Mosaico di pace/maggio 2018/Ultima Tessera

Lo ricordo bene quel pomeriggio di aprile. Il sole batteva sulla panchina del porto dove tantissima gente si affollava per dare l’ultimo saluto a don Tonino. Da due giorni Molfetta, pur preparata a questo evento dalla malattia, vissuta davanti a tutta la città, del suo vescovo, era sotto choc. Dopo la sua morte, due giorni prima, tutta la città era mobilitata ed era diventata un luogo dove ognuno aveva un ricordo da comunicare, un fatto raccontare, un’esperienza da condividere.

Quel vescovo era entrato pesantemente nella vita di tutti. Lo diceva bene il fatto che non ci fosse casa o negozio dove non fosse esposta la sua foto. Soprattutto dal fatto che da due giorni non si fossero interrotte, neanche la notte, le lunghe file di persone che volevano entrare in cattedrale per salutare personalmente don Tonino. In quella bara che fra poco sarebbe stata definitivamente chiusa. Attorno ad essa tanti amici e compagni di viaggio che non avrebbero mai voluto lasciarlo partire.

Pareva quasi che la città si volesse riappropriare del suo vescovo, il quale, con la sua attività come presidente di Pax Christi Italia, era uscito dal territorio di Molfetta ed era diventato un punto di riferimento per tantissimi altri, sia credenti che non credenti, in ogni parte del Paese. E non poteva che svolgersi al porto, davanti al mare che si apriva a Oriente, questo saluto. Anche ricordando la sua ultima avventura, quando aveva guidato 500 persone nella città simbolo dell’odio e della divisione, Sarajevo. Quando, con la sua “Onu dei poveri”, era riuscito a entrare anche laddove l’Onu ufficiale non ce la faceva. Don Tonino ormai era ormai di tanti altri, di tutti quelli che, di qualsiasi provenienza geografica, culturale o religiosa fossero, volevano impegnarsi per costruire un mondo più giusto e umano. Di quei “pacifisti” che i politici e gli esperti “scafati” irridevano. Associando a essi anche don Tonino che qualcuno non aveva esitato a definire, proprio perché contrario alla guerra, “cattivo  maestro” Per questo quel pomeriggio a salutarlo erano arrivati in tanti, anche da lontano.

Tra questi anche io. Non smettevo di piangere. Troppo forti erano sia il dolore che la rabbia. Con la voglia irrefrenabile di chiedere conto a Dio stesso: “Perché fai sempre morire i migliori?”. Quanto bisogno c’era proprio allora nel nostro Paese e nella Chiesa di persone come lui che, con parresia e profezia, annunciassero il Vangelo della pace. Lo vivevo così, come una sorta di grande ingiustizia, quel saluto che pareva definitivamente allontanare don Tonino dalla mia vita.

Poco prima, dopo aver lasciato la cattedrale, avevo per l’ultima volta guardato la finestra della stanza dove si era svolto il suo ultimo, ma non meno significativo tratto di vita.  Mi era parso di rivedere le centinaia di ragazzi che di sera, seduti sotto quella finestra, gli cantavano la serenata. Finendo sempre con la canzone “O freedom”, che invocava quella libertà che lui aveva sempre perseguito e che, adesso con la morte, aveva definitivamente raggiunto.

Così mi facevo portare dai pensieri e dai ricordi. In quel pomeriggio di primavera che, pian piano, correva verso il tramonto. La celebrazione dell’Eucarestia si avviava verso la conclusione. Continuavo a piangere ma la rabbia si trasformava prima in nostalgia poi in una grande eucarestia. Un grazie grande al Signore non solo per avermelo fatto incontrare, ma anche per aver avuto la grazia di essere suo amico e compagno di strada. Forse era proprio lui che in quel momento, salutandomi, faceva scendere su di me – come aveva qualche giorno prima in un saluto pieno di commozione - “la pace della sera”. 

Sono di nuovo qui oggi, sul porto di Molfetta. Il clima è tutt’altro. La città è in festa. Piena di colori. Tante bandiere arcobaleno la decorano bene fanno una città simbolo della pace. A ogni angolo di strada, ad ogni palo della luce, sulla porta di ogni negozio tante immagini di don Tonino. Grandi cartelli portano la sua immagine e una sua frase, quasi a fare di tutta la città una grande antologia degli scritti e dei ricordi di don Tonino.

Non avrei mai immaginato, venticinque anni fa di ritrovarmi qui a fare festa. Oggi arriva Pietro. Papa Francesco sarà prima ad Alessano sulla sua tomba, poi arriverà qui per celebrare, questa volta una eucarestia di festa e di giubilo. Per dire a tutti che non si erano sbagliati quando, accompagnandolo al cimitero, lo avevano acclamato nel pianto, come un santo. Un evento di portata storica che consegna la vita e il messaggio di don Tonino a tutta la Chiesa italiana e alla Chiesa universale.

