Mosaico di pace, settembre 2025
Viaggio attraverso la loro memoria. Una pagina di Storia poco conosciuta, una forma di resistenza.
“Wietzendorf domenica 19 settembre 1943 – verso sera tutti radunati in una grande spianata battuta dal vento. La distesa dei prigionieri è enorme. Migliaia e migliaia di uomini. Un ufficiale tedesco, aiutato da un interprete arringa la massa dei deportati. Accanto a lui c’è il console generale di Amburgo Oderigo”. Aizzato dal tedesco, urla il grande dilemma: “Volete rimanere prigionieri e quindi essere considerati traditori oppure arruolarvi nelle SS italiane sotto il comando tedesco?”. Chi scrive è un giovane allievo ufficiale: “Accanto a me un barbuto alpino dice: ‘Di là non si può vivere con loro, di qua si può morire. Io resto di qua. Penso ai miei vent’anni. Decido: rimango anch’io, meglio morire che dannarsi, non ci resta che questa libertà” (Monchieri, Diario di prigionia, Anei, 1999, pag. 23).
Per non dannarsi, salvo pochissimi che optarono, in massa scelsero il lager e non lo scelsero una volta sola, ma continuamente fino alla fine, perché i tedeschi agirono per gradi e insidiosamente nei confronti degli italiani. Prima offrirono il combattimento al loro fianco, poi dopo, promettendo il ritorno in Italia, il combattimento con Mussolini e la Repubblica Sociale, infine, senza più obblighi di combattimento, lo status di lavoratori civili e il lavoro in Germania, cosa che non avrebbe dovuto interferire con la volontà espressa più volte di voler restare fedeli al giuramento fatto al re. Ma il “NO” degli italiani li disorienta, li inferocisce e intanto infuria implacabile la fame.
Non solo fame
“Sono già diciotto mesi che soffro la fame ma ogni giorno è una cosa nuova” – scrive Giovannino Guareschi nel suo diario clandestino. Si fa presto a dire fame ma resistere quotidianamente alla fame richiede più forza che esporsi alla morte nella eccitazione della battaglia, specie quando la possibilità di soddisfarla era lì a portata di mano. Infatti, i tedeschi per raffinata crudeltà facevano sfilare davanti alla massa affamata gli optanti con abbondanti razioni di pane tra le mani, gavette ricolme di buona zuppa e sigarette. Nella memoria dell’agosto 1945 del magg. Beniamino Andreatta si legge: “La fame arriva a tal punto che un gruppo di ammalati di tubercolosi, a Fullen, viene sorpreso di buon mattino dalle sentinelle, mentre tra i magri rifiuti della cucina e gli avanzi del campo cerca delle bucce di patata: fatti segno alle fucilate delle sentinelle due malati vengono colpiti ed uno di essi muore. Al direttore sanitario che formula le sue proteste, il comandante tedesco fa presente che il mangiare le bucce di patate poteva far male”! (ACS, PCM segreteria De Gasperi, b. 33). Dunque, basteranno pochi mesi per ridurre gli italiani a delle larve: quattrocento -ventisei-ottantasette /non più uomo: numero/ bucce di patate marce/ rape ben gialle e rosse da foraggio/ margarina minerale qualche grammo/ pane: paglia triturata, segatura d’alti fusti iperborei, acqua e sale. Poco perché tu viva, troppo perché tu muoia/ Dura prigioniero, Wietzendorf, 1944. (La poesia è di Umberto Zanolli in AAVV, Nel cinquantesimo della Liberazione, ANEI, 1995, pag. 48). E, infatti, durarono tra la meraviglia e la rabbia degli stessi carcerieri. Fu un fatto di eroismo inedito nella Storia militare, individuale e collettiva, il collante era il sentimento antitedesco di antica e di recente acquisizione, chi era stato in Russia con i tedeschi aveva già vissuto un’anticipazione di lager, ma sotto di essa si nascondevano istanze morali, patriottiche, religiose, sentimento dell’onore e della dignità e anche l’esempio di uomini di grande tempra morale (come il tenente-col. Pietro Testa, il ten.-col. Alberto Guzzinati, il cap. Giuseppe De Toni e tanti altri) che seppero essere per la massa dei capi, indipendentemente dai loro gradi gerarchici, motivandola e trascinandola alla resistenza e impedendo che si sbandasse. Ciò che comunque li tenne saldi nel loro proposito fu la coscienza di fare qualcosa di utile per il proprio Paese, di riscattare se stessi e la patria.
Resistenti
Non erano stati degli imbelli che si erano arresi, e non erano stati dei disertori che erano fuggiti per tornare a casa. Armando Ravaglioli, nel suo diario, forse esprime il pensiero di molti: “Ho certamente cose di cui pentirmi, delle quali le prese di posizione attuali di resistenza alle intimazioni tedesco-fasciste vogliono costituire un riscatto certamente costoso… Posso dire in coscienza che non mi pento di aver partecipato a questa orribile vicenda della guerra senza sottrarmene come tanti hanno fatto. Preferisco essere qui a soffrire, uno fra tanti, e far tesoro di sacrifici comuni e di considerazioni sull’animo umano di cui questa esistenza è una prodiga maestra” (Ravaglioli, Continuammo a dire no, Roma centro storico, 2000, pag.81).
