Mentre il coro degli applausi e delle celebrazioni postume è compatto nel celebrare l'uomo e il giornalista Gianni Minà,

mi piacerebbe alzare il dito per far notare ai notabili della politica, dell'informazione e dei palazzi vari che quell'uomo che ha reinventato il modo di fare giornalismo in televisione è morto in esilio. Condannato dai Consigli di amministrazione Rai partoriti ora da destra, ora da sinistra. Mi piace ricordarlo con un articolo che Il Manifesto gli ospitò all'indomani della morte di Luis Sepulveda il 17 aprile 2020. Lui sa perché.

"Nello spazio breve che identifica il respiro di un amico, se n'è andato da questo mondo Luis, Lucho Sepúlveda. Falciato via da quella che è la peste del nostro secolo. Ho voluto bene all'uomo, ma non posso fare a meno di piangere l'intellettuale che aveva partecipato alle lotte per il riscatto dell'America Latina con il coraggio e la forza che hanno solo i visionari, i romantici, i pazzi. Perché Lucho le battaglie non le aveva scansate, le aveva affrontate per davvero. Era un prototipo di scrittore e guerrigliero. Sempre coerente. Ero stato a casa sua e della sua adorata moglie, la poetessa Carmen Yanez, per due compleanni nei quali aveva riunito i suoi numerosi figli e i suoi amici sparsi in tutto il mondo. Sono state giornate indimenticabili. Mi sento più̀ solo, ma ho l'ingenua certezza che adesso lui è ritornato a fare la guardia del corpo al suo amato Presidente Allende. Ciao Lucho, mi mancherai, sapendo con certezza che mi è impossibile ogni lenimento".

 


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