Chissà come e chissà chi ha deciso che la parola lavoro in italiano dovesse derivare dal latino "labor" che stava a indicare pena, sofferenza, fatica.
Nel suditalia ad esempio i dialetti tagliano corto e dicono direttamente "fatica". Per il mondo romano invece, il lavoro era "opus", che indica ingegno, applicazione, creatività, attività manuale e intellettuale insieme. E noi da quella parola abbiamo fatto derivare solo l'opera artistica o architettonica. L'opera si esegue o si realizza. Il lavoro invece si presta. In ogni caso in nessuna delle accezioni in cui si coniuga il lavoro è previsto un riferimento alla morte. Semmai il lavoro è completamento della creazione e, senza che Dio s'offenda, è un miglioramento della sua consegna. Oltre che dal valore della vita umana, è da qui che dovremmo partire per denunciare le condizioni di lavoro che mettono a repentaglio la vita dei lavoratori. E invece stranamente tutti ci risvegliamo all'improvviso quando avviene un incidente e ci scappa il morto. Anzi, a dirla tutta, è ormai tanto abituale, che la cosa non fa più nemmeno notizia. A meno che non siano cinque e tutti uccisi dalla furia di un treno in corsa che se li è trovanti davanti e non dovevano esserci. Uomini e non macchinari, ingranaggi, pezzi di un sistema che vince appalti, punta a impiegare il meno dei soldi e a finire presto. Nemmeno questa accezione è contemplata nell'etimo.