Per quanto mi riguarda, il cinema potrebbe essere ancora il cinema muto delle origini perché il cinema parla essenzialmente per immagini.
La parola, nel film, serve solo a dare più forza alle immagini. Quando un regista ha bisogno di ricorrere a troppi dialoghi, a voci fuori campo e a commenti, è perché non riesce a far comunicare la forza delle inquadrature, le espressioni degli attori, il senso delle riprese. Per queste ragioni mi ero avvicinato al film di Wim Wenders su papa Francesco con una sorta di scetticismo curioso per vedere come un regista, che solitamente usa la forza della ripresa e della luce, potesse realizzare un film in cui necessariamente bisognava far spazio alle parole delle considerazioni, dei documenti, delle domande e delle risposte. Praticamente un documentario. Insomma, mi ero preparato ad assistere a quello che oggi chiamano docufilm. E invece mi sono trovato di fonte a un capolavoro (soltanto altre due volte avevo usato questo aggettivo per definire un film) che parla essenzialmente per immagini. D’altra parte è vero che anche Francesco si serve molto dei gesti prima e più che delle parole per comunicare al mondo! Ma nelle mani e nel genio di Wenders tutto questo diventa arte in cui le parole completano e rafforzano il senso ma non sono centrali. Nessun cedimento alla retorica e nessun merletto estetico fine a se stesso in questo film. Solo la forza di un servizio all’uomo da parte di un Papa che riesce a parlare a tutte e tutti con la semplice forza del Vangelo.