In questi giorni, molti dei politici intervistati sulle posizioni espresse dal Papa circa il nuovo programma riarmista, rispondono con un mantra che dice: "Il papa deve dire quelle cose, è un po' il suo lavoro, ma poi tocca a noi fare le scelte concrete".
L'altra versione ascoltata è: "Con il cuore siamo col Papa ma col cervello…". La replica scontata è che l'organo realmente danneggiato sia il fegato. Il copione prevede che in taluni casi l'intervistato assuma un'aria sofferta e addolorata perché deve piegarsi al realismo di un mondo in cui le armi sono necessarie. Non saltano l'appuntamento filosofi e teologi che, con fini argomentazioni storiche, dottrinali, antropologiche e morali, giustifichino la liceità di investire miliardi di euro all'anno per rafforzare la difesa armata e dicono che sarebbe "peccato" piuttosto non farlo. Si respira l'aria di una resa rassegnata e incapace di ribellarsi a un destino che viene presentato come ineluttabile. La politica – invece – quando non è vittima delle lobby e di interessi economici, deve avere il coraggio di elevarsi per scrutare meglio l'orizzonte della storia e mettersi al servizio di progetti di pace. E se giudichiamo questo tempo di guerra come una sconfitta dolorosa, con quale coraggio andiamo a rafforzare le condizioni per proseguire nella stessa strada della guerra e della sua preparazione? Insomma se il Papa ha ragione, si abbia il coraggio di tirarne le conseguenze e di pensare politiche coerenti per un nuovo ordine mondiale. È tutt'altro che utopia.