Lisistrata continua a guardare stupefatta il deficit umano di intelligenza che persiste nel mondo a far guerra: non esiste sciopero di donne che possa fermare i guerrieri, sempre a competere su chi fa la pipì più lontano. A febbraio il grandioso Salone di Abu Dhabi ha presentato una delle più grandi fiere di armamenti (non male nemmeno la nostra fiera delle semplici armi “da caccia” di Vicenza, con libero accesso ai bambini), presenti 1.235 espositori di 57 Paesi e giro d'affari gigantesco: nel 2015 le esportazioni sono cresciute del 197 % rispetto al 2014.
Il giro degli affari è miliardario e le commesse degli Stati in difficoltà sono le più ambite: il Medio Oriente in meno di dieci anni ha cresciuto gli acquisti circa del 100 %. Le armi sono sempre più costose e l'elettronica di cui sono dotate vale più del ferro di aerei o navi; se i progettisti pensano realizzazioni sempre più sofisticate e competitive, i clienti pretendono manutenzione e addestramenti. Le tangenti sono dietro l'angolo e, siccome la corruzione è generalizzata, si è dovuto introdurre il reato di “corruzione internazionale” nelle transazioni, sperando nel buon funzionamento dell'azione penale.
Forse c'è di peggio e chi dal basso intende fare qualcosa deve farsi furbo e cercare di saperne di più, perché gli alti comandi militari e gli strateghi sono preoccupati ben più dei politici (che, a partire da Trump, ne sanno più o meno come chiunque di noi) perché non hanno più il controllo sullo “stato delle cose”. Le ricerche dell'United States Institute of Peace hanno analizzato la documentazione delle registrazioni satellitari: di fatto ne deriva il suggerimento a chi studia i conflitti, per prevenirne la deflagrazione o per verificare lo stato dei diritti umani nei paesi in cui esistono i campi di concentramento, di darsi da fare per accedere allo studio delle fotografie satellitari che documentano le manovre degli eserciti, le strutture militari, le istallazioni missilistiche o le prigioni e i lager. D'altra parte gli amici che hanno organizzato a Niscemi le manifestazioni contro il Muos, davano l'allarme contro una delle quattro grandi postazioni americane di controllo delle diverse parti del mondo, di per sé inoffensive per non contenere bombe, ma enormi Gps che, via satellite, vedono tutto. Ma, chi vede che farà?
Gli Usa nel 2010 hanno istituito un Cybercommando perché, non vivendo più ai tempi dello spionaggio alla Mata Hari, la connessione elettronica comporta previsioni d'uso delle comunicazioni on-line che non solo obbligano i governi a violare il diritto alla privatezza dei dati e i politici a temere l'inquinamento delle proprie informazioni (si dice che Putin usi le proprie penetrazioni addirittura nei sistemi di propaganda politica di altri paesi), ma a temere hacker capaci di attacchi informatici sostanzialmente non diversi da atti di guerriglia. Che anche le imprese usino per il tradizionale spionaggio industriale le nuove tecnologie si sapeva e si sa che la Cina è attrezzatissima allo scopo. Allo stesso modo un qualunque anarchico che pensasse di attaccare lo Stato potrebbe sostituire al vecchio sabotaggio bombarolo l'accecamento informatico di un Ministero o della Banca Centrale; oppure diffondere urbi et orbi virus che mandino in disordine milioni di utenti. Mentre sul piano civile non sappiamo più che cosa fare per salvaguardare i diritti d'autore (se diffondo uno scritto sul web o, peggio, su facebook lo abbandono a tutti gli usi e abusi) o i diritti del mercato (Obama diceva che si va sui 1.000 mld. di dollari all'anno di danni e noi aggiungiamo che chi volesse conoscere maestri di quest'arte si rivolga alle mafie della droga), la cosa si fa inquietante sul piano militare. Come usare le forze armate per prevenire un cyber attacco? La difesa ha la preparazione strategica e operativa al riguardo? Si possono costruire fortificazioni virtuali? Il film The imitation game raccontava gli sforzi di Alan Turing per fare una macchina che decrittasse i cifrari nazisti; oggi sono cose d'altri tempi e, come nemico esiziale, un kamikaze può non essere peggiore di un hacker. Anche perché gli hackeraggi più pericolosi sono quelli organizzati dai servizi governativi, mentre i terroristi per realizzare i propri fini debbono proteggere le proprie reti.