La vita nel lager
Com’era e in che consisteva la vita ordinaria in un lager? Dopo la cattura e il disarmo, c’era subito, in vista dello smistamento nei vari lager della Polonia e della Germania, la separazione dei soldati dagli ufficiali e degli ufficiali superiori dagli inferiori, poi all’arrivo nel lager di destinazione, l’immatricolazione, la fotografia con un cartello al collo, la consegna della piastrina con il numero del prigioniero e l’indicazione del lager, gli estenuanti appelli della durata di ore e ore in piedi sugli attenti, all’addiaccio con qualunque tempo, le umilianti disinfestazioni, le perquisizioni improvvise e vessatorie, anche di notte, infine i continui trasferimenti da un campo all’altro, in marce forzate a piedi o in vagoni piombati. Ma lasciamo la parola ai diretti testimoni. Che cos’era un appello lo descrive don Luigi Pasa, cappellano a Beniaminowo, Sandbostel, Wietzendorf: “Solo chi è stato prigioniero sa cosa si intende dicendo appelli: due volte al giorno… all’aperto, poteva piovere, nevicare, tirare vento, poteva soffiare la più gelida tramontana, non ci risparmiavano quel supplizio e pensate che la maggior parte di noi era vestito con abiti di estate... E vedeteci immobili e muti coi piedi nel molle, nell’acqua che ci grondava addosso… ecco che uno si accasciava svenuto, ecco che un altro cadeva di peso come tramortito… Ci sono momenti nella vita di ciascun individuo in cui si preferirebbe morire e essere morto: uno, e non certo il meno motivato, fu per noi il primo contatto con la vita del campo” (Pasa, Tappe di un calvario, Napoli, 1969, pagg.37-77).
Così, Alessandro Natta: “Si era nel pieno dell’inverno. La neve ricopriva ogni cosa. Usciti dal campo italiano la prima tappa fu subito la disinfestazione e la doccia. In un camerone ti spogliavi e in un altro con pennelli atti a imbiancare pareti, qualcuno ti spalmava i peli con un liquido oleoso – e spesso i tedeschi a quel servizio adibivano donne, naturalmente di popoli inferiori – in un terzo eri costretto sotto l’improvviso getto d’acqua o bollente o gelida e se ti insaponavi correvi il rischio di non fare a tempo a liberarti dal sapone, in una quarta immensa sala ci si doveva asciugare sotto l’effetto dell’aria calda proveniente da grandi sfiatatoi. Di solito aria non ne usciva né calda né fredda e quell’ammasso di uomini, interamente nudi, scheletrici, finivano per vincere il naturale pudore e per schermirsi dal freddo avvicinandosi e stringendosi gli uni agli altri… a Sandbostel, dopo il bagno fummo fatti uscire all’aria aperta, nudi sulla neve. I nostri abiti avevano aggiunto al puzzo naturale quello ben più ripugnante dei gas della lavatura a secco, erano sparpagliati in un disordine voluto e furono necessarie ore perché ognuno di noi potesse rientrare in possesso dei propri stracci. Poi la ferocia degli aguzzini nazisti si sfogò nella perquisizione. Eravamo nei Lager da più di un anno, avevamo subito centinaia di controlli, eppure la perquisizione era prevista all’entrata e all’uscita di ogni campo di concentramento. Non poteva quindi mancare e quella di Sandbostel ebbe – per evidenti ragioni (si cercavano radio clandestine) – un più netto carattere persecutorio. Si passava in una specie di corridoio tra due file di SS e di gendarmi, i quali più che preoccuparsi degli zaini aperti e del loro contenuto, si accanivano a percuotere e a strappare a caso a chi una povera maglia, a chi un pezzo di tela da tenda. La giornata trascorse così tra i pericoli della disinfestazione e le umiliazioni delle percosse e degli insulti, nel freddo atroce e senza cibo, perché i trasferimenti offrivano sempre ai tedeschi l’occasione buona per toglierci i viveri” (Natta, L’altra resistenza, Einaudi, 1997, pagg.122-128).
