Intervista al patriarca emerito di Gerusalemme MICHEL SABBAH
Mons. Sabbah, come valuta i fatti drammatici di questi giorni? Il mondo è attonito e balbetta chiedendo che si fermino le violenze, ma dopo aver visto il film sulla sua vita, ‘Il patriarca del popolo’, ci sembra di rivedere oggi le stesse immagini di violenza e oppressione di un tempo.
Prima di tutto quella che chiamiamo “terra santa”, in quanto Dio ha voluto fosse santa per tutti i popoli, non lo è più. Gli uomini l’hanno sfigurata. Gli eventi di questi giorni non sono altro che il ripetersi di ciò che abbiamo già visto tante volte: in questa terra gli uomini stanno gettando semi di morte.
Tutti sanno quello che è dovuto a Israele, e quello che è dovuto ai palestinesi. Tutti vedono lo stato d’Israele prendere tutto, ma nessuno ha il coraggio di dire una parola di verità.
Entrambi i popoli hanno bisogno di salvezza. I palestinesi hanno bisogno di essere salvati, ma lo stesso Israele ha bisogno di qualcuno che lo salvi per non vivere nella perenne insicurezza. C’è da salvare Israele. Ma per salvare Israele bisogna avere il coraggio di dirgli che si fermi, che sta camminando sulla via della propria distruzione. E nessuno osa farlo. E’ necessario prendere le misure necessarie per fermare Israele per come sta agendo, per esempio, in questi giorni.
Chi è responsabile di questa situazione così degenerata nei decenni, in una Palestina ancora occupata militarmente e colonizzata con insediamenti illegali e un muro di apartheid lungo più di settecento chilometri?
Israele vuole svuotare Gerusalemme dai suoi abitanti arabi, cristiani o musulmani e ha provocato tutte le violenze attuali. Ma la maggior responsabilità è della comunità internazionale, perchè tutti i Paesi vedono e tutti gli stati sanno ciò che sta dietro ai fatti che oggi insanguinano questa terra.
Il maggior responsabile resta la comunità internazionale che avrebbe il dovere di costringere Israele a concedere alla Palestina uno stato. Anche nel suo non agire la comunità internazionale è colpevole e ha le mani sporche di sangue per quanto accade oggi in terra santa.
Certamente, poi, anche le Chiese hanno una responsabilità speciale al riguardo di questa terra che è santa per tutti. È la terra delle loro radici. Le Chiese hanno il dovere di essere coscienza vigile dei loro popoli e dei loro governi, per dire una parola di verità che porti salvezza e pace a tutti.
Lei ha sempre ricordato che “è un dovere parlare di Gerusalemme, che la Città santa avrebbe dovuto unire e raccogliere tutti i credenti e che l’esclusivismo a favore di un popolo è contrario alla natura della città” (da Michel Sabbah, Voce che grida dal deserto, Ed. Paoline, pag.54). Ci parli, padre, della città santa, dopo che ha detto che “Dio non è più a Gerusalemme. Se n’è andato. Così come l’essere umano. Perché uomini armati hanno preso il sopravvento opprimendo gli altri e piantando odio nei cuori”.
Gerusalemme è la città attraverso la quale Dio ha voluto salvare l’umanità, eppure i suoi abitanti non hanno accolto il dono della pace. La città santa non conosce pace. Qui, Dio ha voluto redimere il mondo intero, eppure Gerusalemme stessa non è redenta. Sembra che su questa città ci sia una maledizione. Ma solo Dio conosce i tempi della salvezza di Gerusalemme e dei suoi abitanti.
Quale potrebbe essere la soluzione migliore per questo lungo e sanguinoso conflitto?
