Mosaico di pace, settembre 2025 - Dossier "Potere trasformativo dei conflitti"
I conflitti sono passioni, intreccio fecondo di protezione e difesa.
“Si voltò verso di lei e le allontanò una lieve ciocca di capelli dalla guancia ma non disse nulla.
Ci sarebbe stato tutto il tempo per parlare [...].
Fuori l’arpista improvvisò un veloce glissando.
Avrebbe preferito restare là dentro, a osservare quel viso in cui l’amore splendeva come un sorriso attorno agli occhi, ma non era possibile.
Raddrizzo le spalle e le offrì il braccio con un lieve cenno del capo.
‘Mrs Ali,’ disse, godendosi la sensazione di usare quel nome
per l’ultima volta ‘ vogliamo andare a sposarci?”
Helen Simonson, Una passione tranquilla, 2011
“Io e te abbiamo un problema!”. Considero questa espressione la versione breve di ciò che potremmo considerare un conflitto. Soggetti che divergono in presenza di un oggetto interno/esterno, implicito/esplicito mossi da interessi, cioè da passione per l’altro e per l’oggetto medesimo.
Tutto qui, niente di più semplice a descriversi, inestricabile tuttavia nella trama fitta di tessuto affettivo che produce e da cui è generato.
Il conflitto è un continuo andirivieni tra il sé e l’altro, tra oggettività e soggettività, singolarità e pluralità. La parte pulsionale soggettiva, che prende forma di passione, incontra l’altro nella relazione per diventare umano, fragile, rapporto, legame, comunità, progetto.
Passione
La passione “nasce e cresce attraverso un confronto serrato, drammatico, quasi sempre conflittuale tra l’appassionato e il referente della sua passione, o il mondo cui esso appartiene”. (Sergio Moravia, Esistenza e passione in Silvia Vegetti Finzi, Storia delle passioni, 1995)
Nella dinamica conflittuale sperimentiamo estraneità, parti interne che emergono inaspettatamente e sconosciute, così come irriconoscibile diviene l’altro che ci era familiare; esprimiamo rabbia protettiva verso gli “oggetti d’amore”; proviamo odio a motivo di un’indesiderata posizione di dipendenza portata alla ribalta dal condizionamento altrui; sentiamo l’abbandono per la trasformazione o lo sfibrarsi del legame; affiora il risentimento della pretesa dell’uguale; si rivela la necessaria separazione, che ci conferma che noi non siamo l’altro e viceversa; ci gustiamo la soddisfazione per la singolarità che abbiamo riconosciuto e per il saperci fare, la destrezza di chi sa dove mettere le mani.
“... La passione è una miscela esplosiva di felicità e di dolore: felicità connessa al percepirsi attraversati da una tensione che dà un nuovo senso al nostro esistere;” (Sergio Moravia, Esistenza e passione in Silvia Vegetti Finzi, Storia delle passioni, 1995, p. 22)
La necessità dei conflitti per affinare le passioni, l’umano e la convivenza non è scevra da complicazioni, incomprensioni e allontanamenti.
Le forme diversamente articolate di legame restituiscono una specificità conflittuale non replicabile negli esiti per quanto riconoscibile nei suoi ingredienti ricorrenti e disparatamente combinati: piacere, potere, esclusività, appartenenza, interesse e destino comune.
La coppia, nella dualità variamente assortita, i gruppi, nelle diverse misure e dimensioni, le organizzazioni deboli o dominanti, le comunità reali o virtuali sperimentano solo nella conflittualità la possibilità evolutiva e di durata, in una sorta di stabile impermanenza.
Protezione
I conflitti, contrariamente alle più comuni e diffuse divulgazioni, hanno una funzione protettiva, regolativa, generativa e rimandano a potenziali previsioni di felicità.