Negli spostamenti da un campo all’altro venivano utilizzati oltre le marce forzate a piedi, i viaggi in treno che sono rimasti nella memoria angosciosi come un incubo. Così nella lettera al figlio lo ricorda Aldo Marcoaldi: “Ancora un treno, due giorni interi / dentro vagoni sigillati. Cresce l’intolleranza / tra corpi che giacciono vicino / ma quando il treno ferma / e comincia la marcia della neve / rimpiango quel calore acre, farmaco / provvisorio contro il ghiaccio del destino” (Marcoaldi, Benjaminovo: padre e figlio, Bompiani, Piacenza, 2004, pag.28). Ma riviviamo uno di quei viaggi nel racconto-diario di Padre Costantino Di Vico: “Il convoglio che ci attendeva in stazione era formato da dei vagoni bestiame tutti recinti di reticolati; sono stato assegnato al trentesimo carro bestiame assieme ad altri quarantanove colleghi… cinquanta uomini in sì breve spazio. Alle 21,15 gli sportelloni sono stati chiusi dal di fuori: sigillati. E noi rinserrati dentro, senza luce, senza una goccia d’acqua, senza paglia su cui stenderci, senza un chiodo al quale appendere le nostre cose perché non togliessero spazio vitale ai nostri corpi che avrebbero voluto stendersi un poco per riposare! E si aggiunga l’incomprensione e l’arroganza e la prepotenza di alcuni… la prigionia in Germania ci sta abbrutendo… È notte, siamo nel buio senza finestre: non riesco a seguire le stazioni che attraversiamo né a immaginare se si va verso nord o sud o est o per altrove! Si viaggia alla cieca. Il nostro carro scivola rumoroso sulla strada ferrata con stridori di ruggine, traballando a volte paurosamente specie in curva quasi volesse catapultarci chissà dove! Magari almeno avrebbe tutto fine…! Dentro, corpi che si urtano, si battono fra loro! Chi reclama di dover fare necessità di natura e non sa dove, né come! Non c’è spazio… Qualcuno suggerisce un’iniziativa: si faccia una buca all’angolo del carro, opposto al senso di marcia per l’uso di tutti. Ecco un temperino minuscolo in possesso di uno dei presenti; eccone un secondo. Bastano, all’opera, a turno. Il treno vola… le sentinelle finché si cammina non si accorgeranno di niente”. Ma all’incubo del treno si associa anche quello dei bombardamenti degli aerei alleati che fecero molte vittime nei Lager. “Gli aerei continuano il loro carosello di fuoco e noi da dentro a bussare forte e più forte ancora perché ci aprano. “Disgraziati, apriteci” – grida un ufficiale. Nessuno si commuove e le porte dei carri restano inesorabilmente chiuse. Gli aerei scompaiono. Si respira…” (Di Vico, Un uomo pericoloso per il Terzo Reich, Rieti, 1994, pagg. 248-250).
A questi rituali persecutori dobbiamo aggiungere per i soldati, cui la Convenzione di Ginevra non impediva di lavorare, la vessazione di un lavoro fuori dal lager, sotto la custodia di sorveglianti aguzzini, che però poteva procurare un po’ di cibo in più, specie per quei soldati addetti ai lavori agricoli, mentre per gli ufficiali, fin quando non si impose anche per loro l’obbligo del lavoro, non c’era scampo alla fame e alla monotonia di una vita sempre uguale e interrotta solo da un’angustia più grande – quelle all’ordine del giorno erano gli insulti, le percosse, i morsi dei cani che venivano aizzati contro, le ruberie durante le perquisizioni, ma ci potevano anche essere le uccisioni indiscriminate e arbitrarie per futili motivi, al di fuori di qualsiasi legge internazionale o codice militare sia pure di guerra. Inoltre, incombeva su tutti il peso schiacciante del vivere insieme, in uno spazio ristretto, super affollato in baracche malsane, infestate da topi e parassiti e stipate di letti a castello a mo’ di loculi, l’uno sull’altro. I servizi igienici, quando c’erano, erano all’esterno, nonostante le temperature rigidissime della notte e ad essi si poteva accedere solo con l’assenso delle sentinelle e quindi chi ne aveva bisogno era alla loro mercé (inoltre la dieta, solo a base di carboidrati, aumentava la diuresi). Il pericolo più grave, la tentazione più forte della prigionia è quella di lasciarsi andare ad una vita solo vegetativa, da automi: le gambe si muovono meccanicamente per l’appello, per la sbobba, ma l’anima è altrove. “I trucioli del mio pagliericcio – dice con grande intensità Giovannino Guareschi – sono diventati polvere ed in essa navigano le mie ossa. E mi sento come un naufrago” (Guareschi, Diario clandestino, Rizzoli, 1991, pag.173). Si può impazzire o cadere in una nevrastenia schizofrenica, i casi non sono infrequenti. “Un granatiere impazzito si è spogliato nudo e andava distribuendo i suoi poveri cenci urlando: - Sono ricco, mangiate, sono ricco! Lo hanno abbattuto con un colpo in testa” (Monchieri, op. cit., 25).” Nella mia baracca ben tre compagni sono già impazziti. / Mario