Lisistrata guarda Trump e comincia a pensare che, anche se è personalmente convinta che, soprattutto ai maschi la guerra piaccia, siamo a livelli di totale aberrazione: l'intelligenza artificiale potrà essere usata con grandi benefici, ma per ora non vorrebbe che a Trump e soci affidassero la strategia a un algoritmo.
Gli europei da settant'anni non si fanno combattono più con le armi, hanno cercato di creare l'unità del continente e hanno mantenuto un esercito di impiegati dello Stato per dare effettività al “sacro dovere” costituzionale della difesa: in teoria anche i militari “ripudiano la guerra”. Sono, come diceva Bush, gli “stati canaglie” che obbligano i governi alla guerra per difendere i diritti umani: è successo in Afganistan, in Iraq, in Libia, in Siria. D'altra parte oggi non si dice più “guerra” senza aggettivi: è preventiva, umanitaria, chirurgica, magari anche mondiale (il Papa ha detto che è già così). Accade così che “l'industria della sicurezza e difesa costituisce un pilastro tecnologico, manifatturiero, occupazionale, economico e di crescita senza uguali per il Sistema Paese”, come recita il recente ”libro bianco” del governo italiano, che si allinea con gli altri paesi europei.
Il Conflict Barometer dell'Università di Heidelberg che monitora anche le minime situazioni conflittuali nel mondo, ne ha elencate, oltre la ventina di cui veniamo vagamente informati, più di trecento, tra potenziali, latenti, attive, complesse (come i paesi che hanno anche tre o quattro fronti di guerra aperti) e contenziosi interni (menziona perfino l'Italia per la Lega Nord!). Se si parla di pace in senso proprio è di assoluta evidenza che l'esistenza dei conflitti comporta che gli oppressori si armino e gli oppressi si difendano, mentre chi vive in paesi occidentali democratici interviene non con la cooperazione e la diplomazia per prevenire disastri anche a costo di stringere un poco la propria cintola per aiutare i paesi più poveri, ma producendo e vendendo armi. Così può piangere per i morti e le devastazioni di guerre necessarie per “difendere i diritti umani” nel “rispetto della legalità internazionale”, ma intanto investe miliardi di dollari, euro, rubli, yuan, eccetera in armi sempre più sofisticate e pericolose, succube della logica mercantile, ma sempre disposto a fare l'elogio della pace.
Lisistrata vorrebbe abolire gli eserciti perché anche nel quarto secolo a.C. si conoscevano già i massacri, le pulizie etniche, i danni collaterali, i cadaveri, amici o nemici; ma sperava che il progresso dovesse essere anche morale. Ai suoi tempi si sgozzava tranquillamente nei campi di battaglia e non è un caso che a metà del XIX secolo in Russia un gruppo di ufficiali dello zar accusasse l'illegittimità delle armi da fuoco di fronte alla “lealtà” dell'arma bianca. Secondo Lisistrata è un vizio dei maschi, anche se la presenza delle soldate la imbarazza non poco. Ma ormai ragiona sulla follia umana. Infatti tutti sanno che le armi uccidono soprattutto la popolazione civile. Da quando i Ministeri della Guerra del secolo scorso hanno cambiato nome e, dopo l'orrore generale prodotto dalla Prima guerra mondiale, si impegnano solo alla Difesa, le armi avrebbero dovuto perdere mercato. Neppure quando la Seconda guerra mondiale ha constatato massacri inimmaginabili, c'è stata un discernimento di verità: è vero che si è fondata l'Organizzazione delle Nazioni Unite, ma le Grandi Potenze hanno impedito la formazione di una polizia internazionale preventiva (prevista dal cap. VI dello Statuto, dove dice “soluzione pacifica delle controversie internazionali”) e hanno continuato a mantenere eserciti e armamenti. Lisistrata capisce di essere passata a ragionare di etica: può anche lei far lezione sull'ipocrisia del linguaggio (missioni di pace?) e sul processo di falsificazione del reale dovuti ai soliti, vergognosi scontri di potere; ma vorrebbe che, prima di arrivare alle recriminazioni, il cittadino facesse politica, argomentasse sulle scelte comuni e avvertisse che, quando si parla di pace, di patria, di nazione, di conflitti e, inevitabilmente, di guerra, siamo già entrati anche noi nella follia.