Ripropongo la lettura di quelle righe celebri de La notte di Elie Wiesel: "I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini, senza amore né pietà.
Non ero nient'altro che cenere, ma mi sentivo più forte di quell'onnipotente, al quale avevo legato la mia vita così a lungo" (La notte, p 70). Una condanna senza scampo dell'indifferenza di Dio o addirittura del compiacimento con cui assecondava la crudeltà di quegli uomini e non vedeva la miseria di quegli altri. E così arriva quel giorno terribile in cui il pipel olandese di 13 anni viene impiccato. Sotto il suo letto avevano trovato ben nascoste delle armi e quel ragazzino dal volto di angelo infelice, anche sotto tortura, si era rifiutato di fare nomi. Venne impiccato nel campo di Buna e tutti furono costretti a passare davanti a quel corpo che agonizzò per più di mezz'ora a causa del peso leggero che non gli permetteva la morte istantanea. Uno dei prigionieri, costretto a sfilare davanti al corpo penzolante mormorò l'interrogativo che abitava la coscienza di ciascuno: "Dov'è Dio?". "Dov'è dunque Dio? E io sentivo – scrive Wiesel – in me una voce che gli rispondeva: Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca" (p 67). Il mio Dio è debole e fragile. È una strana onnipotenza, la sua. Non è assente e silenzioso. È solidale. Anzi è quel bambino.