Provo a indossare la pelle di Paola e di Claudio, i genitori di Giulio Regeni. Cinque anni di lacrime e rabbia, di vuoti e delusioni. Cinque anni di ricerche affannose e di resistenza, di raccolta di ogni briciolo di notizia e di ricordi segreti del cuore.
Cinque anni di tentativi di depistaggio e di menzogne, di fango che sporca solo chi lo lancia e di silenzi, silenzi, silenzi. Di connivenze e di affari che ti dicono più importanti della vita di un ragazzo. E poi le immagini che non riesci a espellere dalle notti insonni, di un corpo accartocciato come un foglio di carta. Poi finalmente arriva il giorno della giustizia in cui un'aula di tribunale si faccia eco onesta di tutto. Un luogo in cui ogni voce dev'essere accolta con fatti, prove, informazioni ed evidenze, ma chi deve giudicare dà ragione a chi se l'è data a gambe levate e s'è guardato bene dal farsi giudicare. Come se bastasse sottrarsi alla giustizia perché le vittime non abbiano giustizia. Quasi a dar man forte all'esercito dei latitanti. Di nuovo il pianto. La gola che si chiude nel soffrire e la voce che urla la sete di verità non come elemosina ma come diritto. Si riprende il cammino.