Un gesto, quello di papa Francesco che si pone in continuità con il viaggio fatto a Bozzolo per celebrare don Primo Mazzolari e a Barbiana per celebrare don Lorenzo Milani. Due preti scomodi che tante difficoltà avevano dovuto sopportare per esercitare il loro ministero profetico nella Chiesa. Don Tonino, un vescovo strano, fratello e amico dei poveri, ma soprattutto testimone e profeta di accoglienza e di pace. Il vescovo che era corso nel porto di Bari per accogliere gli albanesi. Che aveva dormito la notte sotto le pensiline di un distributore di benzina per fare compagnia ai marocchini sfrattati a Ruvo di puglia. Il vescovo che conosceva e rispettava tutti i poveri della città. Incontrandoli e chiamandoli per nome. Che aveva aperto le porte del vescovado agli sfrattati, trovandosi a volte senza neanche il letto su cui dormire. Ma anche un vescovo controverso che destava sospetto e preoccupazioni per gli amanti dello status quo e dell’ordine. Oggi sono qui anche alcuni che, quando era in vita, gli avevano creato problemi; lo avevano accusato di protagonismo e di voler mettere naso in politica, Che tuttavia non aveva mai ceduto pur vivendo sempre nell’ubbidienza. “Mi hanno parlato di tutto meno che di Vangelo. Possiamo andare avanti”, aveva confidato a un amico dopo un ennesimo incontro di chiarimento in Vaticano.

Aspetto l’arrivo di papa Francesco e mi lascio trascinare dai ricordi. Che affiorano tumultuosi. Dalla prima volta in cui ho visto per caso la sua foto di “nuovo vescovo” di Molfetta su “Luce e vita”. Il settimanale della diocesi che arrivava alla redazione di “missione Oggi”.  Mi stupirono le sue parole di saluto ai suoi nuovi compagni di viaggio. Parole strane e inusuali per un vescovo. Che sapevano di vita, di mare, di cose vissute.

Mi ripromisi quel giorno di dare sistematicamente almeno un’occhiata a quel settimanale che forse arrivava da anni in redazione e che nessuno probabilmente aveva mai letto prima. È iniziata così la mia “storia” con don Tonino. Ogni settimana leggevo ciò che scriveva su “Luce e Vita”. Fino a quando, a Natale, non pubblicò una lettera a Gesù Bambino. Gli telefonai per chiedergli di pubblicare quella lettera su “Missione Oggi”. Dopo alcuni squilli di telefono venne la risposta da parte di una persona trafelata che quasi arrivava di corsa. “Vorrei parlare con il vescovo, se è possibile”. “Sono io il vescovo”. Mi presento: “Mi chiamo Eugenio Melandri, sono un saveriano, direttore di Missione oggi”. Non faccio in tempo a finire la frase. “Eugenio, che bello. Sono abbonato a Missione Oggi. La leggo sempre. Poi non sai che quando ero in seminario a Molfetta avrei voluto farmi missionario”.

Non mi voglio fermare nei particolari. Pubblicai la lettera (don Tonino scherzando spesso mi diceva che era stata colpa mia se era stato conosciuto a livello nazionale). E cominciò così la frequentazione e l’impegno comune soprattutto per l’approvazione della legge 185/90. Sarebbero tanti i ricordi che non posso raccontare qui per questioni di spazio: dal primo incontro a Ruvo di Puglia, alle tante iniziative svolte insieme in quel comitato “contro i mercanti di morte” insieme con Graziano Zoni di Mani Tese e Aldo De Matteo delle Acli. Con qualche episodio effettivamente simpatico, quando, soprattutto all’inizio della Campagna, molti, sapendo che c’era un vescovo nel gruppo pensavano che il vescovo fosse Graziano Zoni, sia per la sua stazza che per il suo portamento.

Anni intensi, con tanti incontri, tanta amicizia. Così stretta che, almeno due volte sono stato svegliato da don Tonino nella mia camera da letto, quando, dovendo venire a Parma, viaggiava di notte e arrivava prestissimo la mattina.