è morto di fame, / ma sotto il tavolaccio/ hanno trovato pane. Il derelitto /crepava, ma intanto accumulava” (Marcoaldi, op.cit., pag.56). Nelle parole dell’alpino Astolfo Landi, la rappresentazione di questo stato di totale annichilimento: “Mi ricorderò sempre di quei 18 mesi di prigionia, non ho mai visto un prigioniero sorridere. Si era sempre con il pianto nella bocca. Con pazienza si cercava di aspettare la fine della guerra per chi ha avuto la fortuna di vederla finire. Non si sapeva in che giorni si viveva; ci accorgevamo solo quando cambiava stagione per capire se era estate o inverno. Si sapeva quando era Natale o Pasqua perché in quei due giorni non si lavorava, altrimenti non c’era né inverno né freddo né pioggia che ci facevano smettere il lavoro, sempre costretti a lavorare per non essere fucilati” (Falletto Landi, Ai giovani perché sappiano, Aosta, 1995, pag. 27). L’inattività e l’ozio forzato per gli ufficiali sono la porta aperta alla depressione. Le meditazioni ad occhi aperti scavano nell’anima abissi insondabili. Oltre il filo spinato si scorge solo la morte e la morte turba i giovani che hanno vent’anni come confessa Enrico Zampetti alla fidanzata Marisa: “Deblin, 14 febbraio 1944 – È il terzo che muore in questi mesi. Tu non immagini quale impressione produca una morte fra tanto grigiore. Non è sentimentalismo. Lontano dai cari e dalla patria, sul feretro (il carro della verdura) che porta la bara allo squallido cimitero, grava una disperazione che solo la religione può dissolvere. I colleghi che sono andati a rendergli l’estremo saluto hanno portato di ritorno sui loro volti stanchi, il segno di questo dolore, del quale si ha paura perfino di parlare e che pesa come una minaccia sospesa. La morte, il mistero che ai santi è così gaudioso, a noi poveri disgraziati dà soltanto terrore” (E. Zampetti, Lettera alla fidanzata, in AAVV, Militari romani nei lager nazisti, ANEI, 1981, pag.26). La forza per reagire più spesso viene dalla preghiera e da un ritorno di fede per chi l’aveva già o da una ricerca per chi ne era lontano. Lino Monchieri nella sua “Via Crucis dei Lager” confessa di aver trovato la forza e la fiducia per resistere nel salmo 90 della Bibbia: “Signore, tu sei il mio rifugio! Nessun male mi potrà accadere né flagello alcuno mi colpirà. Passerò in mezzo a vipere e leoni, draghi e scorpioni ma senza provare danno alcuno. Poiché sono affidato al Signore, io la scamperò” (Monchieri, Via Crucis dei lager, Anei, Brescia, 2000, pag.35). Egualmente Armando Ravaglioli nel mistero della Croce fonda la fiducia nella salvezza: “20 settembre 1943, bivio di Konitze. Nella notte incipiente ho contemplato il cielo stellato: è immenso, staccato e freddo. Ma c’è qualche infinitesimo di luce che palpita e questo mi richiama all’idea di Dio che vede e che certamente non si estrania da questo travaglio. Tante preghiere stanno filando verso di Lui da infinite parti della terra, mi consola il pensiero che alcune di queste mi concernano … e allora mi rivolgo al consolante pensiero del Cristo che soffre ma risorge, prototipo di ogni uomo tormentato ma che sa conservare amore e speranza: Da qualche parte si sta certamente dipanando la nostra sorte” (Ravaglioli, op. cit., pag.29). Lo stesso Alessandro Natta, laico e comunista, così scrive: “L’opera di consolazione, di conforto, di speranza dei sacerdoti giovò senza dubbio a rafforzare la volontà ed a dare fiducia nella giustezza di quel sacrificio che gli italiani subivano ed accettavano” (Natta, op. cit., pag. 73). E così grazie anche al sostegno dei cappellani militari gli italiani sanno morire, dovunque, con dignità: “Nessuno vidi morire con un senso di disperazione nell’animo” – dice un cappellano, Don Giuseppe Barbero dello Stamlager di Dortmund – “il dolore li aveva purificati, avvicinati a Dio. Erano rassegnati, anzi contenti di morire; ormai per loro la morte non segnava che la fine delle sofferenze e l’inizio di una grande gloria in cielo” (Barbero, in Canova, Italiani nei lager, Grafica Rossi, 1993, pag.77). Si moriva con il nome sulle labbra dei propri cari, con l’invocazione della mamma. Naturalmente la famiglia era il pensiero dominante. Con essa gli internati potevano scambiarsi solo comunicazioni formali asettiche, consentite dalla censura, che non davano vero ristoro all’animo esulcerato. Tuttavia, le lettere erano il filo che attaccava alla vita, ai progetti per il futuro e che comunicavano la voglia di farcela e di ricostruire quello che la guerra aveva distrutto. È quanto traspare da una lettera alla moglie Anna del generale dei granatieri Alberto Trionfi: … “Vorrei tanto poterti aiutare in qualche modo per facilitare la vita a te ed ai figlioli nostri, purtroppo però, cosa posso fare disgraziato