Ci sono altre guerre e altre aggressioni di cui il mondo non parla. Talvolta sono ad opera di chi, altrove, si presenta travestito da mediatore pacifico. È il caso della Turchia e del Kurdistan iracheno.

E siccome sarà impossibile trovare nell'informazione corrente qualcuno che vi riferisca che due giorni fa Salah, un bambino di 12 anni, è morto a causa dei bombardamenti dell'aviazione turca su Sinjar, nel nord dell'Iraq, è bene che ne parliamo. Per evitare l'ipocrisia dei linguaggi dovremmo avere il coraggio di non dire che Salah "è morto" come si direbbe se uno finisse la propria vita nel letto di un ospedale o di casa sua a causa di una malattia, ma dovremmo riuscire a dire che "è stato ucciso". Se non cominciamo a dire così, ci rassegniamo alla guerra come ad un evento naturale. E invece a Salah hanno portato via all'improvviso vita e futuro, giochi, scuola e famiglia nel fragore di un tetto crollato a causa di un bombardamento aereo e nel silenzio assordante della nostra distrazione colpevole.