“La felicità non risiede soltanto nello scambiarsi baci, questa è la parte più facile, ma sta anche nel litigare animatamente con gli altri, nelle discussioni, nei tentativi di negoziazione, nei litigi, nel provare a capire le ragioni degli altri. Ecco dove comincia la felicità. Se non dovesse partire da qui, allora credo che non abbia grandi chance di esistere nella società contemporanea.” (Zygmunt Bauman, Meglio essere felici, 2017, p. 43)
La protezione conflittuale è prioritariamente antidoto alla violenza nelle sue diverse forme: se sappiamo e possiamo confliggere non soccombiamo alla pulsione che spinge a eliminarci e a eliminare, conserviamo e presidiamo la condizione di necessità propria e di esistenza dell’altro.
La regolazione conflittuale consente di rimanere nel gioco affettivo e relazionale, di stabilire accordi che impegnano, di usare il potere personale senza dovere esercitare dominio, restituisce autonomia e capacità di scelta e adattamento senza doversi adeguare alla tirannia e alla imprevedibilità dell’altro. Accettare la misura di condizionamento conflittuale è evidenza di autonomia e libertà.
La generatività conflittuale permette di accedere a una socialità evoluta, di condividere con gli altri l’abbondanza delle relazioni e gli investimenti affettivi senza scartare fatica e ricostruzioni. L’abbondanza nasce dalla intersoggettività, dallo scambio, dalla divergenza. Il conflitto stesso è una misura di abbondanza perché c’è spazio per gli altri, bonificando l’illusoria pretesa della violenza: senza gli altri, senza l’insopportabile perturbazione che gli altri comportano.
Considero queste funzioni un’autentica etica conflittuale.
La singolarità che il conflitto aiuta e chiede di coltivare non è da confondere con la desertificazione affettiva, né con l’isolamento autoriflesso (cfr. società del selfie): le singolarità per diventare tali, cioè vite piene, soggettività libere, hanno necessità di incontrarsi, vedersi e affinarsi nel conflitto.
Il conflitto è, come la passione, il perturbante più efficace: scombina e disordina, anima e vivifica, scardina e decostruisce.
“La passione è uno stato non autoreferenziale ma intenzionale: rimanda a un’alterità, oltre che, naturalmente, a un soggetto intenzionante.” (Sergio Moravia, Esistenza e passione in S.V. Finzi, Storia delle passioni, 1995, p. 23)
E ancora: “È impossibile pensare un individuo appassionato totalmente isolato, completamente solo. Le passioni, come il gioco, richiedono condivisione, compartecipazione, un orizzonte di valori e di regole comuni. Ma il dialogo della passione ha una caratteristica che lo contraddistingue: presume sempre, oltre ai due interlocutori, la presenza di un terzo, di una comunità che si faccia garante della parola data.” (Silvia Vegetti Finzi, Storia delle passioni, 1995, VII).
L’enfasi contemporanea sulle emozioni ha spento e civilizzato le passioni, depotenziandone la spinta vitale e conflittuale. Una presunta ipertonicità emotiva ha prodotto depressione e violenza, paura e disinvestimento affettivo, passivizzazione e pretesa di benessere. Vengono meno i presupposti e la possibilità di utilizzare i conflitti per accedere a se stessi, per costruire legami, per appartenere e partecipare.
“La realtà storica sembra dominata in questo momento dall’odio che separa, frammenta, contrappone, sino a polverizzare le esperienze in gesti che il flusso dei mass media riflette e trasmette nei suoi circuiti a rapida sostituzione. L’eccesso di violenza, dolore, felicità, ricchezza, miseria, vita e morte ha bruciato i codici comunicativi delle emozioni per cui rimaniamo indifferenti di fronte all’assemblaggio casuale dei cadaveri martoriati con i corpi eternamente giovani e trionfanti degli spot pubblicitari. Una contaminazione che dovrebbe risultare profondamente conturbante se la soglia del coinvolgimento emotivo non fosse ormai divenuta così alta da proteggerci da un’inutile mobilitazione quotidiana.” (Silvia Vegetti Finzi, Storia delle passioni, 1995, XIII).