prigioniero come sono? Non avere esitazione a disfarti di ciò che ora non serve e rappresenta le nostre economie. Mi devi promettere che lo farai. Un giorno rientrato in Patria e riacquistate le mie forze, se Dio mi aiuterà, ricostruirò il perduto e non avrò pace fin quando potrò dire di aver riguadagnato tutto il tempo che ora forzatamente mi fanno perdere. Stai tranquilla. Io sto benissimo, pur essendo deperito, ma mi sento ancora capace di lavorare soprattutto per te e per i nostri ragazzi. Ma tu sii calma e serena più che puoi e prega molto che n’avrai conforto come l’ho io. Ti bacia, Alberto tuo” (dall’archivio privato della famiglia Trionfi). Ma al generale Trionfi non fu concesso di tornare in seno alla famiglia teneramente amata, fu abbattuto da una fucilata di un SS durante una marcia di trasferimento da Schokken (attuale Skokki) in Polonia Oflag 64 Z (il Lager dei generali) a Shelkow (attuale Kusnica Zelichowo) il 28 gennaio 1945 e dopo aver percorso centinaia di chilometri a piedi. Un efficace antidoto contro la dissociazione mentale era per quelli più acculturati tenere la mente occupata con qualche attività intellettuale come, per chi ne era dotato, il disegno e la pittura. Ne sono rimasti, come singolare documento, gli inquietanti disegni dei pittori dei Lager. Molti furono quelli che si attaccarono a scrivere un diario con grandissimo rischio perché il regolamento vietava al prigioniero di tenere diari: sorpresi si poteva essere passibili di un crescendo di punizioni fino alla pena capitale per “sabotaggio contro la sicurezza del Reich”. Eppure, tanti diari sono nati là in quei giorni di passione, scritti sul più strano materiale cartaceo e occultati nei posti più inverosimili. La diaristica è fiorita in gran parte fra gli ufficiali che avevano più tempo libero e familiarità con la scrittura; perciò, poco sappiamo dei campi esclusivamente dei soldati, che, dovendo lavorare per ore e ore e rientrare a piedi, non avevano possibilità né mezzi per applicarsi a scrivere. Invece nei campi per ufficiali di Sandbostel e di Wietzendorf, grazie anche allo spirito organizzativo dei responsabili italiani ed alle concessioni che riuscirono a strappare ai tedeschi, fiorirono delle vere e proprie attività culturali con addirittura corsi universitari, in cui si insegnavano le più diverse discipline e finanche teatro – internato era anche l’attore Gianrico Tedeschi – e si costruiva un giornale parlato con articoli che venivano recitati. Si organizzò anche una biblioteca circolante con quei pochi testi che qualcuno si era portato perfino in campo di concentramento e con quelli che si riusciva a far comprare, in lingua italiana, dalle librerie tedesche. I continui trasferimenti da un campo all’altro poi permettevano la circolazione delle idee attraverso contatti, rapporti sempre più stretti, dibattiti, insomma il lager divenne, a dispetto dei carcerieri, a poco a poco una palestra in cui si esercitava l’ingegno e si imparavano le regole della democrazia in previsione del ritorno in un’Italia nuova libera e mai più fascista. Dice Alessandro Natta che in lager si giunsero a leggere quei libri che in Italia erano vietati. Insomma “quanto bisogno di resistere per sopravvivere in quell’inferno nazista” e “quanto bisogno di credere!“. Tuttavia, l’astuzia e l’ingegno degli italiani riuscivano spesso a sconfiggere l’occhiuta vigilanza dei tedeschi, ad esempio, nella costruzione ed occultamento di radio clandestine, considerati un reato gravissimo parificato ad un attentato al Reich. Dice Giovannino Guareschi: “Gli italiani sono bravissimi in queste faccende ed io una volta in Polonia durante un trasferimento da un campo, vidi un tenente siciliano uscire dalla baracca della perquisizione in camicia perché lo avevano fatto spogliare e ricordo che teneva sulle braccia il fagotto dei suoi vestiti e dentro il fagotto c’era una grossa radio a sei valvole”. Gli italiani sanno arrangiarsi meravigliosamente, per esempio, gli apparecchi radio nascevano dal niente. Bastava una valvola, il resto lo si fabbricava tutto in casa, compresa la cuffia e le pile e il complesso stava comodamente dentro una gavetta e funzionava in tal modo che, quando il Signor Churchill ancora parlava, per le baracche giravano già i biglietti con la prima parte del discorso tradotta in italiano E i bollettini che alimentavano la speranza e quindi la resistenza erano attesi quasi come la razione di pane. La più famosa di queste radio era stata battezzata “Zia Caterina” ed era stata costruita a Sandbostel da un ingegnere di Torino, Oliviero Olivieri. La realizzazione di questa radio ebbe del miracoloso perché i pochi mezzi a disposizione erano mezzi di fortuna (un barattolo, della brillantina, alcune monete, un