Il patriarcato non si presenta mai con le luci psichedeliche e con i titoli al neon.

Al contrario si affaccia subdolamente travestito sempre di buon senso e di buone intenzioni. Il patriarcato adotta l'arte della finzione a regola di vita perché ha compreso da tempo che non sempre si prevale con la violenza delle percosse alla propria donna ma piuttosto con l'ipocrisia di chi le "concede" spazi di vita e di parola. Sarà per questa arte camaleontica di confondersi col bene che anche i ministri non lo riconoscono più? Oppure perché affermarne l'esistenza e l'azione deleteria mette in crisi anche le abitudini e il portamento dei presunti maschi aperti e liberali della famiglia moderna? Il femminicidio non è che la punta dell'iceberg. È la somma di una miriade di sì e di no disseminati nella ferialità delle relazioni, dei discorsi tra maschi, delle apparenti rassicurazioni in pubblico, del diritto assoluto di proprietà che ci abita nel cervello. Il patriarcato ha radici profonde a tal punto che ogni volta che pensi di averlo sradicato ti accorgi che forse avresti dovuto scavare di più. Il ministro che lo nega, ne è la prova eclatante e vivente. Nella Sala della Regina ha provato a stuprare il tentativo di dare vita a un percorso di chiarezza e di libertà fondato su un dolore che non ha parole. E per fortuna non c'è riuscito.

 


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