Riprendo l’incipit dell’articolo di Irene Famà pubblicato su La Stampa di sabato 7 dicembre scorso.
Il carcere dovrebbe essere luogo di riscatto. E gli agenti i custodi di quel luogo così complesso dove quest'anno 86 detenuti si sono tolti la vita.

Eppure il calendario 2025 della polizia penitenziaria è un susseguirsi di foto che fanno sfoggio di forza e muscoli. Dodici scatti con manganelli in pugno, pistole spianate e scudi antisommossa, tecniche per immobilizzare una persona a terra e azioni di contenimento, agenti al poligono e con il volto coperto o giubbotti antiproiettile. «Raccontano la formazione attraverso le varie sfaccettature: lo studio, l'addestramento, l'aggiornamento e l'allenamento», è stato detto durante la presentazione. «È violento e machista», tuonano dal Partito Democratico. «Chiediamo al governo il ritiro immediato». I messaggi che trasmette, sottolineano, «rappresentano le carceri come esclusivo teatro di conflitto e violenza». Così «si rischia di legittimare approcci repressivi, in netto contrasto con il ruolo che il sistema penitenziario dovrebbe svolgere: favorire il reinserimento sociale delle persone detenute e garantire il rispetto della loro dignità». Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro va all'attacco: difende il calendario, parla di «cieco furore ideologico», di «pregiudizio per le divise».


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