Anni di cammino. Fino al giorno in cui, anche di fronte alle difficoltà nel portare avanti l’esperienza di Missione Oggi, cominciai a pensare anche ad altre strade d’impegno. Prima nel 1987. Quando mi fu proposto di candidarmi alla Camera dei deputati. Dissi di no, ma lo confesso, con fatica. Sentivo il peso di tante difficoltà e incomprensioni che lo spingevano a pensare fosse meglio continuare il mio impegno altrove. Ricordo don Tonino, quando venne a Parma per l’ordinazione presbiterale di un gruppo di studenti a Parma. Senza accennare a nulla, ricordo che mi parlò benissimo dei saveriani, del Superiore generale e dei tanti missionari sparsi nel mondo che testimoniavano la fede e la pace. Un modo per incoraggiarmi ad andare avanti. E mi anticipò una cosa che avrebbe detto nell’omelia. Insieme con i giovani studenti che venivano ordinati quel giorno avrebbe dovuto esserci anche Giuseppe Madinelli, che però in quel momento stava morendo in ospedale di leucemia. Don Tonino prese in mano la croce astile che sarebbe stata portata all’altare. Mi invitò a guardare il crocifisso e mi disse che avrebbe ricordato Giuseppe che stava morendo dicendo che era inchiodato dall’altra parte della Croce di Gesù. E concluse: “Questo, in fondo è il posto dove ogni cristiano dovrebbe ambire di stare”.

Due anni dopo, nel 1989, decisi di candidarmi al Parlamento europeo. Prima di fare questa scelta mi recai da don Tonino per chiedergli consiglio. Rimasi tre giorni con lui a Molfetta ma non ebbi il coraggio di parlargliene. Fino a quando, qualche ora prima della partenza, fu lui a rompere il ghiaccio. “Eugenio, lo so perché sei venuto qui...”. “Don Tonino, non ho avuto il coraggio di parlartene”. La sua risposta, ancora una volta spiazzante, non si fece attendere: “Qualsiasi scelta faccia, non abbandonare mai i poveri”. Nel 1982, quando lo avevo conosciuto appena diventato vescovo, mi aveva inviato il suo programma pastorale “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”, con una dedica: “A Eugenio che cammina con gli ultimi con il passo dei primi”. Sono certo che don Tonino non fu contento di quella mia scelta e spesso mi domando se per me sia stata la scelta migliore. Un’inquietudine che mi porterò dentro forse per tutto il po’ di vita che mi resta. Ma a Molfetta durante l’Eucarestia celebrata da papa Francesco ho detto a don Tonino, pur con tutti i miei limiti, di aver fatto di tutto per mettere in pratica la consegna che mi aveva dato.

La celebrazione eucaristica si è conclusa. Papa Francesco è ripartito. La città riprende la sua vita di sempre. Verranno tolte le bandiere della pace e i tanti manifesti che adornavano finestre e vetrine. Comincia adesso un altro tempo di attesa, fino a quando non si concluderà il processo di Beatificazione. Un processo che ha certo senso, ma di cui a me sinceramente interessa poco. Don Tonino è santo: Al di là delle carte processuali, dei testimoni e delle deposizioni. Anche perché tutti questi riti portano insito il pericolo di farne non un santo ma un santino. Un oggetto di devozione.

Forse abbiamo bisogno di essere certi della sua santità proprio adesso, in questo tempo difficile in cui è in atto, come dice Papa Francesco: “la terza guerra mondiale a pezzi”. In questi giorni in cui, come dice il rapporto Sipri, aumenta in maniera esponenziale la produzione e il traffico di armi. Quando finalmente il primo a denunciare la produzione e il traffico di strumenti di morte è il papa stesso e tanti vescovi. Come il vescovo di Iglesias che proprio pochi giorni fa denunciava i ricatto a cui sono sottoposti gli operari che sono costretti per vivere a produrre armi. Anche perché la santità di don Tonino è comprensibile, penso, solo a partire dal suo impegno totale e totalizzante per la pace.

Se volessi, infatti, trovare una mancanza nell’organizzazione della magnifica giornata del 20 aprile, la individuerei nel fatto che don Tonino è stato presentato quasi esclusivamente come vescovo di Molfetta. Non è stato sufficientemente messo in evidenza che don Tonino è stato Presidente di Pax Christi. Sono convinto che, almeno nella percezione comune di tanti che lo hanno conosciuto, la sua santità fatta di amore verso i poveri, attenzione ai bisogni di tutti, capacità i ascolto e di accoglienza nei confronti degli “altri” ecc., sia leggibile e comprensibile soltanto all’interno del suo impegno totale e totalizzante per la pace. Una pace, quella che don Tonino ha predicato e testimoniato fatta non solo di disarmo, di stop alla produzione di armi, d’impegno politico perché il territorio non si trasformasse in arco di guerra ma in arca di pace, di gesti significativi e pregnanti come il viaggio a Sarajevo. La pace che don Tonino ci ha insegnato e testimoniato poteva solo avere le mani e i piedi della giustizia, dell’amore ai piccoli e ai poveri, dell'accoglienza di tutti, anche e soprattutto di coloro che avrebbero potuto apparire ed essere lontani. La pace che ci ha insegnato don Tonino era quella che rifiutava i segni del potere per testimoniare il potere dei segni. Quella che si faceva obiezione di coscienza al servizio militare, ma che poi portava a vivere la vita con la “coscienza dell’obiezione”; la capacità, cioè di dire di no a ogni forma di egoismo, di chiusura in se stessi, di assolutizzazione delle proprie idee.

