stazioni televisive, pure oggetto dei bombardamenti israeliani, così come gli scienziati uccisi perché coinvolti nel programma nucleare iraniano, ma aventi la qualifica di civili. Gli attacchi a tali obiettivi, pertanto, possono costituire crimini di guerra; beninteso, eguale qualificazione di illiceità spetta alle operazioni militari aventi analogo contenuto condotte dall’Iran nel territorio israeliano.
Come si è ricordato, anche gli Stati Uniti sono intervenuti nel conflitto, eseguendo attacchi aerei contro siti nucleari in territorio iraniano. L’operazione, chiamata Midnight Hammer, è stata ufficialmente giustificata, nel dibattito svoltosi nel Consiglio di sicurezza, quale esercizio del diritto di legittima difesa collettiva da parte degli Stati Uniti a sostegno dell’alleato Israele.
Sul piano operativo l’intervento statunitense, a differenza di quello israeliano, sembra avere rispettato il requisito della proporzionalità rispetto all’eventuale attacco che si intendeva respingere, in quanto si sarebbe limitato a colpire siti nucleari in Iran. Ma è evidente che, in assenza di un attacco armato (in atto o almeno imminente) contro Israele, non sussiste neppure il diritto di legittima difesa collettiva degli Stati Uniti, che sarebbe configurabile solo per assistere Israele contro un tale attacco. Anche il ricorso alla forza degli Stati Uniti, pertanto, costituisce un atto di aggressione.
La condanna della “guerra dei dodici giorni” come grave violazione del divieto della forza non significa sottovalutare il pericolo che il programma nucleare iraniano potrebbe rappresentare sia per Israele (che, da parte sua, risulta già in possesso dell’arma nucleare), che per la sicurezza dell’intera area mediorientale. Ma va sottolineato, anzitutto, che l’Iran, come ogni Stato parte del Trattato di non proliferazione nucleare, ha il diritto inalienabile di promuovere la ricerca, la produzione e l’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare (art. IV). Inoltre, di fronte a eventuali minacce o pericoli per la pace derivanti dai programmi nucleari iraniani, spetta al Consiglio di sicurezza intervenire nei suoi confronti; cosa che esso ha fatto in passato, adottando un regime di sanzioni a causa del programma di arricchimento dell’uranio dell’Iran. Lo stesso Consiglio di sicurezza, a seguito di un accordo raggiunto il 14 luglio 2015 dall’Iran con i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, la Germania e l’Unione europea e della conferma, da parte dell’AIEA, che esso aveva adempiuto gli obblighi concernenti il proprio programma nucleare, con la risoluzione 2231 del 20 luglio 2015 aveva revocato il regime sanzionatorio. Ma nel 2018 gli Stati Uniti si sono ritirati immotivatamente dal suddetto accordo e hanno stabilito proprie sanzioni unilaterali contro l’Iran.
Ora, come chiedono a gran voce gli Stati occidentali e l’Unione europea, Stati Uniti e Iran dovrebbero sedersi nuovamente a un tavolo negoziale, in un clima, peraltro, di tensione e di sospetto e con scarse prospettive di raggiungere in tempi brevi un accordo (del quale, invero, non è neppure chiaro quale dovrebbe essere l’oggetto). Per ora rileviamo che, mentre vari Stati, tra i quali la Cina, la Russia e i membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica, hanno espressamente condannato gli attacchi israeliano e statunitense, i Paesi occidentali e l’Unione europea, così solleciti e rigorosi nel censurare l’aggressione russa all’Ucraina, si sono ben guardati dal proferire la benché minima riprovazione. Essi hanno mostrato un atteggiamento di doppio peso, la falsità del loro decantato ossequio al diritto internazionale, la loro omertà di fronte a gravi illeciti, se commessi da Paesi amici (come in quello che assume sempre più la fisionomia di un genocidio a Gaza, rispetto al quale l’Unione europea non ha neppure sospeso l’Accordo di associazione con Israele). Colpiscono, in particolare, e indignano le parole del Segretario generale della NATO Mark Rutte, il quale, senza addurre il benché minimo argomento, ha dichiarato che l’attacco statunitense in Iran non è in contrasto con il diritto internazionale; e la cinica e spudorata espressione del Cancelliere tedesco Friedrich Merz: “Dobbiamo ringraziare Israele. Sta facendo il lavoro sporco per l’intero Occidente”!
Comportamenti siffatti minano la credibilità non solo del Mondo occidentale e dei suoi valori, ma, quel che è peggio, del diritto internazionale. La sua vigenza e il suo rispetto, specie in tempi di così gravi crisi, andrebbero invece vigorosamente rivendicati poiché, nelle relazioni internazionali, quando viene meno la “forza del diritto”, non resta che il “diritto della forza” e del sopruso.


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