portasapone, un filo, un pezzo di carbone, della stagnola) certamente non idonei alla bisogna. Eppure, l’inventiva e la genialità di Oliviero riuscirono a costruire l’apparecchio desiderato. Con la sua radio Oliviero captava quella di Londra, quella di Parigi, di Bari e la sua “equipe” diramava le notizie alle singole baracche. Essa aveva un valore incommensurabile costituendo l’unico legame con il mondo ed un filo invisibile che appagava l’ardente bisogno di sapere che cosa stava accadendo intorno a loro. La “Zia Caterina” era vegliata da una rete di controspionaggio intelligente e capace perché quasi ogni giorno la Gestapo la ricercava, schiodando i pavimenti delle baracche, aprendo buchi nei muri, salendo sui tetti e se ne ritornava a mani vuote anzi quasi ogni volta finiva con il perdersi qualche attrezzo sottratto da mani abilissime nella confusione delle perquisizioni. Sopravvisse anche quando i tedeschi per farla tacere sospesero l’erogazione di energia elettrica. Ebbe allora la sua brava batteria costruita con mezzi di fortuna e grande sapienza: un prezioso contributo lo fornì un soldato tedesco che per dieci minuti lasciò la sua bicicletta, munita di dinamo, fuori dalle baracche del comando italiano. Un italiano sotto gli occhi delle sentinelle, svitò la dinamo della bicicletta, tolse il filo di rame dell’avvolgimento e poi riavvitò la dinamo alla bicicletta ed ecco procurata la bobina di cui abbisognava la radio. In mezzo a tutto questo trambusto e con il rischio per i suoi custodi di finire al muro (molti ufficiali ritenuti propagatori di notizie o detentori di radio pagarono con il carcere duro o con lo Straflager), la “Zia Caterina” continuò come poté a tenere alto il morale degli internati. “Lentamente ma sicuramente si avvicina la fine. Ogni giorno che passa è un giorno di meno, anche se è uno di più di sofferenza. Torneremo e presto ma torneremo a testa alta per il nostro dovere compiuto fino in fondo e chi non potrà tornare non sarà caduto per nulla” (De Toni, Non vinti, Brescia, 1980, pag. 179). Il ten. Ivo Grippaudo, che si trovava a Vesuvé vicino al confine olandese, in un campo speciale di rieducazione, così racconta il propalarsi delle notizie: i soldati italiani, noleggiati ogni mattina dai tedeschi agli olandesi, rientrando la sera al lager, portavano le notizie e i messaggi di Radio Londra “Dite ai vostri ufficiali che resistano” “Dite che tutto il mondo saprà un giorno della loro resistenza e del loro comportamento eroico” “Dite che tutto il mondo saprà del contributo, militarmente anche determinante, da loro dato alla lotta di liberazione” “Dite che la liberazione è vicina” “ Dite che è vicinissima” “Dite che sono sbarcati e che lo sbarco è riuscito” (Grippaudo, Ricercando un lager di nome Vesuvè, non edito, pag.18). Così grazie alla rete di informazione della Resistenza nei lager, la notizia dello sbarco americano in Normandia e della liberazione di Roma arrivò agli internati prima che ai tedeschi. Per lo sbarco in Normandia a Sandbostel gli italiani riempirono di barchette di carta delle grandi pozzanghere che si erano formate nel campo per un acquazzone. I tedeschi, all’oscuro delle notizie, non capirono. Vittorio Emanuele Giuntella, professore romano e tenente degli Alpini della Divisione Julia, internato a Sandbostel, ce ne fa un emozionante racconto che collega idealmente la Resistenza nei lager con quella che era in atto in tutta Italia e che a Roma era costata tante vite umane. Quando dalla radio “Caterina” si seppe che Roma non era più dei tedeschi, gli internati romani si trovarono sul piazzale all’appello a felicitarsi e ad abbracciarsi e la gioia li spinse a cantare un canto insolito a gola spiegata, insolito in quella situazione ma che bene esprimeva la loro ebbrezza: “l’Inno a Roma”. “Sole che sorgi libero e fecondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma”. Era un canto di cui il fascismo si era appropriato per esprimere, attraverso quei versi di ascendenza oraziana e la musica di Giacomo Puccini, i suoi anacronistici miti imperialistici. “Ma quel pomeriggio – dice Vittorio Emanuele Giuntella – il sole anche per noi non poteva mirare nessuna cosa al mondo più bella della nostra Roma liberata dal tallone di ferro per restituirla alla sua missione civile e religiosa”. “Giovanni Emilio Ipsevich, uno dei romani presente a Sandbostel, raccontava di aver udito dalla viva voce della “Zia Caterina” il grido di liberazione dei romani nella piazza di S. Pietro e gli era sembrato di starci anche lui e io lo invidiavo perché per un attimo almeno aveva respirato l’aria di casa” (Giuntella, in Roma città aperta, Capitolium, anno XXXIX n. 6, giugno 1964). Questa espressione esprime bene la nostalgia di cui soffrono terribilmente