Il don Tonino, amico e fratello dei poveri, vescovo padre e fratelli di tutti è comprensibile totalmente solo alla luce del don Tonino testimone coraggioso e profetico di pace. Una parola, Pace, a cui occorre dare contenuto e significato, nelle scelte quotidiane di vita. Perché se si va a riflettere davvero sulla parola pace, ridendole il significato pieno che essa porta allora ci si accorge che “Pace più che un vocabolo è un vocabolario, più che una stella è una galassia, più che un'isola è un arcipelago, non è una spiga ma è un covone”.

La Pace “made in cielo” di don Tonino, “frutto della giustizia” è diventata per lui anche prassi pastorale, attenzione ai poveri, agli ultimi, agli immigrati. Visione e prassi di una Chiesa accogliente, che sa camminare con tutti, anche con i non credenti; che non ha paura di strumentalizzazioni. Uso le sue stesse parole: “Non scommettere su una pace non connotata da scelte storiche concrete perché è un bluff. Di discorsi ne stiamo facendo tanti, è venuta l’ora di passare veramente sui crinali della prassi, di impegnarsi, di sporcarsi le mani, gli abiti, non il cuore. Il cuore deve rimanere intemerato. Bisogna passare ormai armi e bagagli sui crinali della prassi, immergendosi veramente nelle scelte storiche concrete, prendendo posizione. Non possiamo rimanere neutrali, ambigui, dire e non dire; qualche volta ci lasciamo prendere dal fascino della previdenza per cui diciamo delle cose che possono essere buone per tutte le stagioni. Sono buone perché, a seconda di come spira il vento, noi abbiamo sempre ragione: questa è furbizia. Fare scelte storiche concrete che significa allora? Significa darsi da fare per sanare anche le situazioni di ingiustizia che ci sono nel mondo”. Una pace che prenda le distanze dalla giustizia. “È peggio della guerra quella pace”.

È pienamente comprensibile solo così la santità di don Tonino. Una santità a tutto tondo che coniuga insieme l’attenzione al barbone che vive alla stazione o all’ubriaco che dorme sotto la barba, con l’impegno contro la militarizzazione delle Murge, per una legislazione riduttiva del commercio delle armi o per i marocchini di Ruvo che dormono sotto la pensilina del distributore. Resterebbero isolati e non parte del disegno di tutta la sua vita i tanti gesti di amore e di accoglienza dei poveri se non fossero letti anche attraverso il viaggio a Sarajevo o le lunghe ed estenuanti audizioni alle commissioni parlamentari. Sapendo che, non avendo più da spendere i segni del potere, ma soltanto il potere dei segni. “Il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce della società contemporanea, collocare dei segni vedendo i quali la gente deve capire verso quali traguardi stiamo andando e se non è il caso di operare qualche inversione di marcia. Ecco il potere dei segni e i segni del potere. I segni del potere non ne abbiamo più, non dobbiamo averne; ecco perché non dobbiamo neanche affliggerci. Io come vescovo adesso non mi debbo affliggere più che tanto perché ci sono 3.000 marittimi nella mia città di Molfetta che sono sbarcati perché ormai le compagnie navali sono in crisi, imbarcano i terzomondiali ecc. Non devo risolvere io il problema ma le istituzioni; però io devo esprimere solidarietà con questa gente, devo dividere cioè il loro pane nero. Non devo dividere soltanto la mia ricchezza ma devo dividere anche la loro miseria, la povertà di quella gente, lo stile, la sofferenza, tutti grossi problemi”.

A me pare che se non vogliamo fare di don Tonino non un santino ma un santo, non possiamo mettere fra parentesi il suo impegno totale e totalizzante per la pace. E dentro questo grande quadro collocare ogni suo gesto, ogni sua scelta, dalla più grande alla più piccola. Anche per questo la sua santità ha affascinato tutti, soprattutto i più giovani. Perché era fresca, attuale, coinvolgente. Perché ti impegnava in ogni aspetto della tua vita. Ti spostava fuori di casa, nelle strade, nelle piazze, nel mondo. Non a caso tante volte don Tonino mi ha detto che il suo sogno fin da giovane era fare il missionario.

Forse è questo il messaggio che ci arriva dalla giornata del 20 aprile. Don Tonino, partito da Alessano e arrivato a Molfetta, ha dato una testimonianza di santità che supera il suo stesso territorio. Che supera la stessa Italia. È il santo di tutti, sepolto nella terra di tutti. Che continua a richiamarci tutti ad alzarci in piedi per costruire la pace, che per essere tale deve farsi lotta e impegno per la giustizia.

 

 


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