La soluzione normale, la più semplice, la migliore anche per Israele, sarebbe la soluzione dei due stati. I palestinesi hanno già riconosciuto Israele, ma soprattutto hanno già ceduto ad Israele il 78 % della loro terra. E domandano per loro solo il 22%. Eppure Israele continua a dire no ad uno stato di Palestina. Ed è come se ripetesse: “Per voi, niente. Non esisterete mai come stato. Rimarrete sottomessi al governo israeliano”. Questo significa assistere a quello che oggi tutto il mondo può vedere: aggressioni, demolizioni, uccisioni, espropri di case palestinesi.
Oppure si faccia un solo stato, ma l’importante è comunque che tutti, palestinesi e israeliani, abbiano gli stessi diritti.
Forse però non siamo pronti per la soluzione di uno stato unico. Rimangono i rancori e le vendette. Al momento i due popoli non sono capaci di vivere insieme, per cui forse è meglio separarli, finché impareranno a vedere nell’altro l’immagine di Dio, una persona umana e non un nemico. Sì, perché quello che avviene oggi in Palestina è un attacco all’immagine di Dio, che è in ogni persona, israeliana o palestinese.
Il Documento delle Chiese cristiane “Kairos Palestina” dà voce ai cristiani: “In assenza di ogni speranza noi cristiani urliamo in nostro grido di speranza. Gridiamo dal cuore della sofferenza che stiamo vivendo nella nostra terra sotto occupazione” (Kairos Palestina, ed. Messaggero 2010) Al patriarca emerito di Gerusalemme chiediamo: c’è speranza per la terra santa?
Guardando oggi la terra santa, c’è da perdere ogni speranza. ma noi crediamo in Dio e perciò speriamo nonostante tutto. Se guardiamo a come si comportano gli uomini c’è da perdere ogni speranza.
C’è da salvare entrambi i popoli che abitano la terra santa. Ciascuno può fare qualcosa, formando la propria coscienza personale e orientando la coscienza della propria comunità. Si tratta di salvare i due popoli. Entrambi. Non si può dire né ai palestinesi né agli israeliani che non hanno il diritto di esistere. Bisogna garantirlo ad entrambi. Nessuno deve considerarsi superiore all’altro. E ognuno deve vedere nell’altro un fratello. Decenni di violenza hanno portato la gente a crescere nella violenza. Gli israeliani usano la violenza più grande e i palestinesi rispondono con la violenza. Ma gli israeliani sono riusciti a far credere al mondo che i terroristi sono i palestinesi.
Poi, in realtà, c’è anche la resistenza pacifica che nasce dal vedere nell’altro l’immagine di Dio, la persona umana creata da Dio a sua immagine. Una cosa è necessaria: trattarsi da umani con la stessa dignità. L’israeliano non è superiore perché ha più armi o perché ha l’appoggio della comunità internazionale. Deve considerarsi uguale agli altri.
Educarsi alla pace è vedere nell’altro una persona. Questa educazione cambierebbe realmente le cose.
Cosa fare allora? Lei dice spesso che in realtà non sarebbe difficile risolvere questa situazione se si partisse dal principio: ognuno a casa sua. Ma dice anche che “bisogna accollarsi il rischio della pace per cominciare un processo di guarigione nella nostra terra” (M. Sabbah, Voce che grida nel deserto, p.133). E noi cosa possiamo fare?
Cosa fare? La comunità internazionale abbia più coraggio, e agisca secondo le sue proprie decisioni, in quello che riguarda Israele. Le Chiese, coscienza dei popoli, educhino i loro popoli e i loro governi ad avere più verità e più coraggio, per invitare Israele a mettersi sulla via della pace e della giustizia. E ciascuno cerchi la verità di quello che accade in questa Terra Santa. E poi, quando potrete di nuovo ritornare come pellegrini, venite pellegrini di giustizia in terra santa, per cercare l’immagine di Dio nella terra di Gesù e negli uomini che la abitano. Venite a dire una parola di amore, di giustizia e di pace. Una parola di verità.
(a cura di Nandino Capovilla Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. Testo rivisto dell’autore. 18 maggio 2021)
La conversazione con il patriarca Michel Sabbah può essere seguita nel video youtube: https://youtu.be/AhKL9hIttCo