tutti gli internati che sognano ad occhi aperti di ritornare e, sempre nell’immaginazione, di mettersi a tavola a fare grandi mangiate di tutte quelle specialità e quei piatti della nostra buona tradizione regionale italiana. Il cibo infatti dominava le fantasie oniriche di tutti e si caricava di capacità evocative e simboliche, diventava il profumo della casa lontana, la nostalgia della madre, il richiamo della patria, il desiderio della sessualità. “C’era una volta la tovaglia: era un candido rettangolo di civiltà sul quale scintillavano cristalli, porcellane ed argenterie; ed ai margini del quale sbocciavano due volte al giorno i fiori festosi delle vesti della mamma, i pomelli rossi e i capelli d’oro dei bambini e i baffi neri ed il sacrosanto appetito di papà” (Guareschi, op.cit. pag.175). Uno spettacolo terribile era quello quando i tedeschi per setacciare i pochi pacchi arrivati dalle famiglie nei lager, li straziavano a bella posta e “sotto le loro mani lo zucchero si mescola con la farina, il riso con il tabacco, le farine si spandono e si sporcano, il salame viene tagliato in mille pezzi” (Di Leo, Diario di prigionia, Fabriano, 2000). Vittorio Emanuele Giuntella dice che i romani in quei luoghi di reclusione per sentirsi meno estranei, avevano fondato un’associazione dei romani all’estero, nata a Deblin, in Polonia, il gruppo si era poi ingrossato a Beniaminovo, Sandbostel, Wietzendorf. Avevano rinsaldato vecchie amicizie, insieme avevano superato le burrasche delle adesioni. “Solo una piccolissima percentuale dei romani – sottolinea Vittorio Emanuele Giuntella – erano andati a firmare nel baracchino del comando tedesco, pochissimi per convinzione, i più perché non ce la facevano più per la fame. Bastava una firma su un modulo predisposto e quel mondo di fame e di morte si sarebbe dissolto per sempre”. Dichiara lo stesso Giuntella in un’intervista: “Nel Lager io ero a posto con me stesso e con la mia coscienza, ero finalmente dalla parte giusta. Perciò vissi nel lager come un combattente. In Grecia era stato diverso. Sapevo che indossavo una divisa che per loro era il segno dell’oppressione, dell’attacco traditore. In Germania, no! Ero tranquillo con la mia coscienza, ero dalla parte giusta” (AAVV, ANEI, Quaderno numero unico per il XX Congresso nazionale ANEI Brescia, 2000, pag. 35). Per questo continuarono a dire “NO”, anche se il gruppo si assottigliava sempre più per la tubercolosi, per la fame, per i bombardamenti e per le sevizie. Di romani nei lager ne sono rimasti 799, come risulta dall’elenco dei militari romani nei lager nazisti: 1943-1945 (AAVV, ANEI, op.cit, 1981 pagg.6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13). Moltissimi, a guardare la data di nascita, avevano vent’anni o poco più. È la storia di un gruppo di italiani tra altri italiani che fecero serenamente il proprio dovere senza atteggiarsi ad eroi e senza sperare in ricompense (che peraltro non ci furono!). Eroi furono quelli che sono morti e quelli, molti, che colpiti da gravissimi mali, restarono, pur sapendo che, aderendo, si sarebbero salvati. Ma quel “NO” che risultava ai familiari in Italia così incomprensibile, e che essi ribadivano anche nelle lettere a casa, scaturiva anche da altre ragioni, oltre l’onore e la dignità? In Teresio Olivelli, giovane ufficiale cattolico, l’invocazione a Dio rinforza la sua determinazione. Sarà ucciso dai tedeschi il 12 gennaio 1945 per aver protetto un ebreo nel campo di Hersbruck. La sua preghiera diventa il suo testamento: “Signore, facci liberi! (…) serra le nostre labbra. Spezzaci, ma non lasciarci piegare (…) liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie…. rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.” Nella lettera – manifesto del cap. Giuseppe De Toni ai familiari, si dice loro di non insistere per farli tornare perché essi non possono dopo quello che hanno visto. Ma che cosa videro gli internati? Sapevano dell’eliminazione degli ebrei? Vittorio Emanuele Giuntella dice che non sapevano, “agli ebrei fummo più vicini dopo, al rimpatrio, quando sapemmo quella che era stata la loro sorte”. Così anche Alessandro Natta: “Dopo la liberazione abbiamo avuto modo di misurare la nostra condizione sul metro di Mauthausen e Belsen. La nostra fame fu atroce ma abbiamo ancora vergogna della nostra fame pensando al crematorio di Birkenau”. Giuseppe De Toni nella lettera al fratello ed ai familiari, che premevano perché optasse, dice: “Tu non hai visto lo spettacolo della deportazione dei civili in Polonia, tu non hai visto i Russi, non sai come sono trattati vivi o morti i Russi” (De Toni, Non vinti, La Scuola, Brescia, 1980, pag.178). Giovanni Mariot ha un ricordo che non lo abbandona: “Allora ho visto: centinaia di bambini