Mosaico di pace/febbraio/dossier 

La testimonianza di una donna araba israeliana. La pace regge sulla narrazione storica di un popolo e sulla sua identità. E togliere terre non vuol dire cancellare un popolo.
“Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Queste parole del Nazareno mi hanno sempre affascinata e nel contempo mi ha sempre lasciata perplessa: io che sono nazarena, cristiana, cattolica, palestinese, araba e israeliana.
La vita mi sembrava un bel sogno quando cercavo di sopravvivere in mezzo all’ingiustizia, che ha toccato il mio Popolo che, come gli altri, ha diritto alla “vita in abbondanza”.

Perché tutta questa mia perplessità? Perché questa identità confusa?Perché sono turbata io che sono nata a Nazareth e continuo a vivere nella mia amata città?
Sono nata in Palestina durante la Seconda Guerra Mondiale, lì risalgono i miei primi ricordi – tra la fine della guerra e l’inizio di una guerra in Palestina, la “Nakba”, “catastrofe” palestinese, e la nascita di Israele.
Un lungo cammino per ogni Palestinese dovunque sia, un cammino di sradicamento, di dispersione, di negazione, di “Pulizia etnica” come la definisce lo storico Illan Pappe .
Un cammino di oppressione e ingiustizie che dura da generazioni. Sono diventata una cittadina di seconda categoria circondata da profughi e separata dai miei cari membri di famiglia. Sono crescita come straniera nella mia Terra.
Una serie di guerre ha caratterizzato e segnato la mia vita, e tra guerre ho trascorso l’infanzia, la giovinezza e l’età adulta. Eppure, volevo semplicemente godere della vita, della pace, della libertà, dei diritti umani e legittimi per il mio popolo e per tutti i popoli.
La libertà di essere me stessa, di esprimermi senza essere giudicata, di essere integrata, di essere accettata come sono. Volevo godere la gioia di vivere in armonia e non difendermi contro le discriminazioni e l’ingiustizia.
Desideravo comunicare con i miei cari cugini e familiari, con tanti amici, che sono profughi e sono fuori dalla mia e dalla loro terra, subendo continue persecuzione.
Io, come ogni palestinese, ho un sogno: il sogno della giustizia e della pace.
Questo è un elemento comune a tutti i palestinesi, dovunque essi siano: sia nei campi di profughi che in Cisgiordania, a Gaza o a Gerusalemme, in Israele o nella diaspora.
Manteniamo fermo e alto il sogno di pace e non perdiamo la speranza..
Proprio quest’ultima mi fa pensare a una dimensione che va oltre quella politica.
Le dimensione umana, la conservazione e lo sviluppo della struttura sociale, partendo dalla base del popolo che è l’elemento essenziale.
La perdita della terra non è perdita di un popolo.
Come popolo, i palestinesi sono sempre esistiti, da secoli, hanno sviluppato una cultura, una tradizione, un patrimonio, una storia.
L’ingiustizia non è inflitta e perpetrata solo nella sfera dei diritti politici, ma anche nella negazione della storia e dell’esistenza.
È essenziale per un popolo mantenere una coscienza viva, una consapevolezza chiara, una memoria, una storia, una integrità, un legame comune, un’aderenza, una visione lucida, una pace di spirito e una coesione.
Tutto ciò che costruisce una società sana.
Questa è la nostra sfida: tenere alto il sogno di una pace possibile, di un popolo che abbia diritto a vivere. Sfida e sogno non facili in mezzo a tante violenze, alle divisioni e alle lacerazioni imposte alle nostre famiglie tra muri fisici e immateriali, tra privazioni e violazioni di diritti. Tra le diverse narrazioni, manipolazioni della storia, negazione e ignoranza della verità e perdita dell’identità.
I nostri mezzi sono pochi e molto deboli ma giusti.
Non abbiamo altra scelta possibile se non l’essere impegnati a lavorare con lucidità e fermezza per la giustizia e la Pace.
Quest’impegno per me è basato sulla Verità: “Conoscerete la Verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8, 32).
La verità e liberazione dell’odio e cammino nonviolento verso la giustizia.
Ma il riconoscimento della verità e la sua accettazione è cosa difficile. Il cammino verso la verità non è semplice.
Perché è vero che “chi scopre la verità non potrà rimaner indifferente, ma nessuno la vuol scoprire per non togliere la tranquillità”, mi ripeteva spesso un’amica ebrea.
L’impegno alla verita e alla giustizia per la pace richiede fedeltà e coraggio, il coraggio del discernimento per la Pace Giusta e non la “Pax Romana”
È fondamentale comunicare tra di noi che siamo ormai una comunità pluralistica, con tante diversità sia culturali che religiose (siamo ebrei, cristiani e musulmani) sia di nazionalità: palestinesi e israeliani.
La verità è una e porta alla lucidità e alla pace dello spirito mentre le diverse interpretazioni e il maneggio della verità portano ai pregiudizi.
