Il Vangelo proclamato ieri in tutte le chiese cattoliche del mondo non sembra lasciare scampo.
Non vi è una sola, piccola, via d'uscita per la quale riuscire ad adottare una giustificazione, un'attenuazione o una riduzione. Pena il disinnesco della radicalità o il travisamento del tradimento. Nella pagina finale del Discorso della montagna Gesù si spinge fino a chiedere di amare il nemico e a pregare per i persecutori. E se penso alla tragedia dei conflitti violenti che si stanno combattendo anche oggi sulla faccia della terra, ne devo amaramente dedurre che manca questo apporto specifico dei cristiani. Nel corso della storia non siamo riusciti a porre attenzione e peso su quei versetti. Non c'è stata palestra ove esercitarsi alla pratica di quella radicalità, ovvero la catechesi ha latitato, la predicazione è stata residuale e l'azione – nel migliore dei casi – è stata considerata profetica. Profezia intesa come eroismo o utopia o secondo la follia dei santi che – pertanto – non è alla portata di tutti. Eppure nel tempo dell'escalation della violenza, cioè della scelta militare mostrata e dimostrata come ineluttabile, come l'unica via, come quella dolorosamente inevitabile, è proprio quel contributo dei cristiani che manca. E se tutti sappiamo quali sono i risultati della strada che abbiamo deciso di percorrere finora, nessuno è in grado di dire come sarebbe se mettessimo in pratica quell'insegnamento.