ucraini di 6 – 12 anni, dopo giorni di viaggio in carri bestiame piombati, gettarsi pallidi e terrorizzati davanti al reticolato del mio Lager III a Kustrin – “Italiani, voi siete buoni, pane, pane”. Chiedevano pane a noi morti di fame, con una pagnotta giornaliera da dividerci in 8, 9 o 10 persone, pane fatto con segatura di pioppo impastato e colla di pesce. Sconvolti, gettiamo la nostra fettina che talvolta si impiglia nello sbarramento del filo spinato che ci separa da loro e qualcuno si arrampica per raggiungerla e resta fulminato, gli occhi sbarrati per sempre”. “Ho visto molte donne ebree, russe, lituane, polacche, giovani studentesse universitarie di Varsavia, alcune incinte, tutte ridotte come un branco di bestie, percosse, doloranti, sfigurate, disperate (Mariot, in Noi dei Lager, n. 2 del 2001). Dunque, gli internati italiani non avevano visto le eliminazioni di massa ma le quotidiane storie di ordinaria atrocità su di loro e sulle popolazioni con cui erano occasionalmente venuti in contatto. Ma questo era stato sufficiente per respingere con ogni forza ogni sia pur minima complicità o compromesso. Con i tedeschi non era possibile starci. Ecco perché coloro che avevano ceduto alle pressioni ed erano andati a lavorare per la Germania (si parla degli ufficiali) erano considerati dai compagni alla stregua di traditori. Con maggiore equilibrio, tuttavia, il col. Testa mette in evidenza la drammaticità della loro condizione: “odiati, sospettati, percossi, maltrattati in tutti i modi, ben pochi furono fra loro quelli che poterono incrociare le braccia in una casa di contadino. Tutti gli altri scavarono macerie, caricarono e scaricarono chiatte o treni, fecero i più duri mestieri sempre sotto il pungolo delle baionette. Proprio da questi obbligati uscì quella schiera di uomini che affrontò serenamente e volontariamente il campo di punizione incontrandovi spesso la morte ed i loro corpi sono rimasti dispersi in terra tedesca (Testa, Wietzendorf, Roma,1998, pag. 250). “Non vi può essere neppure – dice Nicola Della Santa – condanna indiscriminata per quelli che aderirono. Oltre i casi gravi di malattia c’era chi aveva lasciato la moglie all’indomani delle nozze, chi aveva i figli piccoli, chi non sapeva più niente della famiglia in zone minacciate dagli spostamenti del fronte. Di quanti rientrarono in Italia una parte si dette alla macchia ma una parte finì addirittura per arruolarsi nelle formazioni partigiane dell’esercito di liberazione” (Della Santa, Fra sterminio e sfruttamento, Le lettere, Firenze, 1992, pag. 316). Non è stata nostra intenzione fare un’agiografia superficiale del comportamento dei militari italiani, in esso ci furono anche limiti e ombre perché, come asseriva Alessandro Natta: “La ferocia dell’oppressione e il peso della sofferenza misero a nudo le virtù e i difetti di ognuno, il guasto di lunghi anni di servitù e di diseducazione politica. Ma proprio per questo tanto più degni ci appaiono i risultati di quell’esperienza che fu per tutti di capitale importanza e per molti giovani la prima viva e illuminante scuola della loro vita” (Natta, op. cit., 85). Parafrasando Giovannino Guareschi possiamo dire che quella che abbiamo raccontato è una storia triste ma riteniamo non deprimente. È la storia insolita di migliaia di uomini che vissero per due anni più di dignità che di pane ed alla fiamma tenue della dignità si scaldarono le ossa. Il giorno della liberazione li trovò vestiti di stracci, con le divise cadenti ma con le stellette al loro posto. La sera prima della liberazione di Wietzendorf (che avvenne nell’aprile 1945) si vissero ore incredibili – racconta Claudio Sommaruga – “dalle baracche dove eravamo confinati si levava un coro immane, quattromila voci, una sola anima: “Oh mia patria …” – uno dei momenti di più intensa commozione della mia vita e il cui ricordo mi turba ancora” (Sommaruga, in AAVV, ANEI,op.cit, 2000, pag .40). La mattina dopo, 16 aprile 1945, il col. Testa poteva annunciare: “Siamo liberi, le sofferenze di venti mesi di un internamento peggiore di mille prigionie sono finite”. Fortunatamente, come testimonia ancora il col. Testa, l’ordine di Hitler di sterminare gli italiani prima dell’arrivo degli alleati non fu eseguito ed i sopravvissuti hanno potuto raccontare questi fatti, ma per quanti altri non vi sono stati testimoni? Uno di essi così annota: “Concludo. Se sono ancora vivo/ e scrivo e ti racconto, vuol dire / che non ho toccato veramente / il fondo. E se non l’ho toccato,/ è grazie a qualcun altro, / che anche per me ha pagato.” (Marcoaldi, op. cit. pag. 96). E allora? L’unica riparazione possibile è la memoria. Uno scrittore francese ha scritto: “Chi ascolta o legge una testimonianza si fa egli stesso testimone”.