Competenti nei conflitti
La competenza conflittuale è un progetto. Nel senso che ci richiede un investimento previsionale e ci offre un’opportunità: espropriare il futuro a facili e scontate derive affettive che farebbero della divergenza l’anticamera della violenza interpersonale e l’ostacolo a costruire una convivenza orientata alla singolarità e al benessere condiviso.
Nella feritoia tra il desiderio di benessere e la passione per l’altro, tra il limite e la frustrazione contingente, c’è spazio per la visione: progettare è un’attività intrinsecamente umana, fragile, comporta la possibilità di spostare e prevedere in un tempo e in un luogo non ancora presenti le condizioni e l’attuazione di ciò che desideriamo, di ciò che ci appassiona; è un modo di stare al mondo che comporta l’abilità di confrontarsi con la contingenza anche devastata, compromessa, mantenendo costantemente aperta un’appassionata possibilità e coltivando l’intenzione che spinge verso qualcosa che c’è già e che si può ancora affinare assecondando l’umano.
“Mi fu rivolta questa parola del Signore: Che cosa vedi, Geremia? Risposi: Vedo un ramo di mandorlo.” (Geremia 1, 11)
La minaccia al futuro, alla passione previsionale arriva dalla negazione e dal mancato utilizzo dei conflitti come dispositivo di manutenzione relazionale tra le persone, i gruppi e le società. Rischiamo l’estinzione del noi plurale non perché siamo singolari e diversi o perché confliggiamo, ma se non impariamo a stare nelle divergenze senza dover fare difensivamente ricorso all’eliminazione degli altri che ci portano sul terreno della frustrazione, dell’incomprensione, dell’imprevedibile e della ripartenza. L’illusione dell’unità e della complementarietà è da abbandonare. Si tratta di operare un atto fondativo del sociale plurale e intersoggettivo, un diverso saperci fare. Va abbandonata l’idea paranoica che gli altri minaccino la ricostruzione illusoria della forza nell’unità, che gli altri siano colpevoli e causa delle nostre azioni e scelte. Si tratta di tenersi in conto reciprocamente, trovare accordi che consentano la convivenza anche nella distanza e nella disapprovazione. Gli altri possono rappresentare la condizione necessaria per poter costruire una socialità evoluta, che non nega la complessità e la difficoltà delle relazioni, capaci di futuro creativo e spiazzante. (cfr. Paolo Ragusa, Imparare a dire NO, 2013, p.15).
Accedere a se stessi
La gestione competente dei conflitti non può essere un algoritmo, esatto, prevedibile, uguale per tutti e in ogni circostanza. Ciò che è proprio dell’intervento umano, anche confrontandosi con gli sviluppi e le applicazioni più avanzate dell’IA, è il saperci fare, la contestualizzazione, cioè rendere soggettive, singolari, proprie le informazioni, gli accadimenti, le storie educative, le interruzioni, i contraccolpi affettivi, le passioni. Se gestiti bene, non ci distruggono, ma ci restituiscono un’esperienza di separazione, di limite e di confine, ed è proprio qui che si sviluppano buone relazioni e si possono costruire legami evolutivi.
La titolarità e l’accesso a questo unico e prezioso patrimonio è una condizione per la competenza conflittuale. Saperci fare nei conflitti richiede l’abbandono dell’ingenuità che protegge, il sapere essere pronti a tutto, l’avere acquisito abbastanza esperienza da rendersi conto che bisogna vivere la vita come se la si fosse già vissuta e conosciuta. Occorre uscire da un certo spontaneismo che porta a comportarsi così come viene o come ci si sente e scegliere piuttosto una condizione di autenticità: accettare le condizioni, la vita presente e ciò che serve fare, farlo.