Aprire la mente e il cuore alla verità dei fatti, come sono vissuti e non come sono riportati o rimaneggiati, è l’unico modo per rimettere al centro un dialogo vero e fruttuoso. Accettare il diritto e l’ugualianza dell’altro affinchè l’altro sia un “partner” e che non ci sia piu un pivilegiato e un diseredato dovrebbe essere alla base di ogni dialogo.
Ci sono stati diversi tentativi di dialoghi falsi, dove si parla di un conflitto tra due parti come se fossero due parti uguali quando invece c’è un parte che domina tutto e l’altra che lotta per sopravvivere.
Il pericolo di dialoghi che portano alla “tolleranza” invece che alla “riconciliazione” è da rifuggire per non mascherare e trasformare la realtà e per non deviare le buone intenzioni.
Siamo chiamati secondo la nostra fede cristiana ad essere “operatori di pace”, a lavorare per la pace e non solo a parlare della pace.
La consapevolezza, l’integrità, la lucidità del pensiero e la serenità dell’anima rimangono gli elementi essenziali del dialogo tra i diversi gruppi e questo crea un dilemma davanti al corrente modo di pensare e di imporre un pensiero dominante così diffuso oggi nel nostro Paese.
Prima di parlare di dialogo, dobbiamo abbattere ogni muro di separazione, pur se invisibile, perché questo è un lavoro fondamentale e alla base di ogni società civile.
Questo sarebbe il primo passo da fare.
La nostra fede ci dà Speranza e con essa coraggio e serenità. Occorre, oggi più che mai, far sentire la nostra voce, non solo tra noi stessi, ma occorre comunicare con la società internazionale, con le altre comunità locali, con chi è in ascolto e vuol sentire verità altre, libere da manipolazioni mediatiche e strumentali.
Non siamo un “caso”, bensì persone umane che hanno diritto alla vita.
Se il popolo perde la sua struttura identitaria, se cessa di narrarsi e di narrare, se dimentica la sua storia, la sua lingua, le sue radici e la sua stessa cultura, lede la sua integrità e questo sarebbe una deterioramento irreversibile.
Finchè il popolo esiste ed è cosciente della sua esistenza ci sarà e ci potrà essere speranza.
La politica cambia, ma la vita di un popolo rimane.
A Nazareth, questo cammino si sta realizzando nel Centro dell’associazione “Nasijona-Nazareth”. Un progetto che mira a favorire la rinascita e lo sviluppo del patrimonio artigianale tradizionale palestinese e a promuovere la cultura e l’arte come veicolo di armonia e pace.
Il progetto è nato tre anni fa come movimento di base della comunità palestinese israeliana.
Davanti alla sfida della repressione dell’identità palestinese, il pericolo è quello di diventare diverse entità appartenendo a religioni diverse e di perdere così la memoria, il senso della nostra storia, della lingua e della tradizione che costituisce e rinforza il legame sociale.
L’artigianato palestinese che risale a secoli fa, un lavoro di pizzo fine e preciso e altri lavori belli che le donne palestinese producevano stava per scomparire portando con se nell’oblio la memoria e le stessa storia. Salvare la tradizione, che è un patrimonio importante, e far passare le abilità e le arti alle nuove generazioni perché possano conservarle e proseguirle è un modo per restituire l’identità perduta.
La tradizione è un fattore comune a tutti, tocca il cuore di ognuno per ricordarci che siamo tutti fratelli. Apparteniamo a religioni e denominazioni diverse, siamo di condizione socio-economiche differenti, di educazione varie e di ogni età. Questa è la struttura sociale che ci unisce in armonia per formare, insieme, un bel mosaico.
Centinaie di persone frequentano il centro per formazione o per produzione o per eventi sociali o culturali. Un luogo d’incontro per tutti e di accettazione di ognuno, sia locale che straniero.
Lo scopo dell’associazione è di adoperarsi perché il tessuto sociale attraversato da tensioni di natura politica, sociale e religiosa ritrovi armonia e fiducia.
Una luce in mezzo al buio!


L’autrice
Violette Khoury è laureata in Farmacia a Roma, esercita la professione a Nazareth da più di 40 anni. Membro dell’organizzazione araba per i diritti umani, è impegnata a “Sabeel”, il movimento ecumenico per la giustizia e la riconciliazione tra i popoli. È fondatrice e presidente dell’associazione Nasijona-Nazareth. Il nome Nasijona significa in lingua araba “il nostro tessuto”. “Più di cento donne, cristiane e mussulmane, si sentono unite dal comune desiderio di salvare le arti tessili che solo un anno fa sembravano inesorabilmente condannate all’oblio. L’associazione è riuscita a coinvolgere le ultime donne in possesso di queste arti affinché le trasmettessero ad altre donne. Queste, a loro volta, hanno cominciato a trasmetterle ad altre. Con sorpresa di tutti, dopo un anno di attività, la domanda di partecipazione è cresciuta tanto da mettere l’associazione di fronte alla necessità di dare struttura solida e permanente alle attività ospitate nella struttura messa a disposizione dalle Suore di Nazareth e dai Missionari della Carità” (dal sito: www.latendadiamal.org)


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