“Parlate della mafia - raccomandava Paolo Borsellino. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”. Che significa: diventate voi stessi il rovescio dell’omertà.

Usate il potere della parola per scrostare la diffidenza, il sospetto, la paura dal corpo sociale. Parlarne vuol dire creare dibattito, far circolare idee come fossero aria nuova nella stagnazione del “non cambierà mai nulla” e nel farci accettare la violenza e il puzzo delle mafie come un fatto ineluttabile e normale. E se è vero che c’è chi ne parla ogni venticinque anni ad anniversari di strage, tu parlane ad ogni occasione e, quando manca l’occasione, creala. Perché parlarne significa creare cultura, ovvero mentalità nuova, familiarizzare con qualcosa, porre le premesse per il cambiamento. E vedere via D’Amelio in questi giorni gremita di ragazzi dagli occhi vivaci e dall’animo fiero, è segno che c’è stato più di qualcuno che in questi anni ha solcato quella raccomandazione di Paolo Borsellino. Per questo possiamo dire che oggi viviamo sicuramente in un Paese diverso da quello di 25 anni fa. Solo ci resta di imparare a riconoscere la pelle delle nuove mafie che non usano l’esplosivo ma il discredito, non i proiettili ma l’isolamento e le cui tracce trovi più nelle pagine di economia e quotazioni di borsa che nella cronaca.


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