Non so se è il simbolo della rivolta di popoli o il semplice sussulto di una coscienza popolare che sente di essere titolare del diritto alla vita per sé e per i propri figli, ma la marcia che, partita con poche centinaia di persone da San Pedro Sula in Honduras strada facendo è diventata un fiume in piena con migliaia di uomini, donne e bambini provenienti anche da El Salvador e dal Guatemala, è copertina eloquente per raccontare i nostri giorni.

Perché è specchio di disuguaglianze macroscopiche che, prima o poi, qualcuno dovrà urlarci contro. Perché lentamente diventa consapevolezza che quella folla immensa non è il frutto amaro di un destino ingrato o dell'imperscrutabile volere degli dei. Semmai è il risultato di un neocolonialismo violento e cinico che abbiamo occultato abilmente per anni e anni. Da qui la reazione stizzita del presidente Usa che, anche personalmente, ha fondato le sue fortune economiche su quel sistema. Quella che impropriamente chiamano "carovana di migranti" e che sarebbe più corretto definire "marcia dei poveri" sembra richiamare come un'eco le parole della Populorum Progressio di Paolo VI (1967) in cui si metteva in guardia dall’ostinata avarizia dei ricchi che non potrà che suscitare «il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili» (n.49).


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