Gv 10,11-18

¹¹Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. ¹²Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 

¹³perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. ¹⁴Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, ¹⁵così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. ¹⁶E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. ¹⁷Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. ¹⁸Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

Mosaico della Domenica

In questa quarta domenica di Pasqua il brano evangelico che ci viene proposto è ancora tratto dal vangelo di Giovanni (10,11-18). Si tratta della pagina del Pastore buono o, meglio, del pastore "bello" come si legge nel testo originale. Un pastore che riconosci e che puoi contemplare quasi perdendoti nel suo stesso sguardo. Il pastore bello che esercita un fascino unico sulle pecore. Ma la cosa ancora più interessante e bella è che in questo brano il pastore dimostra di stabilire una relazione intima e profonda con le pecore non solo perché dichiara di essere pronto addirittura a dare la vita per le pecore, a differenza del mercenario che ha ben altre intenzioni. Il fascino è dato dal fatto che queste pecore "ascoltano la voce". Non la parola o il comando ma "la voce" che è uno dei segreti della vita: quando noi riconosciamo una persona dalla voce significa che conosciamo davvero bene quella persona. Ma lasciate che vi dica che, prima di iniziare la registrazione di questo commento, ho avuto un dialogo intenso con un giovane appartenente alla comunità ebraica. Giulio, 26 anni, che fa parte dell'Unione dei Giovani Ebrei Italiani. Con lui ci siamo confrontati sulle parole dell'Enciclica Fratelli tutti. Lui a un certo punto ha detto che ciò che è più importante è riuscire a superare i recinti. Per questo mi sono ricordato di questa pagina evangelica in cui Gesù dice: "E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore". Ho pensato che davvero il sogno e il progetto di Gesù per l'umanità, quello che lui stesso aveva negli occhi e nell'anima, è quello di un gregge che abbandona i recinti chiusi che portano alla morte perché impediscono alle pecore di correre nei prati e di brucare l'erba. Farle restare chiuse in un ovile, in un recinto, significa condannarle a morte. È questa la differenza tra il recinto e l'avere "un solo gregge" è che l'umanità si riconosca nella sua unità. Gesù non si propone come il leader carismatico di un gruppo o il fondatore di una nuova religione, quanto invece come colui che umilmente si pone al servizio di un'umanità nuova che vuole fare nuove tutte le cose e rinnovare la faccia della terra e vuole riconoscersi in questa unità. E allora riconosciamoci fratelli tutti nel senso di stabilire un vincolo che arriva a superare le stesse appartenenze religiose che non significa rinunciare alla propria identità, ma semmai, proprio con questa identità, insieme agli altri, con tutti gli altri, possiamo riuscire a sfamare la nostra fame. Ricordiamocelo che abbiamo chi ha dato la vita per questo sogno e per questo progetto.