Questo è saperci fare e richiede esperienza e conoscenza di sé. Non si tratta di una mossa conflittuale facile, ma semplice se ti appartiene, se hai padronanza di te, se sei “direttamente innestato” nella vita che desideri. (Cfr. Franco La Cecla, Saperci fare. Corpi e autenticità, 2009).
Possiamo così accedere a noi stessi, onorando l’etica soggettiva, e operare un investimento sociale, con gli altri che attendono come risorsa anche il nostro contributo al benessere condiviso, scambiato nei conflitti.
“Colui che è veramente giunto ad avere accesso a se stesso diventa ‘un uomo soddisfatto di sé’.” (cfr. Michel Foucault, La cura di sé, 1985)
Comunicare conflittualmente
Il trattamento dei conflitti deve essere omeopatico: i conflitti vanno trattati con i conflitti. Non possiamo pensare di occuparci di conflitti o di imparare a stare nelle divergenze usando pratiche antagoniste o sedative, espedienti di evitamento; la competenza conflittuale si apprende nei legami conflittuali, non pianificando programmi di controllo e di prevenzione dei conflitti.
È il sistema immunitario delle passioni che agisce conflittualmente nelle divergenze per comprendere, imparare, scambiare, usare compassione.
“Comprensione e compassione sono fonti di energia molto potenti; sono l’opposto della stupidità e della passività.” (Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia, 2001)
La comunicazione conflittuale è un trattamento che ha tali caratteristiche. Può diventare un correttivo della situazione problematica, in blocco, quando prevale una certa cautela o impossibilità comunicativa, generata da sottrazione affettiva e timore della conflittualità.
Necessita uno spostamento operativo rispetto alla comunicazione: da situazione da correggere a correttivo della situazione. La comunicazione conflittuale non è una questione di toni o di aggressività, né ha a che fare con il carattere o con lo stile personale, né riguarda lo sfogo o la franchezza. La comunicazione conflittuale da far crescere tra le persone è quella che segnala un problema e una divergenza di cui occuparsi. La comunicazione conflittuale può diventare un correttivo della situazione problematica se si focalizza sulla divergenza, segnala ciò che non sta funzionando ed esplicita ciò di cui bisogna occuparsi insieme. Cambia di fatto le condizioni di ingaggio comunicativo: non eccita l’attacco perché non attacca ma attende conflitto avendo suscitato divergenza. Non fa ricorso a riparazioni affettive (“comunque ti voglio bene”) o manipolazioni colpevolizzanti (“mi fai star male!”); tiene conto delle emozioni circolanti, rispetta la cornice affettiva specifica (coppia, genitore, collega, cittadino ecc.) e orienta la divergenza sulle criticità in atto. L’esito trasformativo sarà da cercare nella corresponsabilità conflittuale, nella bonifica dell’alienazione della colpa.
È il suo sguardo [quello di un altro essere umano] che definisce e forma noi stessi. Così come non possiamo vivere senza mangiare e dormire, non possiamo comprendere chi siamo senza lo sguardo e la risposta dell’altro. Il risultato di vivere in una comunità senza lo sguardo dove ciascuno ha deciso sistematicamente di non guardarsi l’un l’altro, comportandosi come se non esistessero, sarebbe la follia o la morte.” (Umberto Eco cit. in Zygmunt Bauman, Meglio essere felici, 2017, p. 42)
La comunicazione conflittuale permette di guardarsi e guardare insieme ciò che riguarda me e te, ciò che noi insieme abbiamo messo in campo, spinti e grazie alla reciproca passione.
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Per approfondire
Helen Simonson, Una passione tranquilla, PIEMME, Milano 2011
Zygmunt Bauman, Meglio essere felici, Castelvecchi, Roma 2017
Silvia Vegetti Finzi, Storia delle passioni, Laterza, Bari 1995
Paolo Ragusa, Imparare a dire NO, BUR, Milano 2013
Franco La Cecla, Saperci fare. Corpi e autenticità, Eleuthera, Milano 2009